Archivi categoria: divinità

Il mistero della dea Carmenta

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Carmenta è una dea poco nota al pubblico, sia nell’ambiente profano che in quello pagano, pur trattandosi di una divinità fondamentale nel panorama religioso romano. È una delle sole quindici divinità a cui è attribuito un flamine, cioè un sacerdote specializzato e interamente dedicato al suo culto. A lei erano anche dedicate due festività intorno alle idi di gennaio, una delle porte del pomerium, un bosco e una delle rupi del Campidoglio. Non poco. Continua la lettura di Il mistero della dea Carmenta

Nuovo libro: Tradizione Romana – decennale di Ad Maiora Vertite

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Per il decennale di Ad Maiora Vertite abbiamo deciso di riunire diversi autori, professionisti e tradizionalisti, per la realizzazione di questa raccolta di articoli inediti. Con oltre trenta articoli approfonditi, che rispettano i maggiori standard di Ad Maiora Vertite, questo volume è un interessante approfondimento su vari temi della religione romana.

Scorrendo troverai il link per scaricare l’anteprima del testo, con l’indice e la prima pagina di tutti gli articoli presenti.

Dieci anni di AMV

Il fatto di essere giunti a dieci anni di vita mi inorgoglisce molto, poiché è il risultato, non di uno solo, ma di una collettività, che si è impegnata nutrendo questo grande progetto. Una collettività che si è espressa anche nella realizzazione di questo volume che ha richiesto molto lavoro, ma che siamo stati felici di produrre per festeggiare il decimo anno di Ad Maiora Vertite.

Il libro verrà presentato per la prima volta venerdì 28 aprile a Roma in Campidoglio. Ulteriori informazioni in futuro.

Ringraziamenti

Un felice ringraziamento va agli Accademici, ai professionisti e alle altre associazione tradizionaliste,  che hanno contribuito alla stesura di questo testo. Per la prima volta, professionisti del mondo universitario e pagani insieme, senza pregiudizi, collaborano in nome della trasmissione della tradizione.

Come in Roma antica i viri si sono uniti divenendo Quirites (la cui etimologia viene proprio da co-viriuomini insieme), così in Ad Maiora Vertite ognuno, in base alle proprie capacità, ha collaborato per la riuscita di questa grande impresa. E ciò, più di qualunque soddisfazione personale, mi spinge a voler proseguire su questa strada affinché Roma Renovata Resurgit.

Emanuele Viotti Continua la lettura di Nuovo libro: Tradizione Romana – decennale di Ad Maiora Vertite

il culto delle Fate nell’antica Roma

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In un silenzio carico di aspettative, un bambino viene sollevato dal suolo da due braccia salde, sotto il solenne sguardo degli astanti. E’ questa una tappa fondamentale nell’esistenza di una persona, poiché quelle braccia appartengono al padre e quell’atto implica l’accettazione del nascituro in seno alla famiglia. Tale gesto, tollere liberos (“alzare da terra” 1), è il coronamento del parto. Trascorsi nove giorni, otto nel caso si tratti di una femmina, assistiamo ad un altro momento fondamentale, il Dies Lustricus (2) a cui presiede la dea Nundina: è la nascita sociale, non meno importante di quella biologica, poiché rappresenta l’ingresso effettivo nella collettività del nuovo nato con l’assunzione di un’identità propria. E’ in questo giorno, altresì chiamato Nominalia, che diventa un individuo a tutti gli effetti, tramite l’imposizione del nome e di una sorte, con l’invocazione delle Fata Scribunda, le Fate Scriventi (3). Continua la lettura di il culto delle Fate nell’antica Roma

La sacralità dell’avvoltoio

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Tutti conoscono la storia della fondazione di Roma. Quando Romolo e Remo dovettero scegliere chi dei due sarebbe dovuto essere il Re fondatore della nuova città interrogarono gli Dèi. Questi mandarono sei avvoltoi a Remo, e successivamente dodici a Romolo, permettendogli così di ottenere il diritto a regnare. Il dettaglio degli avvoltoi ci viene riportato da numerose fonti.[1]
Continua la lettura di La sacralità dell’avvoltoio

Gli Dei dell’infanzia I: dal concepimento alle prime fasi della gravidanza

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Accanto alle somme divinità dello Stato, avvolte nella porpora e titolari di ecatombi e sontuosissimi templi, nonchè delle rustiche e terrifiche divinità del mondo silvo-pastorale cantate dai poeti, esiste una differente e ben più numerosa schiatta di divinità. Si tratta dei cosiddetti Dèi Minuti (1), o Dèi Certi (2), figure il cui intervento divino si esplica ed esaurisce in un’unica, ma fondamentale, funzione; per tale motivo, nel campo dei moderni studi religiosi vengono talvolta definiti “Dèi dell’Atto”. La sfera di competenza di queste divinità interessa ogni campo (biologico, psicologico, sociale) dell’umana esperienza, sia sul piano individuale che su quello collettivo, accompagnandola in ogni transizione dal concepimento alla tomba. Continua la lettura di Gli Dei dell’infanzia I: dal concepimento alle prime fasi della gravidanza

conferenza “Le divinità familiari nel Culto Romano” 1 novembre 2020

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Fin dall’alba dei tempi il Culto per gli Antenati è alla base di ogni società umana, ma forse è in Roma che i Maiores (lett. “i Maggiori”, gli Antenati) ricevono particolare attenzione, seguendo la tipica tendenza romana ad immaginare molteplici divinità in base ai loro diversi aspetti. Partendo dai Lari (gli antenati “divinizzati”), passando per i Mani, i Lemuri, il Genius, vedremo in che modo i Romani si relazionavano con i propri Maggiori. Vedremo quando e in che modo li avvicinavano per cercarne il favore, e quando invece li scacciavano per conservare la salute della propria famiglia. Vedremo quindi teorie, riti e feste, di uno degli aspetti principali del Culto Romano.
A causa del covid, e per garantire il distanziamento sociale, la prenotazione è obbligatoria tramite mail a: admaioravertite@gmail.com
Per la partecipazione è richiesto un contributo di 5euro, e verrà fornita a tutti i partecipanti una dispensa sul tema trattato.
L’appuntamento è alle ore 10:50 al banco informazioni, poi andremo insieme alla sala conferenze.

La conferenza si terrà nel contesto dell’evento “FESTA DELLE OMBRE- Antenati,Spiriti e Streghe”

Domenica 1 novembre 2020 alle ore 11:00 UTC+01

Piazza Umberto I, Pisogne

Prenotazione necessaria all’indirizzo mail: admaioravertite@gmail.com

Reciprocità nella religione romana: un commento

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In merito all’articolo pubblicato dal sito Mos Maiorum in data 15/10/19 (link) mi sento in dovere di riprendere la discussione nata sul gruppo Hellenismo perché trovo sia molto interessante mettere per iscritto in modo organico alcune riflessioni.

L’autore ritiene -nel suo breve testo- che non sia corretto definire il rapporto tra il romano ed il divino come do ut des se non nel caso specifico del votum. Egli vede in questo una non corretta interpretazione, per la quale il romano costringerebbe la divinità all’azione per mezzo dell’offerta, in una relazione di causalità avente come prima azione quella umana. Egli al contrario ritiene che la divinità sia interamente libera, tanto che «in molti casi non viene nemmeno richiesto un loro intervento esplicito, ma si enuncia solo le condizioni che dovevano essere soddisfatte. Solo se queste condizioni si realizzano e solo successivamente, è l’uomo ad essere in debito», citando come unica eccezione quella della devotio.

Non mi trovo concorde sulla questione a partire dai presupposti che trovo siano frutto di un fraintendimento delle fonti.

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IL CULTO DI NETTUNO (parte II)

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A dispetto dell’importanza del culto, la maggior fonte d’informazione su Nettuno proviene dalle iscrizioni votive, più che dalle fonti letterarie o archeologiche. Benchè raramente nelle dediche siano indicate le ragioni che spinsero il devoto a rivolgersi al dio, talvolta si riscontrano delle eccezioni. Tra gli epiteti di Nettuno, oltre a quello piuttosto comune di Augustus (dalla valenza sostanzialmente politica, di adesione al culto imperiale quando non direttamente rivolta alla salute del princeps 1), figura quello di Pater (2). Non è questo un termine da prendersi alla leggera: solo le divinità originarie dello stato romano, quelle a cui più che ad altre deve la sua esistenza, possono fregiarsi di quest’attributo: oltre a Nettuno, solo Giano, Giove, Marte, Quirino, Saturno e Libero (3). Nettuno è anche attestato con l’appellativo di Adiutor, ossia “ausiliatore” (4) e soprattutto di Redux, “reduce” (5).

 

Marco Vipsania Agrippa, di ritorno dalle vittorie di Mylae, Nauloco ed Azio, farà edificare la Basilica di Nettuno (6), restaurata poi da Adriano (7), situata alle spalle del Pantheon nell’attuale Via della Palombella (8). A Nettuno, in riconoscenza dell’esito dello scontro di Azio, saranno dedicati da Ottaviano i trofei navali (9). Al dio ci si rivolge più in generale per propiziare la via del Mare; che sia la felice conclusione di una carriera marittima, come per Tito Abidio Vero, vicecomandante della flotta di Ravenna (10), o che sia per aver ricondotto incolumi attraverso le tempeste, come nel caso dell’ignoto navigatore salvatosi nel mezzo dello stretto di Sicilia (11). Anche Marco Aurelio e Commodo si trovarono in balia dei marosi, e si rivolsero con ogni probabilità al Signore delle Acque; in questo modo si può spiegare l’offerta di un toro fatta a Nettuno nel 176, per la salute della famiglia imperiale da parte della confraternita religiosa dei Fratelli Arvali (12). Si tratta peraltro dell’unico sacerdozio in Roma che officiò dei riti a Nettuno di cui si abbia notizia, unitamente ad un’altra dedica, sempre da parte degli Arvali, fatta nel 101 in occasione della campagna in Dacia di Traiano. Il dio è invocato insieme ad altre divinità maggiori (Giove, Giunone, Minerva, Salus, Marte, Vittoria, Fortuna, Vesta ed Ercole) per la buona riuscita dell’impresa e per la salute dell’imperatore (13).

Anche questa volta gli viene offerto un toro. Si tratta di una delle offerte massime, nonchè una prerogativa quasi assoluta di Nettuno (14). Questo animale, come il già citato cavallo, presenta delle connessioni con il dio; anche lui è in grado, scalciando la terra, di far zampillare acqua dolce (15). Entrambi questi animali vengono sacrificati e offerti ai flutti, prima di salpare (16); si tratta peraltro di una consuetudine diffusa anche in Grecia, insieme a copiose libagioni di vino (17). La devozione nei riguardi del padre di tutte le acque si registra però ad ogni livello, fino a quello servile; l’unica discriminante è data dal sesso d’appartenenza. Salvo tre rarissime eccezioni (18), tutti i dedicanti sono uomini. Non dipende da un’interdizione sacrale, come nel caso di Ercole o Silvano, ma dal fatto che dalle categorie professionali che si rivolgevano a Nettuno (ufficiali di marina, pescatori, mercanti) erano escluse le donne.

In questo senso, Nettuno era invocato insieme ai Venti e a Tranquillitas (19); viene talvolta associato coi Dioscuri, divinità protettrici dei naviganti (20). L’accezione marittima del dio, ampliatasi con la trasformazione di Roma in una grande potenza navale, non soverchiò mai quella sulle acque interne. Non a caso, nel culto privato Neptunus viene posto in relazione con le Ninfe, le Vires, gli Dèi Acquatici e Benacus (21); sempre, tuttavia, menzionato prima di tutte le altre in ragione della sua importanza. Egli, insieme ad Apollo, è talora riconosciuto dagli scrittori come uno dei Penati, condotti alle coste laziali da Troia, di cui avrebbero innalzato le mura (22). Altra divinità connessa a Nettuno è Furrina, dal momento che le festività a questa dea si svolgono due giorni dopo i Neptunalia (di cui si è già discusso nel precedente articolo); si tratta di una divinità poco conosciuta ma verosimilmente connessa alle acque sotterranee, e dunque partecipe del dominio di Nettuno (23). Soprattutto, gli sono associate due paredre: Salacia, presente già

nelle antiche Comprecationes (formule d’invocazione sacerdotali, 24) e Venilia. Secondo gli antichi, Salacia sarebbe l’acqua che ritorna al largo, mentre Venilia quella che, spinta dal vento, torna a riva (25) e che verosimilmente facilita l’arrivo dei naviganti. In seguito all’assimilazione di Nettuno a Poseidone, il nome di Salacia si fece derivare da salum, “mare”, e specificatamente al fondale (26), oppure all’acqua salsa, ed essa fu assimilata ad Anfitrite e a Teti (27). Altra interpretazione possibile è che Venilia possa essere un altro nome per Furrina, e rappresentare l’acqua sorgiva che sale dalla terra, mentre Salacia le acque che zampillano sotto terra; questo avvicinerebbe Nettuno a divinità indoeuropee quali l’irlandese Nechtan/Nodens e l’indoiranico Apam Napat. Le prerogative di Salacia e Venilia restano tuttavia piuttosto oscure (28).

Ben documentato è il culto, sia in Italia che nelle province. Come già detto nel precedente articolo, il culto di Nettuno nell’Italia meridionale non è che una naturale prosecuzione del precedente culto di Poseidone. La venerazione di questi nel sud della penisola è suffragata anche da dediche votive, come ad Elea, nonché da riferimenti letterari o da prove archeologiche. Scorrendoli in maniera sommaria, a Paestum/Posidonia è evidente sin dal nome; Taranto, le cui origini son legate a Taras figlio del dio, era posta sotto la sua tutela (29). Templi a Nettuno sono attestati nel Lazio a Fregellae (30), in Campania a Baia (31), Sorrento (32) e ad Ercolano, dove sono stati di recente rinvenuti quattro rilievi marmorei pertinenti ad un tempio posto su di una terrazza sopra il mare; essi raffigurano Minerva, Nettuno, Mercurio e Vulcano (33). Templi a Nettuno si hanno a Formiae (34), a Ravenna (35), a Parentium (36) e a Tarentum (37). Estremamente fastosi erano i Neptunalia che si tenevano nei municipi , come le dediche da parte delle autorità locali che si registrano diffusamente (38). Stupisce l’assenza di dediche pertinenti alla Regione VII, l’Etruria, considerata l’importanza che vi ricoprì Nethuns.

Egli presiede infatti alla settima casella del Fegato, alla ventiduesima (insieme a Tin) e alla ventottesima. Risulta in particolare associato alla cistifellea: tale relazione trova conferma anche nelle fonti latine; pare che Ottaviano, il giorno della battaglia navale di Azio, ne abbia trovata una doppia su un unico organo (39). Nettuno è anche uno dei sedici Dèi del templum, occupandone la decima regione (40); ha inoltre la facoltà di inviar fulmini (41). Dell’importanza del dio dà conto anche il Liber Linteus: è un rotolo di

lino, il più lungo testo mai rinvenuto in questa lingua. E’ una sorta di calendario liturgico: senza entrare nel merito di questo documento, è significativo che Nethuns vi sia menzionato ben otto volte, destinatario di offerte sacrificali il 24 settembre (forse perché associato alle piogge autunnali); cosa che fa di lui, se non la principale, tra le più importanti divinità presente nel Liber Linteus. Le immagini del dio son piuttosto rare.

In una gemma incisa da Vulci, una figura (accompagnata dalla scritta Nethunus) armata di tridente prende a calci una roccia, facendo sì che l’acqua ne scaturisca. Questo motivo appare anche su uno specchio di bronzo, dove il dio è raffigurato con i medesimi attributi ma abbracciato ad una figura femminile: alle spalle di Nethuns una roccia, da cui (da una fonte a testa leonina) sgorga acqua. Potrebbe trattarsi della rappresentazione del mito di Amymone. Figlia di Danao, fu mandata alla ricerca di acqua dal padre, il sovrano di quelle terre, poiché Poseidone irato aveva causato una grande siccità. Aggredita da un satiro, venne tratta in salvo dal dio, che la fece sua e con il tridente fece scaturire delle sorgenti. Il dio appare anche in un altro specchio da Tuscania, a consulto con Usil e Thesan, sempre armato di tridente (42), ed infine su una brocca a vernice nera da Caere, ove si legge “nethu<i>nsl. sipaz” (non è chiaro se il secondo termine rappresenti un epiteto del dio oppure un’altra divinità).

A queste testimonianze se ne possono aggiungere altre, meno esplicite. Monete di Vetulonia del III secolo a.e.v. recano gli attributi del dio, quali il tridente e i delfini. Spia della devozione nell’Etruria potrebbe essere suggerita anche dalla tradizione mitica: son detti figli di Nettuno sia Aleso, fondatore della città etrusco-falisca di Falerii, sia Messapo, il sovrano che nell’Eneide guida sul campo le popolazioni dell’Etruria sud-orientale (43). Più a nord, ad Orvieto, è documentato il gentilizio “nethu”, evidentemente connesso con il nome di Nettuno; tale città non è lontana peraltro da Todi, sulle cui monete venne raffigurato il tridente.

Per quanto riguarda la venerazione di Nettuno nell’Italia settentrionale, è stato proposto che fosse l’esito di un’interpretatio, ossia della prosecuzione di un culto di una divinità  dalle competenze analoghe, propria del sostrato celtico. Questa tesi si scontra tuttavia con l’estrema penuria di dediche nelle province d’oltralpe: solo sette ne sono state finora rinvenute. E’ un’eventualità che si sposa meglio con altre province, come quelle africane. Ma al culto provinciale verrà dedicata una trattazione a parte.

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                                    NOTE

1) Ad esempio, CIL VIII 27756: “NEPTUNO [AUG(USTO) SACR(UM)] / PRO SALUTE IMPERATOR(UM) / NOSTRORUM TOTIUSQUE D[OMUS DIVINAE]”.

2) Ad esempio, in CIL XIV 1: “LITORIBUS VESTRIS QUONIAM CERTAMIN[A] LAETUM / EX[H]IBUISSE IUVAT, CASTOR VENERANDEQUE POLLUX / MUNERE PRO TANTO FACIEM CERTAMINIS IPSAM / MAGNA IOVIS PROLES VESTRA PRO SEDE LOCAVI / URBANIS CATIUS GAUDENS ME FASCIBUS AUCTUM / NEPTUNOQUE PATRI LUDOS FECISSE SABINUS”.

3) Gaio Lucilio, Saturae I 3: “..nessuno senza eccezione è designato miglior Padre degli Dèi come Padre Nettuno, Libero, Saturno, Padre Marte, Giano, Padre Quirino”. A quest’elenco si aggiunge Giove, Apollo, Dite ed Enea.

4) CIL XIV 3558: “NEPTUNO / ADIUTORI / SACRUM / M(ARCUS) AEMILIUS / FLACCUS Q(UAESTOR)“.

5) AE 1948, 82: “N[E]PTUNO / REDUCI / L(UCIUS) PORCIUS / SEVERINUS / V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO“. I.L. Alg. 2986: “

6Cassio Dione LIII 27: “..in primo luogo, in onore delle vittorie navali portò a termine l’edificio chiamato Basilica di Nettuno, a cui aggiunse fulgore con gli affreschi raffiguranti gli Argonauti”.

7) Aelii Spartiani, De Vita Hadriani 19 [Historia Augusta]: “A Roma [Adriano] restaurò il Pantheon, i recinti del voto, la basilica di Nettuno, moltissimi templi, il foro di Augusto, le terme di Agrippa, e tutte queste opere consacrò coi nomi originali degli antichi fondatori..”

8) Filippo Coarelli, Roma pag. 281: “..una grande opera laterizia con nicchie e un’abside al centro, inquadrata da due colonne corinzie, costituisce quanto resta della Basilica di Nettuno (si noti il fregio marmoreo con delfini e tridenti, particolarmente adatto alla divinità titolare). L’aula, ora tagliata in due dalla Via della Palombella, era coperta da una volta a tre crociere, secondo uno schema che si ritroverà nella Basilica di Massenzio. Anche in questo caso, non si tratta più dell’edificio eretto da Agrippa, ma della sua ricostruzione adrianea. E’ possibile che l’edificio si identifichi con la cosiddetta Biblioteca del Pantheon, ricordata da un papiro del III secolo“.

9Svetonius, Octavianus 18: “..fondò presso Azio la città di Nicòpoli, e in essa istituì giochi quinquennali; inoltre ingrandì l’antico tempio di Apollo e consacrò a Nettuno e a Marte il luogo dell’accampamento da lui usato, adorno di trofei navali”.

10) CIV V 328: “NEPTUNO DEISQ(UE) AUG(USTIS) / T(ITUS) ABUDIUS VERUS / POST SUBPRAEFECT(URAM) / CLASSIS RAVENN(ATIS) / TEMPLO RESTITUTO / MOLIBUS EXTRUCT(IS) DOMO EXCULTA / IN AREA D(ECRETO) D(ECURIONUM) / CONCESSA SIBI / DICAVIT”.

11) CIL X 3813: “NEPTUNO / SACRUM [..…] / […..] / […]US / VOTUM IN SICULO FRETU / SUSCEPTUM SOLVIT”.

12AE 1950, 180: “..CO]MMODI [PR(INCIPIS)] IUVENT(UTIS) CO(N)S(ULIS) DESI(GNATI) / […] AVILLI […] CELSI […] / [… M ANTONIUS IU]VENIS TI(BERIU) IULIUS FRUGI / […] IOVI OPT(IMO) MAX(IMO) BOVEM MARE[M] / [IUNONI BOV(EM) FEM(INAM) MINERVAE BOV(EM) FEM(INAM) SA]LUTI BOV(EM) FEM(INAM) NEPTUNO T[AURUM] / [… GENIO L(UCI) AUR(ELI) C]OMMODI CAES(ARIS) BOVEM MAREM / [DIVAE FAUSTINAE PIAE] BOV(EM) FEM(INAM) GENIO IMPERATORI[S TAURUM …] / […] DECEMBR(…)”. Le ragioni di quest’offerta possono dipendere dall’episodio in questione, menzionato dell’Historia Augusta. Giulio Capitolino, Marco Aurelio 27, 2 [Historia Augusta]: “Mentre ritornava in Italia per nave, si trovò nel mezzo di una violentissima tempesta“.

13) CIL VI 2074: “Q(UINTO) ARTICULEIO [PAETO] SE[X(TO) ATT]IO SUBURANO CO(N)S(ULIBUS) / VIII K(ALENDAS) APR(ILES) IN CAPITOL[O PRO SALUTE ET REDI]TU ET VICTORIA IMP(ERATORIS) CAESARIS NERVAE / TRAIANI AUG(USTI) GERM(ANICI) [VOTA NUNCUPAVERUNT FRATRE]S ARVALES IN HAEC VERBA QUAE INFR(A) S(CRIPTA) S(UNT) .. NEPTUNE PATER QUAE IN VERBA I(OVI) O(PTIMO) M(AXIMO) PRO SAL(UTE) ET REDITU ET VICTOR(IA) IMP(ERATORIS) CAESAR(IS) DIVI NERVAE F(ILI) NERVAE TRAI(ANI) AUG(USTI) / GERM(ANICI) PRINC(IPIS) PARENTISQ(UE) N(OSTRI) PONT(IFICIS) MAX(IMI) TRIB(UNICIA) POT(ESTATE) P(ATRIS) P(ATRIAE) BOV(E) AUR(ATO) VOV(IMUS) ESSE FUTUR(UM) QUOD HODIE VOV(IMUS) ITA FACSIS TUNC / TIBI IN EADEM VERBA NOM(INE) COLL(EGI) FRATR(UM) ARV(ALIUM) TAURO AUR(ATO) VOV(IMUS) ESSE FUTUR(UM)..”

14Virgilio, Eneide II 201: “Laocoonte, scelto a sorte per Nettuno come sacerdote, solennemente un toro enorme immolava presso le are”. III 118: “..sulle are immolò le vittime richieste: un toro a Nettuno, un toro a te, bell’Apollo, una nera pecora alla Bufera, e agli Zefiri propizi una bianca”. Servio, Ad Aen. III 118: “..la scelta delle vittime è operata in base alla natura delle divinità [..] a Nettuno e a Apollo viene immolato un toro”. Macrobio, Saturnalia III 10, 2: “..anche noi abbiamo nozioni di diritto pontificale; e da quanto ci è noto risulterà che Virgilio Marone era del tutto ignorante di questa disciplina giuridica. Infatti «al re dei celesti immolava un toro sulla spiaggia» [Eneide III, 21, ndt] come l’avrebbe potuto dire, se avesse saputo che è proibito immolare un toro a questo dio o se avesse appreso le conclusioni di Ateio Capitone? Ecco le sue parole, tolte dal libro I del Diritto Sacrificale: «Pertanto non è lecito immolare a Giove un toro, un maiale, un montone». Labeone nel libro LXVIII notò che non si immola un toro, eccetto che a Nettuno, ad Apollo e a Marte. Ecco il tuo pontefice, che ignora quali vittime si debbano immolare e presso quali altari: e dire che lo sanno perfino i sacrestani, e lo zelo degli antichi non ne fece certo mistero. Pretestato gli ribattè sorridendo: ‘A quali dèi si immoli il toro, te lo insegnerà Virgilio stesso, se vuoi consultarlo: «un toro a Nettuno e un toro a te, o bell’Apollo» [Eneide III 119, ndt].”

15) Claudio Rutilio Namaziano I 249: “Ci va di visitare le Terme che prendono il nome dal toro nè troppo tempo o fatica costa inoltrarsi tre miglia. Là le sorgenti non sono viziate da un gusto amaro, nè il loro specchio si scala turbandosi per zolfo fumante. Odore puro e sapore dolce, per chi si bagna, lasciano incerto quale ne sia l’uso migliore. Se si può credere alla fama, dobbiamo i bagni ardenti a un toro che ha portato la fonte allo scoperto scalciando in aria zolle, come fa quando prelude allo scontro e a testa bassa sfrega le corna su un duro tronco; o forse un dio non volle nascosti i doni del suolo bruciante e mentì fattezze ed armi di giovenco..” Virgilio, Georgiche III 232: “..muove all’assalto, lanciandosi a testa bassa sul nemico dimentico, come il flutto, quando comincia a biancheggiare in mezzo all’oceano, ancora lontano e dall’alto si gonfia e al rovesciarsi sulla terra smisuratamente rimbomba fra gli scogli, della rupe stessa non meno grande mentre scoscende; ma dal fondo ribolle il flutto di vortici e in alto scaglia nigror di arene..”.

16) Silius Italicus, Punica XVII 47: “Lo stesso Scipione si affrettò a salpare dalla Sicilia [..] Aveva placato il dio del mare con il sacrificio di un toro, e le sue viscere furono sparse galleggianti sull’acqua blu. Poi, provenienti dalla casa degli Dèi e volando attraverso il limpido cielo apparvero gli uccelli che reggono i fulmini di Giove, tracciando un sentiero sul mare che la flotta doveva seguire. Il suono delle loro strida fu auspicio di successo. Le aquile aprirono la strada attraverso il cielo limpido, mantenendosi ad una distanza tale che l’occhio dell’osservatore potesse ancora scorgerle, e le navi le seguirono fino a raggiungere le coste dell’infida Cartagine..” Cicerone, De Natura Deorum III 51: “..del resto i nostri comandanti quando si mettono in mare sono soliti immolare una vittima ai flutti”. Livio XXIX 27: “Non appena spuntò il giorno, Scipione fatto intimare il silenzio a mezzo di un araldo così parlò dalla nave ammiraglia: «O dèi e dee che abitate i mari e le terre, vi prego e vi imploro che quelle cose che furono compiute, si compiono e in futuro si compiranno sotto il mio comando, tutte per me, la cittadinanza e per la plebe romana, per gli alleati e per le genti di diritto latino, e per quelli che seguono la mia parte e quella del popolo romano, il mio potere militare e religioso per terra e per mare e sui fiumi, abbiano buon fine, e che quelle cose tutte, voi vogliate favorire e facciate aumentare con prosperi successi; manteniate sani e salvi i vincitori, sconfitti i nemici, ornati delle loro spoglie, carichi di preda e reduci trionfanti li riconduciate con me alle loro case; dateci la possibilità di trarre vendetta dei nostri avversari e dei nostri nemici, e vi prego di concedere a me e al popolo romano l’occasione di ripagare duramente la capitale cartaginese con quei castighi che il popolo cartaginese tentò di provocare contro la nostra città». Subito dopo queste preghiere, uccisa una vittima, gettò in mare le viscere crude come è costume e diede il segnale della partenza con la tromba. Partiti con vento favorevole piuttosto gagliardo..” Appiano, Pun. 13: “Nel frattempo Scipione, avendo portato a termine i preparativi in Sicilia, e avendo sacrificato a Giove e a Nettuno, salpò alla volta dell’Africa con cinquantadue navi da guerra e 400 da trasporto..” Civ. V 98: “Cesare [Ottaviano] da Dicearchia sacrificando e libando in mare dalla nave ammiraglia ai venti favorevoli, a Nettuno Tutelare e a Tranquillitas, perché fossero cooperanti con lui contro i nemici di suo padre”. Floro, Epitoma XVIII 3: “..[Sesto Pompeo] gettò in mare un cavallo vivo pur ornato d’oro come doni a Nettuno (così pensavano) affinché il dominatore del mare gli permettesse di regnare sulle sue acque”. ) Stazio, Silva III 2: “O dèi che avete a cuore di salvare le ardite navi e attutire i terribili pericoli delle onde sconvolte dai venti, placate la distesa del mare in tranquilla bonaccia e benevolo il vostro con sesso porga ascolto ai miei voti e che il mormorio dell’acqua non copra col suo rumore la mia preghiera: un grande e prezioso pegno noi consegnamo ai tuoi gorghi, o Nettuno

17) A titolo d’esempio Diodoro Siculo, Biblioteca Storica XVII 104: “Ora [Alessandro] riprese il suo viaggio lungo il fiume ed entrò nell’oceano con i suoi compagni. Lì si imbattè in due isole e su di esse compì ricchi sacrifici. Gettò molte grandi coppe d’oro nelle acque subito dopo aver offerto libagioni con esse. Eresse poi altari a Teti e ad Oceano..” Arriano, Indica XVIII: “E quando Alessandro ebbe dato tutte queste disposizioni, sacrificò agli Dèi, sia a quelli del suo popolo sia a tutti quelli di cui i profeti gli avevano menzionato, sia a Poseidone ed Anfitrite e le Nereidi e allo stesso Oceano e al fiume Idaspe [..] istituì gare artistiche e atletiche, e le vittime per il sacrificio furono distribuite a tutto l’esercito..”

18) Sembra che il dio stesso apparve a Giulia Tyche, liberta ad Ostia, richiedendo questa dedica; AE 1992, 234: “IULIA TYCHE / EX IMPERIO / IUSSA ARAM / NEPTUNO FECI”. Le altre due dedicatarie femminili sono CIL XII 168 e CIL XIII 4713

19) Ad Antium, accanto ad un’ara consacrata a Nettuno (CIL X 6642), sono stati rinvenuti gli altari alla Tranquillità dei Mari ed ai Venti, rispettivamente CIL X 6643 e CIL X 6644.

20) Ammiano Marcellino XIX 10, 4: “..mentre Tertullo sacrificava ad Ostia nel tempio di Castore e Polluce, la bonaccia placò il mare e cominciò a soffiare un mite Austro per cui le navi, entrate a piene vele in porto, riempirono i granai di frumento“. Inno Omerico XXXIII 6-7: “..salvatori degli uomini che vivono sulla erra, e delle rapide navi”. Dediche congiunte a Nettuno sono ad esempio CIL XIV 1 (citata nella nota 1) e AE 1955, 166: “NEPTUNO / CASTORI / POLLUCI / L(UCIUS) CATIUS / CELER / PR(AETOR) URB(ANUS)”.

21) Con gli Dèi Acquatici CIL V 5258:NEPTUNO ET / DIS AQUATILIB(US) / PRO SALUTE ET / INCOLUMIT(ATE) V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO) / C(AIUS) QUART(IUS) SECUNDIN(US)”. Con le Vires da Brixia, CIL V 2285: “NEPTUNO / V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO) VIRIBUS / V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO). Con le Ninfe proviene una dedica da Roma, CIL VI 536: “NEPTUNO AUG(USTO) / ET NYMPHIS / SACRUM / T(ITUS) AELIUS AUG(USTI) LIB(ERTUS) / OLUMPAS PROC(URATOR) / VOTUM S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)”. Altre cinque dediche dalle province. Nella Pannonia ad Emona, CIL III 13400: “NEPTUN(O) / ET NYMPH(IS) / PRO / CASSIA / CLEME/NTILLA / V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO); Crumerum CIL III 3662: “NEPTUNO / ET NYMPHIS / PRO SALUTE IMP(ERATORIS) / CAES(ARIS) M(ARCI) AU/ REL(I) AUG(USTI) ANTO/NIUS [I]LIANUS / PRAEF(ECTUS) COH(ORTIS) V LU[C]E(NSIUM) / POSUIT” e da Vindobona CIL III 14359: “[I](OVI)] O(PTIMO) M(AXIMO) NEPTUNO [AUG(USTO)] / [S]ALACEAE N[Y]MPH[IS FLU]VIO ACAUNO DIS [DEAB] / [US]Q(UE) OMNIB(US) V[EXILL(ARII) LEG(IONIS)] / [VI]II AUG(USTAE) SUB C[URA 3] / A[U]RE[LI] SECUN[DI?] (CENTURIONIS] / [P]R(AEPOSITI) TRA(NS)LATI A LE[G(IONE) X G(EMINA) VII] / [P(IA) V[II] F(IDELI) IN LEG(IONEM) I [ITALICAM] / [GALLIENAM VII P(IAM) VII F(IDELEM) / AUREL(IO) MONTA[NO] / [V(ICES)] A(GENTE) LEG(ATI) L[E]G(IONIS) S(UPRA) S(CRIPTAE) [3 SA] / T[U]URN[I]N[O 3] / [E]T AUREL(IO] [3] / [L]NAVMA[3] / EQ(UITUM) F[EC(ERUNT) MARINIANO ET] / PATERNO CO(N)[S(ULIBUS) 3] / [3] MAIAS”. Dalla Narbonense CIL XII 4186: “] / ITEM TRIB(UNUS) LEG(IONIS) II[3] / GEMELLI PROC(URATORIS) [3] / NEPTUNO ET N[YMPHIS”. Da Capsa, nell’Africa Proconsularis CIL VIII: “NEPTUNO ET N[Y]MPHIS SACRUM / CN(AEUS) IUNIUS CN(AEI) FILIUS PAPIR(IA) [3]M AQUAE[DUCTUM] / F[O]N[TEMPQUE] SUA PEC[UNI]A FECIT / E[T DEDI]CAVIT [D(ECRETO) D(ECURIONUM)]“.

22Macrobio, Saturnalia III 4, 6: “Anche riguardo agli dèi propri dei Romani, cioè i Penati, la sua opera è cosparsa di sottile acume, tutt’altro che trascurato. Nigidio nel libro XIX su Gli Dèi indaga se gli dèi Penati dei Troiani sono Apollo e Nettuno, che secondo la tradizione costruirono loro le mura, e se Enea li trasportò in Italia. Anche Cornelio Labeone a proposito degli dèi Penati fa la stessa ipotesi. Virgilio Marone segue tale opinione..” Arnobio, Adv. Nat. III 40: “Nigidio insegnò che gli Dèi Penati erano Nettuno e Apollo, che una volta dotarono Ilio delle sue mura. Sempre lui, nel suo sedicesimo libro e seguendo l’insegnamento etrusco, indica che ci sono quattro tipi di Penati; e che uno di questi appartiene a Giove, un altro a Nettuno, il terzo alle ombre sottostanti e il quarto agli uomini mortali, facendo alcune asserzioni inintelligibili”. 43: “Accorrete in aiuto, accorrete sempre in aiuto, Dèi Penati, tu Apollo e tu, Nettuno, con la clemenza del vostro nume allontanate tutti questi mali, che mi bruciano, mi atterriscono e mi tormentano”. Così anche Servio, Ad Aen. I 378, II 325, III 119.

23) Su Furrina poco aiuto ci viene dalle fonti classiche. Dumezìl (in Flamini e i Loro Dèi, Domenico Fasciano e Pierre Seguin, pag. 134), in base alla radice linguistica della dea e alla sua posizione in seno al Calendario Romano suggerisce che “..i Furrinalia riguarderebbero l’industriosa fabbricazione delle aperture attraverso le quali le acque interne sono, di forza, portate alla luce”, cosa che renderebbe Furrina “una patrona dei lavori di scavo dei pozzi” o, più in generale, una divinità con il compito di “..comandare le acque segrete, raggiungibili solo grazie all’operosità dell’uomo”. Sulla posizione del culto furrinale, vedi Filippo Coarelli, Roma pag. 476: “Un piccolo edificio, in cui si è voluto riconoscere un piccolo santuario delle divinità siriache, fu scoperto nel 1906 alle pendici meridionali del Gianicolo. Delle tre fasi che furono allora identificate, solo l’ultima ha lasciato strutture consistenti, ancora visibili. Un’iscrizione greca trovata sul posto contiene una dedica a Zeus Keraunios e alle Ninfe Furrine: nelle immediate vicinanze (probabilmente nella soprastante Villa Sciarra) era dunque il bosco sacro di Furrina, dove nel 121 a.e.v. Gaio Gracco si tolse la vita, dopo la sua inutile fuga dall’Aventino. Qui sgorgava una fonte sacra alla Ninfa Furrina, che fu canalizzata al di sotto del tempio.”

24Aulo Gellio, Noctes Acticae XIII 23: “Le formule d’invocazione agli dei immortali proprie del rituale romano sono riportate nei libri dei sacerdoti del popolo romano e in numerose orazioni antiche Vi si trova tra l’altro: «Lua di Saturno, Salacia di Nettuno, Ora di Quirino, Viriti di Quirino, Maia di Vulcano, Erie di Giunone, Moli di Marte e Neriene di Marte»..

25) Agostino, De civ. d. VII 22: “Nettuno già aveva per moglie Salacia che, a sentir loro, era l’acqua del fondale marino. A che scopo le è stata aggiunta anche Venilia? Certamente perché senza alcuna giustificazione mediante il solo desiderio degli indispensabili misteri si moltiplicasse per l’anima disonorata la provocazione dei demoni. Ma si citi l’interpretazione della illustre teologia che con la dovuta giustificazione ci trattenga da questa critica. Venilia, dice Varrone, è l’onda che viene alla spiaggia, Salacia quella che torna al mare..” Varrone, De l.l. V 72: “Salacia, la moglie di Nettuno, deriva il suo nome da salum [alto mare]. Venilia viene dal verbo venire e da quel ventus, di cui parla Plauto: come diceva quel tale trasportato da un vento favorevole sul mare tranquillo: «io godo ventum esse» [«che si sia venuti» e «che ci sia vento»].” Nel Mito, Venilia diverrà la madre di Turno e di Giuturna (divinità delle fonti), o di Canente, consorte di Pico. Virgilio, Eneide X 76: “Turno si saldi alla sua terra natale, lui che ha Pilumno per avo e la divina Venilia per madre..“. Ovidio, Metamorfosi XIV 333: “..“egli, trascurandole tutte, ama una sola ninfa, che si dice che una volta Venilia partorì sul colle Palatino a Giano dai due volti. Non appena questa fu matura per le nozze, venne data in sposa a Pico di Laurento preposto a tutti gli altri pretendenti, essa di rara bellezza, ma ancora più rara per l’abilità del canto, per cui fu chiamata Canente.

26) Agostino, Civ. D. IV 10-11: “Perché dunque l’etere è affidato a Giove, l’aria a Giunone? Alla fin fine se loro due bastavano, perché il mare è affidato a Nettuno e la terra a Plutone? E perché anche essi non rimanessero scapoli, si aggiunge Salacia a Nettuno e Proserpina a Plutone. Ma come Giunone, rispondono, occupa la zona inferiore del cielo, così Salacia la zona inferiore del mare [..] nel mare Nettuno, nel fondo marino Salacia..”

27) Servio, Ad Aen. I 144: “Tritone, divinità marina, è figlio di Nettuno e di Salacia, dea marina che prende il nome dall’acqua salata“.

28) G. Dumezìl, Mythe et Epopee III, p. 81: “Ma Salacia non è sola, esiste una Venilia, con la quale gli antichi hanno pensato, e la maggior parte dei moderni pensa, che ella formi una coppia antitetica [..] Per precisare l’articolazione delle due entità, senza dubbio è sufficiente trasporre le formule varroniane dal più recente al più antico dominio di Nettuno, dal mare alle fonti, ai fiumi, ai laghi e sostituire la direzione dei movimenti cambiando dalle acque marine per il regime variabile del corso continuo delle acque terrestri“.

29) Taranto: Orazio, Carmina I 28: “..da Nettuno, che protegge Taranto”. Velleio Patercolo I 15: “..a Tarentum Neptunia”.

30) Giulio Ossequente, Prodigiorum Liber 2.56C: “A Fregelle il tempio di Nettuno si aprì durante la notte”.

31) Petronio, 104: “..la statua di Nettuno, quella che ho visto nel santuario di Baia”.

32) Silva II 2, 21: “Davanti a quella dimora fa la guardia il cerulo reggitore delle acque tempestose, custode di un pio focolare: di onde amiche spumeggia il suo santuario.” Il tempio, insieme a quello erculeo posto a tutela del porto, si trova nei pressi della villa romana di Pollio Felice.

33) M. Pagano, La nuova pianta della città e di alcuni edifici pubblici di Ercolano, in Cronache Ercolanensi pag. 237.

34) CIL X 6104: “M(ARCUS) CAELIUS M(ARCI) L(IBERTUS) PHILEROS ACCENS(US) / T(ITI) SEXTI IMP(ERATORIS) IN AFRICA CARTHAG(INE) AED(ILIS) PRAEF(ECTUS) / I(URE) D(ICUNDO) VECTIG(ALIBU) QUINQ(UENNALIBUS) LOCAND(IS) IN CASTELL(IS) LXXXIII / AEDEM TELL(URIS) S(UA) P(ECUNIA) FEC(IT) IIVIR CLUPIAE BIS FORMIS / AUGUST(ALIS) AEDEM NEPT(UNI) LAPID(IBUS) VARIS S(UA) P(ECUNIA) ORNAV(IT) / FRESIDIAE N(UMERI) L(IBERTAE) FLORAE UXORI VIRO OPSEQ(UENTISSIMAE) / Q(UINTO) OCTAVIO [MULIERIS] L(IBERTO) ANTIMACHO KARO AMICO”.

35) CIL XI 126: “FLAVIAE Q(UINTI) F(ILIAE) SALUTARI CONIUGI / RARISSIMAE L(UCIUS) PUBLICIUS ITALICUS DEC(URIONALIBUS) ORN(AMENTIS) / ET SIBI V(IVUS) P(OSUIT) HIC COLL(EGIO) FABR(UM) M(UNICIPII) R(AVENNATIS) [SESTERTIUM] TRIGINTA MILIA N(UMMUM) VIVUS DEDIT EX QUOR(UM) / REDITU QUOD ANNIS DECURIONIB(US) COLL(EGII) FABR(RUM) M(UNICIPII) R(AVENNATIS) IN AEDE NEPT(UNI) / QUAM IPSE EXTRU[C]XIT DIE NEPTUNALIORUM PRAESENTIBUS SPORT(ULAE) [DENARII] CENTENI QUINQUAGENI QUOD ANNIS DARENTUR UTEX EA SUMMA SICUT / SOLITI SUNT ARCAM PUBLICIORUM FLAVIANI ET ITALICI FILIORUM ET ARCAM IN QUA POSITA EST FLAVIA / SALUTARIS UXOR EIUS ROSIS EXORNET DE [DENARIS] VIGINTI QUINQUE SACRIFICENTQUE EX [DENARIIS] DUODECIM ET SEMIS ET DE RELIQ(UIS) IBI EPULENTUR / OB QUAM LIBERALITATEM COLL(EGIUM) FABR(UM) M(UNICIPII) R(AVENNATIS) INTER BENEMERITOS QUOD ANNIS ROSAS PUBLICIIS SUPRA S(CRIPTIS) / ET FLAVIAE SALUTARI UXORI EIUS MITTENDAS EX [DENARIIS] VIGINTI QUINQUE SACRIFICIUMQUE FACIUMDUM DE [DENARIIS] DUODECIM ET SEMIS / PER MAGISTROS DECREVIT”.

36) CIL V 328: “NEPTUNO DEISQ(UE) AUG(USTIS) / T(ITUS) ABUDIUS VERUS / POST SUBPRAEFECT(URAM) / CLASSIS RAVENN(ATIS) / TEMPLO RESTITUTO / MOLIBUS EXTRUCT(IS) / DOMO EXCULTA / N AREA D(ECRETO) D(ECURIONUM) / CONCESSA SIBI / DICAVIT”.

37) CIL I2 3168: “L(UCIUS) RUSTICELIS COS(MUS?) / AED(ITUUS?) NEPTUNO SAC(RAVIT)

38) Ad esempio a Ravenna, vedi nota 34, e a Como. CIL V 5279: “L(UCIUS) CAECILIUS L(UCI) F(ILIUS) CILO / IIIIVIR A(EDILICIA) P(OTESTATE) / QUI TESTAMENTO SUO [SESTERIUM] N(UMMUM) QUADRAGINTA MILIA MUNICIPIBUS COMENSIBUS / LEGAVIT EX QUORUM REDITU QUOT ANNIS PER NEPTUNALIA OLEUM / IN CAMPO ET IN THERMIS ET IN BALINEIS OMNIBUS QUAE SUNT / COMI POPULO PRAEBERETUS T(ESTAMENTO) F(IERI) I(USSIT) ET / L(UCI) F(ILIO) SECUNDO ET LUTULLAE PICTI F(ILIAE) CONTUBERNALI / AETAS PROPERAVIT FACIENDUM FUIT NOLI PLANGERE MATER MATER / ROGAT QUAM PRIMUM DUCATIS SE AD VOS”. Ad Atria e ad Aquileia vennero erette dai magistrati locali delle statue di culto al dio; ad Anzio le are di Nettuno, dei Venti e della Tranquillità del mare furono verosimilmente dedicate dalla res pubblica degli Antiates.

39) Plinio XI 195: “Gli aruspici l’hanno consacrata a Nettuno e alla potenza dell’acqua; il divino Augusto ne trovò una doppia il giorno in cui vinse ad Azio”.

40) Marzianus Capella, De Nuptiis Philologiae et Mercurii I 54: “Inoltre, dalla decima [regione] vi radunaste voi, o Nettuno, e Lare Universale, e Neverita, e tu Conso”.

41) Cicerone, De Haruspicum Responsis 20: “..state attenti e porgete mente, non solo orecchio, alle parole degli aruspici: «ATTESO CHE NELLA CAMPAGNA LAZIALE SI E’ UDITO UN BOATO ACCOMPAGNATO DA UN FRAGORE». Lascio in pace gli aruspici, lascio in pace la loro antica dottrina che gli stessi Dèi immortali, stando alla tradizione, hanno rivelata agli Etruschi; non potremmo forse essere noi stessi degli aruspici? Si è udito nella campagna vicina, alle porte di Roma, un sordo boato accompagnato da un pauroso fragore d’armi. Quale di quei giganti che, secondo i poeti, portarono guerra agli Dèi immortali, sarebbe così empio da non riconoscere che con questo scotimento così insolito e forte gli Dèi annunciano e predicono al popolo romano qualche grave evento? Su questo prodigio il responso è in questi termini: «GIOVE, SATURNO, NETTUNO, LA TERRA E LE DIVINITA’ CELESTI ESIGONO RIPARAZIONE». Intendo bene quali sono gli Dèi che, oltraggiati, esigono riparazione..”. Anche Cassio Dione XXXIX 20 riferisce dei boati.

42) L. Bouke Van Der Meer, Votives Places and Rituals in Etruscan Religion, pp 229-230. Nancy Thomson de Grummond, Etruscan Myth Sacred History and Legend, pp. 145-146.

43) Servio, Ad Aen. VIII 285: “..dicono che i Salii vennero istituiti da Morrio re dei Veienti, affinchè con i loro inni lodassero Aleso, figlio di Nettuno”. Virgilio, Eneide VII 691: “Messapo, domator di cavalli, di Nettuno figliolo, che a nessuno con ferro o con fuoco è permesso atterrare, popoli pigri da tempo, schiere disavvezze chiama a un tratto alle armi e il ferro maneggia. Son fescennine falangi, son Equi e Falisci, son quelli che del Soratte hanno i borghi e i campi Flavini, e il lago e il monte del Cimino e i boschi Capeni.” IX 523: “Messapo domator di cavalli, prole nettunia..”. X 353: “..arriva, prole nettunia, Messapo dai bei cavalli”. XII 128: “..domator di cavalli Messapo, prole nettunia”.

 

IL CULTO DI NETTUNO (parte I)

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La sconfinata distesa turchina, schiumeggiante, del mare, in grado con la sua voce perentoria di toccare le corde più profonde dell’uomo, poiché complice della sua inquietudine. E i fiumi, i torrenti e i laghi gonfi di vita, vene e specchi del Mondo. Questo, fondendosi quasi senza soluzione di continuità con la cerulea vastità del Cielo, è il regno di Nettuno.

Nettuno è praticamente indistinguibile da Poseidone. Benché già nelle primissime fonti latine risulti assimilato al dio greco (1), nulla ci induce a dubitare dell’originaria romanità del dio. Ad essere greci, tutt’al più, sono i motivi iconografici: più che ad un’influenza greca a senso unico, possiamo ipotizzare una mediazione a doppio binario da parte degli Etruschi: se il loro dio delle acque, Nethuns, appare con gli attributi tipici di Poseidone, quali il tridente o le creature marine, con rappresentazioni che rimandano ad episodi del Mito (vedremo più avanti) il nome deriva decisamente da Nettuno (2). Diverse le proposte avanzate da antichi e moderni sulla sua etimologia. I primi (3) fanno riferimento alla ierogamia tra terra e acqua, i secondi riconducono il teonimo alla radice indoeuropea *neptu (umidità), da cui anche il latino nubs.

Quella antica trova equivalente corrispondenza nella figura di Poseidone: il nome del dio, ben attestato già presso i Micenei a Pilo e a Cnosso, nelle tavolette in Lineare B, significa appunto “signore/sposo della terra” (4). I moderni han sempre ritenuto che il dominio di Nettuno sui mari seguisse l’influsso ellenico, e che originariamente presiedesse solo alle acque di fiumi e sorgenti (5). Questo è sbagliato per diversi motivi: intanto perchè la sfera di Poseidone si esercita anche su queste acque dolci (6). In secondo luogo, perchè anche gli abitati più interni del Lazio non distano che poche decine di miglia dalla costa, raggiungibile senza difficoltà per via interna o fluviale. Si consideri la vocazione mercantile dei popoli confinanti (gli Etruschi e i Punici, con i quali i Romani siglarono un trattato già nel 509 a.e.v).

Si aggiunga la necessità di controllare le foci del Tevere già in epoca monarchica e il commercio di sale (7), elemento essenziale per l’esistenza umana (8), sottolineano l’importanza che il mare rivestiva per i Latini fin dai tempi più remoti. E’ dunque chiaro, che già allora, i Romani avevano l’esigenza cultuale di gestire l’insidiosa, conturbante distesa marina propiziandosi una divinità: la quale non può essere altra che Nettuno.

Egli è dunque incontestabilmente il signore delle acque. Di tutte le acque (9): nelle fonti letterarie,  il dominio di Nettuno si estende sia alle acque dolci (10) che a quelle salate (11), con una netta prevalenza verso le seconde. Le fonti epigrafiche sembrano dare un quadro di senso opposto, privilegiando il legame con le acque interne (ciò soprattutto in aree come l’Africa o l’Italia settentrionale).

Questo è sicuramente valido laddove Nettuno risulti associato alle Ninfe o a divinità idriche, come Benacus del Garda. Inoltre, i soggetti dedicatari portano gentilizi locali (l’Allius di Reate, il Virius di Ateste, il Sulpicius ed il Coelius dell’ager Brixianus, il Dunillius dell’ager Bergomas ed il Caecillius di Comum); questa induce ad escludere che si tratti di cultori del dio trasferiti dai centri costieri. Resta comunque il fatto che di Nettuno a Roma si privilegiasse la maestà sulle acque che fluiscono o zampillano liberamente dal suolo. Le sue feste del 23 Luglio, i Neptunalia attestati nei principali calendari (12) coincidono proprio col periodo acuto di siccità, il più torrido e afoso dell’anno; una fase critica soprattutto per le colture. Non è un caso che i Neptunalia appaiano sui Menologia Rustica, calendari che forniscono prescrizioni sulle attività relative alla cura dei campi (13).

 

In questo senso, l’apporto idrico fa di Nettuno un dio fecondante: come tale è rappresentato sul manico di un vaso d’argento, rinvenuto in Germania (14), insieme ai suoi soliti attributi, accanto ad un recipiente da cui sgorga dell’acqua e sotto la quale è presente un altare ricolmo di messi. Tuttavia il dio non viene mai esplicitamente salutato come tale, ad esempio con epiteti quali frugifer, come invece avviene per Poseidon Phytalmios (“colui che nutre/genera”), diffusamente adorato in tutta la Grecia (15) fin dall’Età del Bronzo (16). Nel culto è infatti associato a Demetra (17), e a Trezene gli si offrivano non a caso le primizie della terra (18). Talete, il primo filosofo occidentale, sosteneva che il nutrimento di tutte le cose è umido, e poiché l’acqua è alla base di esso, nell’acqua sta l’ἀρχή, ossia il principio di tutte le cose. Aristotele, riportando questa dottrina, la collega a quella ancor più antica (19) che vede Oceano e Teti generatori di ogni cosa.

Questa funzione, come si è detto, trova indiretta corrispondenza della posizione nel calendario dei Neptunalia . Su cui nulla sappiamo, tranne il fatto che si beveva vino e che i partecipanti, per sfuggire all’arsura, si riparavano con delle coperture di fronde e frasche; in epoca successiva a queste feste si aggiunsero dei Ludi, spettacoli tra cui probabilmente le corse di cavalli nel Circo Flaminio (20); il cavallo, insieme al delfino, è l’animale associato al dio (21). Al Flaminio si trova infatti il luogo di culto di Neptunus.

 

Non conosciamo la data di fondazione (22) ma nel 206 a.e.v. era sicuramente già presente, dal momento che le fonti menzionano un prodigioso stillare di sudore dall’altare e dalle porte dell’edificio (23). C’è chi ritiene vi sia un altro edificio di culto in Campo Marzio, forse risalente a Marco Agrippa (24). Tornando a quello in Circo Flaminio, verso la fine della Repubblica o nella prima età augustea venne ricostruito da Gneo Domizio Enobarbo (25), ed ulteriormente abbellito da uno splendido gruppo scultoreo raffigurante Nettuno e l’intera sua corte, un trionfo di figure ed elementi marini (26); il dies natalis del tempio cade il 1 Dicembre (27). Tuttavia, questo luogo sacro è sicuramente molto antico, e forse addirittura precedente al primo Lectisternio del 499 a.e.v. Le prime tracce individuabili del culto di Nettuno risalgono infatti a quest’epoca: in seguito ad una pestilenza, si decretò (dopo la consultazione dei Libri Sibillini) il primo Lectisternium (da lectus sternere, “stendere dei letti”).

 

Si tratta di un’usanza di origine greca, in cui effigi delle divinità vengono poste a coppie su letti, davanti a mense rituali imbandite in loro onore. Di queste prime tre coppie, supplicate in questa occasione, Nettuno era posizionato a fianco di Mercurio (28). Un secondo Lettisternio venne celebrato nel 217 a.e.v, dopo la sconfitta romana sul Trasimeno, dove Nettuno venne celebrato insieme ad altre undici divinità maggiori (29), questa volta a fianco di Minerva. Il rito venne svolto ancora, a più riprese e sempre per ragioni di grande necessità. Questo elenco di dodici divinità richiama il Dodekatheon, gli Dèi Olimpici (e greca è, come si detto, l’origine del rito). Eppure riecheggia, almeno in parte, una tradizione italica, ossia quella relativa ai Dii Consentes propri della religione etrusca (30). Nettuno è uno di essi. A questo gruppo di divinità è dedicato il Portico degli Dèi Consenti al Foro (31), davanti al Tempio di Saturno e proprio sotto al Campidoglio, risalente al III/II secolo a.e.v. Al suo interno, erano conservate a coppie le dodici statue dorate, inclusa quella di Nettuno e Minerva. Una sua ristrutturazione, attestata alla seconda metà del IV secolo, dimostra la longevità di questo culto (32). Questo restauro fu opera del prefetto Vettio Agorio Pretestato, campione della Romanità (in un’epoca dove la superstizione giudaico-cristiana era ormai fuori controllo) ed esponente di spicco della componente gentilizia all’interno del Senato.

Il tridente è presente su emissioni romane (aes signatum) fra il 260 e il 242 a.e.v, ossia da quando i Romani batterono moneta. L’attributo del dio, oltre a delfini, conchiglie ed altri elementi, continua ad apparire per tutto il III, il II e il I secolo a.e.v. Questo avviene anche nelle colonie latine, ricalcando molto spesso la precedente monetazione di quelle città; così a Brindisi, a Luceria in Daunia, a Sibari, a Turii, a Reggio. Da questo si evince come larga parte della fortuna di Nettuno nel meridione d’Italia si debba al fatto che  la sua figura si innestò sul precedente culto di Poseidone.

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                                                       -Adriano Mattia Cefis
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                                   NOTE

1) Gnaeus Naevius, Belli Poenici I frammento 15: “Il vecchio, forte della sua pietà, invocò il dio fratello del re degli dèi, Nettuno signore dei mari..”. Il vecchio è Anchise il quale, allo scoppiare della tempesta rivolge la sua preghiera a Nettuno perché plachi le onde e permetta ai Troiani una sicura navigazione. Quintus Ennius, frammento 2 [Scipio]: “La vasta volta del cielo si fermò in silenzio e l’implacabile Nettuno placò i violenti marosi, il sole trattenne i cavalli dai volanti zoccoli, s’arrestò il corso dei fiumi perenni, gli alberi non più mossi dal soffio dei venti”; frammento 35 [Euhemerus sive Sacra Historia]: “Parimenti Opi mette al mondo Nettuno senza che Saturno lo sappia e lo nasconde in segreto” e 36: “..dove Giove consegna a Nettuno l’impero sul mare, con la concessione di regnare su tutte le isole e su tutte le zone della terra prospicienti il mare”. Annales II 87: “..i cerulei prati di Nettuno”; frammento  407: “..e sulle navi fremeva la pioggia di Nettuno”.

2) Georges Dumezìl, La Religione Romana Arcaica, pp. 570-571: “Quando si osserva il pantheon etrusco nei documenti in lingua indigena, cioè sugli oggetti d’arte o sul Fegato di Piacenza, appaiono due elementi dominanti. Il primo di essi, cui già ci siamo riferiti più volte, è il gran numero di nomi divini tratti dalle lingue italiche. In particolare molti dèi, pur essendo propriamente etruschi, portano nomi latini deformati ma riconoscibili [..] Queste divinità hanno un unico nome, quello che portavano nel loro paese d’origine, sia che siano state completamente importate – persona e nome – sia che, originarie divinità nazionali, siano state assimilate ad antichi dèi stranieri con un’operazione inversa rispetto all’interpretatio etrusca, ed abbiano quindi perduto il loro nome nazionale sopravvivendo soltanto con il nome straniero”.

3) Varrone, De l.l. V 72: “Nettuno trae il suo nome dal fatto che il mare ricopre (obnubit) le terre come le nuvole (nubes) il cielo: il nome deriva da nuptus, che vuol dire copertura, come dicevano gli antichi, da cui il vocabolo nozze (nuptiae) e sposalizio (nuptus).”

4) DEMGOL (Dizionario Etimologico della Mitologia  Greca  OnLine), pag. 308: “Esiste anche un epiteto e-ne-si-da-o-ne, forse da connettere con Ennosìgaios ed Enosìchton, «che muove la terra», ben attestati in Omero e in Esiodo; in Pindaro abbiamo Ennosìdas. Numerose interpretazioni etimologiche si sono susseguite nel tempo. Sembra assai piú attendibile l’ipotesi che, a partire dalla forma Poteidàon, individua nella prima parte del composto un vocativo *Potei-, signore (*poti-, ” «signore della casa», lat. potis) e nella seconda Dàs, l’antico nome della Terra, per cui significherebbe «signore, sposo della terra» “. Di questo legame ne rimane traccia in qualche mito: Pausania VIII 25, 5: “Affermano, che Demetra partorisse da Poseidone una figlia, il nome della quale non credono potere rivelare ai profani, ed il cavallo Arione: e che perciò presso loro, i primi fra tutti gli Arcadi fu Nettuno chiamato Equestre. Allegano versi della Iliade e della Tebaide per servir loro di prova al racconto [..] Vogliono dunque che questi versi alludino al fatto che Nettuno sia padre di Arione. Ma Antimaco lo dice figlio della Terra..”

5) Georges Dumezìl, La Religione Romana Arcaica pag 340: “Al di sopra di tali spiriti dalla specifica competenza, conoscevano i Romani una divinità che, come Tellus per la terra oltre a tutte le varietà di Lari, raffigurasse la virtù generale dell’acqua presente alla superficie del suolo? Può darsi. E può anche darsi che questa divinità sia molto antica: nella sua assimilazione con Poseidone essa però si rinnovò a tal punto da conservare ben poche tracce delle sue originarie caratteristiche peculiari. Questa divinità è Nettuno. Gli studiosi pensano concordemente che Nettuno in origine non fosse il patrono del mare, poco interessante per i primi Romani..” Di diverso avviso è invece Adelina Arnaldi, Il Culto di Neptunus nell’Italia Romana, in particolare pp. 7 e seguire. Diverse considerazioni fatte in questo articolo si basano su questo lavoro.

6) Tra gli altri, vedi Omero, Iliade XII 17: “..pensarono allora Poseidone e Apollo a distruggere il muro, gettandogli contro la furia dei fiumi, quanti dai monti dell’Ida corrono al mare; il Reso e l’Eptàporo e il Càreso e il Rodìo e il Grànico e l’Esepo e il glorioso Scamandro e il Simòenta, là dove molti scudi e cimieri caddero [..] e ricondusse [Poseidone] i fiumi nel loro letto, là dove prima lanciavano l’acque bella corrente”. Pindaro, Olimpiche VI: “..sceso nel mezzo dell’Alfeo [fiume] chiamò Poseidone, l’avo materno dall’ampio potere”. Eschilo, Sette Contro Tebe 307: “Verso quale contrada migliore di questa potrete migrare, se cederete ai nemici la nostra terra dalle zolle profonde e l’acque della fonte Dircea che disseta più di ogni altra corrente, quante ne fa zampillare Poseidone che circonda la terra, con le figlie di Teti?Euripide, Fenicie 187: “..dove Poseidone con il suo tridente fece sgorgare la sorgente di Amimone!Hyginus, Fabulae 187, 7: “Quanto alla morta Alope, Nettuno [Poseidone] la trasformò nella sorgente che da lei prende il nome”. Eusth, Schol. XV Pausania, Descrizione della Grecia II 15, 5: “Si fa anche questo racconto: che in questa terra fu primieramente Foroneo, ed Inaco, non uomo, ma fiume, fu il di lui padre. Foroneo fu giudice fra Nettuno, e Giunone per contendersi il paese, e con esso lui furono giudici Cefiso, Asterione, ed il fiume Inaco. Ora avendo costoro deciso che il paese dovesse essere di Giunone, dicono che Nettuno fece sparire l’acqua. Laonde nè l’Inaco, nè alcun altro de’ sopraddetti fiumi porta acqua se non piovendo, e nella estate mancano le loro acque fuorchè in Lerna”; II 20, 6:A destra dell’ingresso di questa è il tempio edificato in onore del fiume Cefiso. Dicono poi che l’acqua di questo fiume non è stata da Nettuno fatta totalmente sparire; ma ivi specialmente dove è il tempio, lo sentono scorrere sotto terra”. III 21, 5: “Dopo Crocee volgendo a destra sulla strada che conduce diretta a Gizio, giungerai alla piccola città di Egie [..] Ivi è il lago detto di Poseidone; e sul lago è l’edicola e la statua del Nume. E temono di prendere i pesci affermando che chi li pesca muore”. VIII 10: “Da Mantinea escono strade verso l’altra Arcadia [..]

7) Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane II 55, 5: “Venne dopo non molto un’ambasceria dei Veienti, per terminare la guerra e chiedere ammenda dei mancamenti, e Romolo ne assecondò le istanze imponendo: che cedessero le terre in prossimità del Tevere nominati Settepagi; che non si accostassero alle saline presso le bocche del fiume..” Plutarco, Romolo 25, 5: “Avvenuta la rotta dei Veienti, Romolo lasciò fuggire i nemici superstiti e si diresse sulla loro città. I cittadini non resistettero al grave rovescio subito, ma con preghiere ottennero la pace e stipularono un trattato di amicizia per 100 anni e cedettero una gran parte del loro territorio, che chiamano «Septempagio», cioè «I sette distretti», rinunciando al possesso delle saline lungo la riva del fiume”. Plinio XXXI 88: “Il re Anco Marcio diede al popolo 6000 moggi di sale in congiario [distribuzione gratuita] e istituì per primo le saline”. Livio I 33, 9: “[Anco] estese il dominio di Roma fino al mare, e alle foci del Tevere venne fondata Ostia, intorno alla quale furono create delle saline”. Aurelio Vittore, De Viris Illustribus 5, 2: “[Anco] impose un dazio sulle saline”. Quest’ultima informazione sembra anteporne la creazione ad un re precedente ad Anco.

8) Al sale verrà dedicato un approfondimento specifico. A titolo d’esempio, Cassiodorus, Variae XII 24, 6: “..sebbene possa esistere qualcuno che non desidera l’oro, non è mai esistito nessuno che non abbia desiderato il sale”. Cicerone, De Amicitiae XIX 67: “Quanto è più vecchia [l’amicizia], come quei vini che sopportano l’invecchiamento, tanto più dev’essere dolce; ed è vero ciò che si dice, che si devono mangiare molti moggi di sale assieme, perché il dovere dell’amicizia sia soddisfatto”. Sull’uso del sale, oltre a Dioscoride V 109, anche Plinio, che nel trentunesimo libro tratterà ampiamente di questa sostanza; qui si citerà solo questo stralcio. Plinio XXXI 88: “Perfino gli ovini, i bovini e le bestie da soma sono spinti a mangiare soprattutto dal sale, e allora il loro latte è molto più abbondante, e anche la qualità del formaggio è molto migliore. Dunque, per Ercole, senza sale non si può condurre una vita civile; è una sostanza talmente necessaria che l’accezione del vocabolo sale è passata a designare anche i piaceri intellettuali, che prendono tale nome [sales, “scherzi, battute piccanti”, ndt]: ogni divertimento della vita, l’allegria estrema, il riposo dalle fatiche non hanno un altro termine che li indichi meglio. Il sale entra anche nelle cariche civili e nella vita militare col termine salario; aveva anche per gli antichi grande importanza, come si vede dal nome della Via Salaria, derivante dal fatto che si era deciso che per quella via si trasportasse il sale ai Sabini [..] Secondo Varrone gli antichi lo usavano come salsa e risulta dal proverbio che essi solevano mangiare pane col sale. La sua importanza tuttavia si coglie soprattutto nelle cerimonie sacre, giacchè nessuna viene compiuta senza farina salata”. Vedi anche Anthony Harding, Salt in Prehistoric Europe, Luigi Clerici, Economia e Finanza dei Romani, Adalberto Giovannini, Le Sel et la Fortune de Rome (in Athenaeum LXXIII), con bibliografie annesse.

9) Servio, Georgiche IV 29: “..Servio, Georgiche IV 29: “..egli [Virgilio] ha usato il dio come equivalente di acqua [..] Nettuno era il protettore dei fiumi, delle fonti e di tutte le acque”. Agostino, De Civ. Dei. VII 16: “Affermano che Vulcano è il fuoco cosmico, Nettuno le acque cosmiche..”

10) Catullo, Carmina 31: “Che allegria piena, distesa, Sirmione, rivederti piú bella di tutte le isole e penisole che Nettuno solleva sulle acque diverse dei laghi trasparenti o del mare immenso. Delle isole e penisole gioiello, o Sirmione, di quante ne sostiene tra laghi risplendenti e mare aperto, l’uno e l’altro Nettuno..” Virgilio, Georgiche IV 29: “In mezzo all’acqua, stagnante o corrente, getta di traverso salici e grosse pietre, affinchè su ponti frequenti possano sostare e le ali stendere al sole estivo se mai, mentre indugiavano, le spruzzò o improvviso in Nettuno le immerse l’Euro”. Vitruvio, De Architectura VIII 3, 15: “Esistono comunque anche acque dall’effetto letale perché scorrendo su terreni impregnati di umori malsani ne assorbono il potere venefico; come si racconta a proposito della sorgente detta di Nettuno, a Terracina, che provocava la morte di chi impunemente ne avesse bevuto l’acqua, motivo per cui venne interrata.” Ammiano Marcellino XVII 7, 12: “Per questo motivo siffatti terribili fenomeni avvengono nei periodi caldi o di piogge eccessive. È questa la ragione per cui gli antichi poeti e teologi chiamarono Nettuno, che simboleggia la potenza delle acque, Ennosigeo e Sisichthon.” Aulo Gellio, Noctes Acticae II 28: “Sono essi provocati dalla forza dei venti che s’infiltrano nelle caverne e nelle fenditure del suolo? o da quella delle acque che si agitano nelle cavità sotterranee con urti e fiotti (come evidentemente ritenevano i più antichi tra i Greci, che chiamarono Nettuno «lo scuotiterra»)?

11) Cicerone, De Natura Deorum II 66: “..il primo regno, cioè il dominio su tutto il mare, fu affidato a Nettuno che la tradizione vuole fratello di Giove ed il cui nome è un ampliamento del vero nare [Nettuno]”. Stazio, Tebaide II 45: “Qui Nettuno conduce in porto i suoi cavalli, stanchi del mare Egeo; gli zoccoli anteriori scavano l’arena, le estremità, a forma di pesce, si perdono fra le onde.”

12) Le festività di Neptunus si trovano in tutti i Fasti (perlomeno, in quelli abbastanza conservati). CIL I2: Allifani (p. 217), nei Pinciani (p. 219), Maffeiani (p. 225), Guidizzolo (p. 253), Philocaliani (p. 268).

13) Menologia Rustica Colotianum (CIL I2 281).

14) CIL XII 5697.4, dal Rodano (Gallia Narbonense). Citato da Adelina Arnaldi, ibidem pp. 225-226, che aggiunge: “Una rappresentazione di Neptunus come frugifer si avrebbe anche sul mosaico africano di La Chebba, ove l’immagine del dio, su quadriga di ippocampi, è circondata dalle Horae con gli attributi delle quattro stagioni”.

15) Pausania, Descrizione della Grecia II 32, 7: “Fuori delle mura [di Trezene] v’è anche il tempio di Poseidone Phytalmios. Poiché dicono che il dio adiratosi contro di loro rese la terra infruttuosa, essendo penetrata la salsedine ne’ semi e nelle radici delle piante, finchè cedendo ai sacrifici e alle preghiere non mandò più salsedine nella terra. Oltre il tempio di Poseidone v’è quello di Demetra Tesmofora eretto, secondo ciò che narrano, da Altepo”. Poseidon Phytalmios era adorato in Attica, a Megara e sulla penisola di Methana (Trezene, Oga), a Rodi (Camiro e Lindo), a Ios e sulle coste dell’Asia Minore ad Eritre in Ionia, a Cnido e Alicarnasso in Caria. Quest’ultima città sarebbe stata fondata da Anthas, figlio di Poseidone e di Alcione, e vi avrebbe istituito il culto; da lui nacque la discendenza degli Anteadi, sacerdoti di Poseidone a cui era vietato cibarsi di pesce. La fortuna del culto di Poseidone “agricolo” è confermata da Plutarco, Quaestiones Convivales 675F: “Molti erano d’accordo nel sostenere che quella di pino è una corona propria di Posidone, ma Lucanio aggiunse che questa pianta è sacra anche a Dioniso e perciò non è fuori luogo che sia stata associata al culto di Melicerta; questa considerazione ci portò a chiederci per quale ragione gli antichi abbiano consacrato il pino a Posidone e a Dioniso. A me sembrava che non ci fosse niente di strano, dato che entrambe queste divinità sono ritenute essere i signori del principio dell’umido e della fecondità; possiamo quasi dire che tutti i Greci fanno sacrifici a Posidone “Fecondo” e a Dioniso “Signore degli alberi”. Tuttavia si potrebbe dire che il pino è in particolare collegato con Posidone, non tanto, come crede Apollodoro, perché è un albero che cresce lungo le coste del mare, né perché, come il mare, ama il vento (questa è la spiegazione di alcuni), ma soprattutto perché è usato per costruire le navi. Infatti il pino d’Aleppo, come pure gli alberi suoi fratelli, il pino marittimo e il pino domestico, non solo fornisce il legno migliore per la carpenteria marittima, ma anche la pece e la resina per calafatare le imbarcazioni: senza queste sostanze nessuna imbarcazione sarebbe adatta a solcare il mare”. Septem Sapientium Convivium 158E: “Dove ci sarà un altare o un sacrificio a Zeus portatore di pioggia o a Demetra che si invoca prima dell’aratura, o a Poseidone che dà il nutrimento?”. De Virtute Morali 451C: “Perciò il lavoro della ragione non è da trace né da Licurgo: non consiste nel tagliar via e nel distruggere ciò che la passione ha di utile assieme a ciò che ha di dannoso, ma, come fanno il Dio della fecondità [Poseidone] e quello delle vigne [Dioniso], nel potare ciò che è selvatico e nell’estirpare ciò che eccede la misura, per poi coltivare e curare tutt’attorno ciò che è utile”. Adversus Colotem 1119D: “..ammettere che Zeus sia «Padre della stirpe», o che Demetra sia «Legislatrice», o che Poseidone sia «Custode della crescita».

16) “The workship of Poseidon and Aphrodite in the proximity of Ayios Konstantinos could be seen as a survival of the cult of two similar divinities in the neighbouring Mycenaean sanctuary. Ayios Konstantinos and the two sites ad Oga lie below the volcanic domes of the area of Kypseli. Volcanic actvity, possibly accompanied by earthquakes, would not have been an unknown phenomenon on Methana during the Bronze Age, given that the big volcano ad Kaimeno Vouno was active untile the 3rd century BC, when a major eruption recorded by Strabo (I 3, 18), Ovid (Met. XV 296-306) and Pausanias (II 34, 1) occorred. The physical environment of Methana may have been the main cause for venerating here, from very early times, the godo f elemental poker, who was considered to dominate both the watery element and the dephts of the earth”. Eleni Konsolaki Yannopoulou, The Beginning and the Development of Poseidon’s Cult in Troezenia pag. 149 (e infra) in Poseidon. God of Earthquakes and Waters.

17) Ad esempio a Trezene, con un santuario in stretta relazione con quello di Demetra Thesmophoros (vedi Pausania, nota precedente). Anche ad Eleusi, Pausania I 38, 6: “Si trova in Eleusi un tempio a Trittolemo, quello di Diana Propilea e quello di Poseidone Padre”. Quest’associazione, oltre che nell’Attica, si ha anche ad Argo, in Arcadia e a Mikonos.  Plutarco, Quaestiones Convivales 668E: “..dichiarano che la speranza è la risorsa essenziale della vita, più d’ogni altra, perché quando manca la speranza o quando essa non dà più piacere, la vita diventa intollerabile, così si deve supporre che anche nel caso dell’alimentazione ci sia un elemento essenziale dell’appetito, in mancanza del quale ogni cibo perde gradevolezza ed efficacia. Ora, tra i prodotti della terra non troverai niente del genere, invece tra quelli del mare c’è anzitutto il sale, senza il quale nulla, per così dire, è commestibile; ma questo condisce anche il pane, quando vi è aggiunto, (ecco perché Poseidone è venerato negli stessi templi di Demetra) e il sale è un alimento gradevolissimo, più degli altri”. Vedi anche il mito in fondo a nota 4.

18) Plutarco, Teseo 6: “Etra per tutto il tempo tenne nascosta la vera origine di Teseo: correva la voce, messa in giro da Pitteo, che fosse figlio di Poseidone. I Trezeni infatti onorano in modo particolare Poseidone, che è il dio protettore della loro città. A lui offrono le primizie dei frutti, e il tridente è l’emblema della loro moneta”.

19) Aristotele, Metafisica XIII 983b 17: “Ci dev’essere una qualche sostanza, o più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua). Egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose] e che il giuramento degli Dèi è sull’acqua chiamata Stige dai poeti: ora, ciò che è più antico merita più stima, e il giuramento è la cosa che merita più stima. Se dunque questa visione della natura sia in verità antica e primitiva potrebbe essere dubbio, ma Talete senz’altro si dice che abbia descritto la prima causa in questo modo.” Vedi anche Plutarco, Quaestiones Convivales 730D: “Eppure mi hai sentito dire spesso che a Leptis i sacerdoti di Poseidone, quelli che noi chiamiamo hieromnèmoni, non mangiano pesce; il dio infatti è chiamato Genitore. I discendenti dell’antico Elleno sacrificano anche a Poseidone Primigenio credendo, come fanno anche i Siri, che l’uomo abbia origine dall’elemento liquido; di conseguenza, venerano anche il pesce, in quanto nasce e si nutre nel nostro elemento originario. Questa loro teoria è più plausibile di quella di Anassimandro, che asserisce non già che pesci e uomini si svilupparono nello stesso elemento, ma che in origine gli uomini nacquero all’interno dei pesci1 e, una volta cresciuti, come gli squali, e divenuti capaci di sostentarsi da soli, a quel punto uscirono fuori e guadagnarono la terra”.

20) Varrone, De l.l. VI 19: “I Neptunalia vengono da Nettuno: è questo, infatti, il giorno della festa di tale divinità”. Festo [UMBRAE]: “Son così chiamate, all’interno delle feste di Nettuno, quelle capanne di fogliame usate al posto delle tende”. Orazio, Carmina III 28: “Che potrei fare di meglio in questo giorno della festa di Nettuno? Da brava, o Lide, metti mano al Cecubo riservato, e fa’ forza alla tua solida saggezza. Tu vedi che il mezzogiorno declina e, come se il tempo che vola stesse fermo, non ti risolvi a cavar dalla dispensa l’anfora, che vi riposa dall’anno del consolato di Bibulo? Noi canteremo a turno Nettuno e le Nereidi dalle verdi chiome; tu celebrerai sulla curva lira Latona e le frecce dell’agile Cinzia; alla fine del canto sarà ricordata la dea, che signoreggia Cnido e le splendenti Cicladi, e che dai cigni appaiati si fa portare a Pafo: anche la Notte sarà celebrata con la melodia che le spetta”. Tertullianus, De Spectaculis 6: “O che gli spettacoli siano dedicati agli Dei o agli spiriti dei trapassati, essi vanno considerati come qualcosa di falso e di sacrilego [..] a quale forma di superstizione si collegassero i giochi, tanto dell’una come dell’altra specie, cioè quelli consacrati agli Dei o ai morti. I Megalensi, gli Apollinari, i Cereali, i Neptunali, i Laziali, i Floreali si celebravano pubblicamente ciascun anno; gli altri, si celebravano in onore di natalizi di re, in giorni che essi consideravano solenni, o in ricorrenza di feste e di pubbliche prosperità, o per qualche lieta circostanza municipale o in servigio di qualche credenza religiosa.”

21) Virgilio, Eneide VII 691: “Messapo, domator di cavalli, di Nettuno figliolo..” IX 523: “Messapo domator di cavalli, prole nettunia..”. X 353: “..arriva, prole nettunia, Messapo dai bei cavalli”. XII 128: “..domator di cavalli Messapo, prole nettunia”. Georgiche I 12: “E tu, a cui per la prima volta balzò il cavallo fremente dalla terra scossa col grande tridente, o Nettuno”. Stazio, Tebaide II 45: “Qui Nettuno conduce in porto i suoi cavalli, stanchi del mare Egeo; gli zoccoli anteriori scavano l’arena, le estremità, a forma di pesce, si perdono fra le onde.” III 432: “Così Nettuno sprigiona i Venti dal carcere eolio e li spinge innanzi e li sprona, consenzienti, verso l’immensità dell’Egeo; mentre avanza, gli stridono intorno alle briglie, triste corteo, i Nembi e le Burrasche turbolente e le Nubi e la Tempesta, sordida di fango smosso dal fondo: le Cicladi, vacillando sui cardini scossi, fanno ostacolo..” VI 301: “Innanzi a tutti è condotto Arione, riconoscibile dal fulgore della fulva criniera: Nettuno fu suo padre, se deve credersi all’antica fama; fu lui che per primo, si dice, adattò alla sua bocca un morso meno pungente e lo domò sul lido polveroso, risparmiandogli la sferza, perché insaziabile era la sua brama di corsa ed era irrequieto come il mare in tempesta. Spesso, coi cavalli marini, traversava lo Ionio e il mare di Libia, portando il padre azzurro su ogni lido: le Nubi, lasciate indietro, restavano attonite; gli Euri e i Noti facevano a gara per seguirlo.”

22) Numerose ipotesi sono state tuttavia avanzate. La tesi più accettata è che l’aedes sia stata edificata tra il 292 e il 219 a.e.v, ossia nella finestra temporale coperta dalla seconda e perduta decade di Tito Livio, dal momento che la prima decade e la terza non ne recano menzione. Vedi Adelina Arnaldi, ibidem pag. 22 (ivi, nota 6).

23) Livio XXVIII 11: “..e si diceva che nella campagna intorno a Roma un bue aveva parlato e che nel Circo Flaminio l’ara di Nettuno aveva stillato molto sudore”. Cassius Dio XVII 60, Romaikà: “..le porte così come l’altare nel tempio di Nettuno si coprirono copiosamente di sudore”.

24) LTUR [Neptunus Aedes in Campo], pag 341.

25) Adelina Arnaldi, ibidem pp. 59-67. Il tempio è menzionato anche in una dedica funebre, riferibile al liberto imperiale Abascantus, che rivestì il ruolo di custode del luogo. CIL VI 8423: “D(IS) M(ANIBUS) / ABASCANTO AUG(USTI) LIB(ERTO) / AEDITUO AEDIS NEPTUNI QUAE EST / IN CIRCO FLAMINI(O) / FLAVIUS ASCANIUS ET PALLANS CAES(ARIS) N(OSTRI) SER(VUS) / ADIUTOR A RATIONIB(US) PATRI PIISSIMO FEC(ERUNT)”.

26) Plinio XXXVI 26: “..dello stesso Scopa. Celeberrima è comunque, nel tempio di Gneo Domizio nel Circo Flaminio, la composizione con Nettuno, Teti, Achille, le Nereidi sedute su delfini, cetacei o ippocampi, poi i Tritoni ed il corteggio di Forco, pistrici e molti altri esseri marini, tutti opera della stessa mano – un lavoro che avrebbe meritato la gloria, anche se avesse impegnato una vita intera.”

27) Iohannes Lydus, De Mensibus IV 154: “Al novilunio del mese, si astenevano dal mangiar cavoli e pregavano Poseidone ed Afrodite e Anfitrite..”

28) Livio V 13, 4: “A quell’inverno così rigido tenne dietro – vuoi per il repentino cambiamento di clima passato dal gelo al suo estremo opposto, vuoi per qualche altro motivo – un’estate opprimente e pestilenziale per uomini e animali. Siccome risultò impossibile risalire alle cause di questo insanabile flagello (o almeno a trovare una via d’uscita), per decreto del senato vennero consultati i libri sibillini. Allora, per la prima volta nella storia di Roma, i duumviri preposti ai riti sacri celebrarono il rito del lettisternio e per otto giorni cercarono di riconciliarsi il favore di Apollo, Latona, Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno imbandendo tre letti con il massimo di sontuosità possibile per l’epoca. Questo rito fu celebrato anche privatamente.”

29) Livio XXII 9: “..Flaminio aveva sbagliato più per noncuranza nei confronti dei sacri riti e degli auspici che per temerarietà ed incapacità, e bisognava consultare gli Dèi stessi su quali fossero i mezzi per placare la loro ira, riuscì ad ottenere che si desse ordine ai Decemviri di consultare i Libri Sibillini, cosa che di solito non viene deliberata se non quando sono stati annunciati orribili prodigi. I Decemviri, esaminati i libri profetici, riferirono ai senatori [..] Si celebrò poi per tre giorni il Lettisternio, per cura dei Decemviri addetti al culto. Sei furono i letti sacri pubblicamente esposti: uno a Giove e a Giunone, un altro a Nettuno e a Minerva, un terzo a Marte e a Venere, un quarto ad Apollo e a Diana, un quinto a Vulcano e a Vesta, un sesto a Mercurio e a Cerere”.

30) Quintus Ennius, Annales I 41: “Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo”. Marzianus Capella, De Nuptiis Philologiae et Mercurii I 4142: “E subito lo scriba di Giove ricevette l’ordine di convocare gli abitanti del Cielo, ciascuno secondo il suo ordine e nei modi stabiliti, e specialmente i senatori degli Dèi, che erano chiamati i Penati dello stesso Tonante, i cui nomi il segreto celeste non permise che venissero resi pubblici: perciò, per il fatto che parimenti si impegnarono reciprocamente in tutto, diede ad essi il nome del consenso. Giove stesso richiese Vulcano, il proprio figlio, anche se egli non discendeva mai dalla sua sede splendente, poi fece chiamare anche, tra gli altri, i più potenti, i colleghi di Giove stesso i quali, due volte sei, sono annoverati insieme con il medesimo Tonante, e che il distico di Ennio comprende: Giunone, Vesta, Minerva e Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano e Apollo”.

31) Varrone, De Re Rustica I 4: “..i dodici Dèi Consenti; e non quelli che si onorano in città, i cui simulacri dorati sorgono presso il Foro, sei maschi e sei femmine”.

32) CIL VI 106: “[DEORUM C]ONSENTIUM SACROSANCTA SIMULACRA CUM OMNI LO[CI TOTIUS ADORNATIO]NE CULTU IN [FORMAM ANTIQUAM RESTITUTO] [V]ETTIUS PRAETEXTATUS V(IR) C(LARISSIMUS) PRA[EFECTUS U]RBI [REPOSUIT] CURANTE LONGEIO [..V(IR) (CLARISSIMUS C]ONSUL[ARI]“.

Il culto di Pales – 21 aprile

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Per comprendere, appieno, le espressioni cultuali di un popolo è necessario conoscere l’ambiente in cui si è formato e ha vissuto. Sono queste caratteristiche climatiche e geomorfologiche, infatti, a plasmare i suoi bisogni (anche religiosi), e a condizionarlo anche quando sarà in grado di conferire al territorio un determinato assetto.

Il popolo latino, racchiuso in quella lingua di terra tra l’Appennino e il Tirreno, si trovò a dover gestire una terra con ecosistemi assai diversi tra loro, che ben si prestava alla pratica della transumanza. L’economia pastorale è infatti incentrata sulle migrazioni stagionali, volti alla ricerca di determinate condizioni climatiche e ambientali, dai monti a valle (e viceversa), necessarie a provvedere alle esigenze nutritive e di sviluppo delle bestie. D’altronde, l’area dei Sette Colli in origine non favoriva in modo ottimale l’agricoltura, e nemmeno le aree immediatamente limitrofe, in quanto soggette alle frequenti esondazioni del Tevere.

L’allevamento quindi (soprattutto di ovini), in misura forse maggiore dell’agricoltura, costituì per gli abitanti di Roma un elemento fondamentale. Si comprenderà meglio perché, in quest’economia di sussistenza, la Fondazione stessa dell’Urbe coincise con l’arcaico capodanno pastorale (1): si tratta delle Palilia, o Parilia, consacrate alla magnanima Pales. Per descrivere i caratteri di questa dea dovremo parlare necessariamente delle sue feste (riferendoci su tutti ad Ovidio, che ci offre la trattazione più ampia, 2). Le celebrazioni, sia pubbliche che private (3), si dividevano sostanzialmente in due parti: la prima era costituita da una serie di purificazioni, la seconda constava nelle vere e proprie offerte a Pale. Le pratiche lustrali si svolgevano bruciando una mistura del tutto particolare, distribuita dalle Vestali: si trattava delle ceneri dei feti di vitelli sacrificati nelle precedenti Fordicidia, rito in onore di Tellus (4); del sangue dell’October Equus, ossia del cavallo di destra della biga vincitrice della festa di Marte, nello scorso Ottobre (5); infine, dei vuoti steli di fava. A parte questi ultimi, usati probabilmente come eccipienti (dal momento che la mistura doveva servire a chiunque ne facesse richiesta), la valenza delle altre due componenti rispetto alle Parilie non è chiara; verranno trattati negli articoli su Tellus e Marte. Coloro che erano impossibilitati a raggiungere la Città e ad accedere alle distribuzioni di questi suffumigi si affidavano comunque all’acqua e al fuoco, usando zolfo, erba sabina (Juniperus sabina) e legni di alberi fausti, quali pino, olivo e alloro. E’ assai probabile che quest’ultimo servisse, come in altri momenti di passaggio nel corso dell’anno, per ottenere responsi sulla base del crepitio prodotto dalle foglie poste nel focolare (6). Dopo essere state abbondantemente spazzate con acqua e scopa, con questi fumi si ammorbavano le stalle (adornate con festoni e ghirlande per l’occasione) e le greggi al loro interno. Dopodichè, si procedeva alle offerte a Pales: miglio e focacce di miglio, latte e presumibilmente prodotti caseari; tutte offerte rigorosamente incruente. Solo allora era dato rivolgersi alla dea, rivolti ad Oriente, con una preghiera da recitarsi quattro volta. La preghiera è in parte una piacolare, atta a chiedere l’assoluzione da eventuali colpe commesse dai pastori, o dalle loro bestie, a danno di ignoti numi silvestri: l’aver inavvertitamente intorbidito una sorgente, ad esempio, l’aver consentito agli animali di brucare da una tomba, oppure l’aver usato come foraggio delle frasche appartenente a boschi oppure ad alberi sacri.

Nonostante i versi di Ovidio siano molto tardi, essi sono in grado di restituirci magistralmente l’arcaico sentimento latino che vede in ogni aspetto della Natura una controparte energetica da onorare sempre; quel timor reverentialis di cui abbiamo già trattato su Ad Maiora Vertite, e che mai ci stancheremo di testimoniare. La preghiera proseguiva chiedendo a Pales protezione per pastori, armenti e cani, “guardiani vigili e sagaci” e abbondanza. L’abbondanza di pascoli e d’acque, l’abbondante produzione di latte, di lana e dei prodotti caseari e l’abbondante e fruttifera fertilità delle bestie. Finito di recitare quest’invocazione l’officiante, purificandosi con acqua lustrale, beveva la burranica (7), una rustica pietanza composta da latte e mosto non fermentato. Infine, iniziava la parte più gioiosa della feste (8), consistente nell’accensione di falò alimentati con fieno e paglia, che venivano attraversati con un salto al suono dei cimbali e dei flauti; anche le bestie venivano condotte nel varco posto tra due fuochi. La festa proseguiva così all’aria aperta, tra banchetti e abbondanti bevute di vino (9).

E’ significativo che le pratiche purificatorie appena citate si ritrovino, identiche, presso una sterminata vastità di culture ed epoche differenti. Agiscono “meccanicamente”, senza alcun intervento divino, grazie alle loro intrinseche caratteristiche disinfettanti, anticrittogamiche e fungicide. Lo zolfo in particolare, utilizzato largamente a tutt’oggi, trova ampi rimandi nella letteratura (10). Fumigazioni nelle stalle di questo tipo son comunque ben attestati nel mondo latino (11). Tornando alle Parilia, se il senso generale risulta perfettamente chiaro, più complicato è stabilire l’esatta “funzionalità” di Pale. Il nome stesso della festa è soggetto ad alcune incertezze: Palilia o Parilia?

Entrambe le forme sono attestate. Se la prima rimanda immediatamente a Pales (12), la seconda si presenta illuminante perché si collega a pario: parere, “partorire”. E se nella preghiera di Ovidio viene chiamata ad agire nei più disparati ambiti, altri autori sembrano assegnare l’intervento della dea pro partum pecoris (13); sono questi animali infatti a detenere la maggior fortuna, presso i Romani, anteposti ad ogni altro allevamento (14). Ulteriore conferma ci viene dal fatto che proprio a partire da questo periodo avveniva la monta delle pecore (15), così che esse partorissero a Settembre, con pascoli abbondanti e temperatura mite ma non torrida. Quella delle capre e dei bovini avveniva in seguito, rispettivamente in Autunno (16) e in Luglio (o tra Gennaio e Febbraio 17), mentre la riproduzione dei maiali cominciava ai primi di Febbraio (18) e quella dei cavalli dopo l’Equinozio di Primavera (19). L’arcaicità della festa è fuori discussione: risale alla Fondazione dell’Urbe (20), istituita da Romolo stesso, o addirittura precedente. Ciò è dimostrato anche dalla natura delle offerte impiegate nel culto di Pale (21): il latte costituì la sostanza più impiegata nelle libagioni sacre del mondo arcaico, a differenza del vino.

Ciò a causa della sua scarsità, benchè vi siano notizia di un suo uso sacrale remoto la viticoltura era infatti poco praticata. La natura incruenta delle offerte, più che ad eventuali influssi pitagorici legati alla dottrina della metempsicosi, sembra rimandare ad una penuria delle materie prime. Il latte e le offerte casearie rispondono ai principi simpatici, similia similibus, così come l’uso del miglio: rustica, a rapido ciclo vegetativo e resistente alla siccità, si trattava della pianta foraggera più rinomata, indicata soprattutto per i cuccioli (22). Questa offerta si ripete il 7 Luglio, come risulta dal calendario più antico rinvenuto (precedente all’introduzione del Calendario Giuliano), ossia i Fasti Antiates (23). Qui Pale risulta iscritta al plurale: questo ha portato alcuni autori moderni a ritenere che esistano due Pales (24), la prima addetta al bestiame “minuto”, la seconda al bestiame grosso. Tuttavia a Luglio avevano comunque luogo una seconda e tardiva monta delle pecore (25), mentre le mucche non si riproducevano solo in questo mese, ma anche nei primi mesi dell’anno; inoltre esiste già una figura divina preposta alla tutela dei bovini, ossia Bubona (26). Le motivazioni addotte dai moderni risultano dunque poco convincenti a giustificare l’esistenza di un doppione di Pales.

Altre controversie sono state sollevate in merito al sesso d’appartenenza di Pales: tre fonti del IV/V secolo, perciò molto tarde, affermano che gli Etruschi consideravano Pale maschile (27). Può essere che si tratti di una interpretatio, ossia l’accostamento di Pale ad una divinità diversa a partire da qualche similitudine, fors’anche solo lessicale; la natura assai differente di questa seconda figura del pantheon etrusco, in quanto posta in relazione a Tinia/Giove, mina la credibilità di quest’accostamento, mentre l’unanimità di tutti gli altri autori ci conferma che Pale è femminile.

Non si può tuttavia escludere l’esistenza di un paredro (vi torneremo in seguito). Può destare meraviglia il fatto che ad una dea tanto importante non fossero assegnati culti più “solenni”. Non si tratta però di un caso isolato: Silvano, divinità tra le più popolari in assoluto, a quanto risulta non ebbe mai sacerdozi a lui dedicati, segno che al netto della cerimoniosità le pratiche di cui era destinatario bastavano a garantirsene l’appoggio; così può essere anche per Pale. A meno di non ricondurre questa dea a Palatua, la dea del Palatino. A questa divinità era assegnato uno dei dodici flamini minori, il Flamen Palatualis (28). Durante il Settimonzio, la festa dei Sette Colli che aveva luogo l’11 Dicembre, il flamine officiava un sacrificio chiamato Palatuar (forse destinato a Palatua) sul Palatino (29). Le relazioni tra Pale e Palatua sembrano diverse, a partire dal luogo di culto: questo colle, dove ebbe origine il primo nucleo urbano, sembra prendere il nome proprio dai greggi di cui era costellato (30). Questo scenario sembra difficile da immaginarsi oggi, con la magnificenza delle ville imperiali, ancorchè immerse nel verde; ne serbano ricordo i versi struggenti di alcuni autori (31), in grado di riportarci alle origini. L’unica divinità a potersi associare a Palatua, divinità principale dei Sette Colli (perché sembra l’unica a cui fosse dedicato un flamine), anche per la sua indiretta connessione ai greggi, resta per esclusione Pale.


Ignoriamo del tutto la posizione del tempio di Pale, offerto in voto nel 267 a.e.v. dal console Attilio Regolo nel mezzo della guerra contro i Salentini e i Picenti loro alleati (32). E’ difficile capire le ragioni del console, e possiamo solo abbozzare delle ipotesi: quale connessione ha Pale con la guerra? Forse nel corso del conflitto si resero necessarie delle pratiche lustrali; eppure abbiamo visto come queste pratiche avessero luogo anche senza mediazioni divine; inoltre quella lustrale non è una prerogativa assoluta di Pales. Più verosimile è l’ipotesi suggerita dall’economia salentina: si trattava di uno dei centri maggiori dell’industria della lana di tutto il mondo antico. Nelle graduatorie delle lane migliori, svettavano su tutte quelle proveniente dalle oves Tarentinae, o da quelle di Canosa (33). Nel corso del conflitto salentino non è assurdo ipotizzare che i Romani abbiano sentito la necessità di dedicare un tempio alla divinità che rivestiva una così grande importanza in quei luoghi, evocandola direttamente (o meglio, evocando una divinità salentina dalle caratteristiche simili 34), oppure in riparazione dei danni arrecati a quelle terre (35).

Spostandoci dall’economia all’etimologia, una terza ipotesi (36) accosta Pales a Fales, dea dei Falisci eponima e tutelare della città di Falerii (ma collegabile anche ad altre, come Falacrinae). Linguisticamente, Fale si allaccia a fala (37), ossia una struttura lignea di difesa, per cui non è da escludere che Fale/Pale avesse in tutela le più antiche palizzate, precedente all’edificazione delle Mura Romulee, erette sul Palatino a protezione di greggi e uomini dal regno di Fauno. Del resto, una lettura alternativa (38) di Septimontium propone, anziche septem montes (sette colli), saepti montes (colli recintati). Si instaurerebbe così una doppia relazione della dea: con Pater Falacer da una parte, divinità maschile di cui non sappiamo nient’altro, se non ch’era anch’esso titolare di un flamine (39); dall’altra, tra la dea e strutture di fortificazione, o addirittura dei proiettili scagliati da essi (40), e quindi con la guerra.
Questo sfumerebbe quanto detto finora. Del resto, con il nome di Pale (forse preceduto dall’epiteto di Panda; Panda Pales 41) sussistono connessioni e assonanze anche con parole pertinenti all’ambito strettamente rurale; Pales da palea, ad esempio (paglia, 42).

Tra le ipotesi suggerite, noi propendiamo dunque per la seconda: come dea della pastorizia continuò ad essere cantata dai poeti, ad apparire sui calendari (43) o nei trattati di zootecnia (44) e dai pastori, che certo ne sapevano di più di tutti quei leziosismi appena esposti. Ma a tentoni, nei limiti delle nostre possibilità (che non sono pochi), cerchiamo di arrivare quanto più possibile all’originalità delle cose. Quello di Pale, a differenza di altri culti rustici, andò incontro a dei mutamenti già precocemente. Il Tevere era la direttrice obbligata nord-sud (tra le città etrusche e quelle campane) ed ovest-est (la via del sale, tra la foce e le comunità osco-umbre dell’interno).

Proprio la presenza del fiume, che in tempi più remoti aveva ostacolato lo sviluppo coltivo (e incrementato quello pastorale) e del guado naturale a ridosso dei Colli determinò l’impiantazione stabile e un’alacre economia urbana. In seguito, l’avvento di nuove tecniche zootecniche ridimensionarono la necessità di propiziarsi Pales. Ecco dunque che nelle Palilia, almeno in Città, il carattere autentico della festa passò in secondo piano, e il 21 Aprile venne associato più che altro al Dies Natalis dell’Urbe. Una “festa nazionale”. Questo valeva tuttavia per le grandi metropoli e non per le comunità rurali e i piccoli centri, anche immediatamente confinanti con le città, soprattutto quelle a ridosso della Sabina e del Sannio. Zone che per la conformazione prettamente montana ed impervia del territorio continuarono (e tuttora continuano) a vivere dei proventi della pastorizia. E sembra infatti che il culto di Pales fosse praticato anche dai Sabini (45) e dai Sanniti (46), sotto il nome di Pernaì. Più in generale, l’assoluta preminenza dei ritmi pastorali nel mondo italico lo si evince dal nome stesso di Italia (47): il greco Ouitoulìa, “terra dei vitelli”, a partire dall’osco-umbro uitlu (latino vituli).

E così dal nome degli astri, dei monti, di città e luoghi geografici, così come di individui e delle gentes: Porcio Catone, così come Ovinio, Caprilio, Tauro, Vitulo (48). Il fatto che il denaro si designasse col termine pecunia (da pecus, bestiame), eco di un tempo in cui la ricchezza era costituita non da freddo e inerte metallo ma da materia vitale. L’importanza della lana, protagonista delle cerimonie nuziali (49) e viatico irrinunciabile del sacro: per le virtù medicamentose e lustrali conferite a questa sostanza (50), i sacerdoti romani non se ne discostavano mai. Nemmeno fuori dai riti o tra le mura domestiche, addirittura v’erano speciali interdizioni che proibivano l’uso di più ricercati ed esotici materiali come il cotone, il lino o la seta (51). Questo serviva a preservare i sacerdoti da ogni contatto impuro o nefasto e di valorizzarne la dignità delle figure; tale l’importanza della lana. Tale l’importanza di Pales.

Adriano Mattia Cefis

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NOTE

1) Cicerone, De Divinatione II 47: “Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico, perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle quali si dice che essa fu fondata da Romolo”. Plinio XVIII 247: “Questa costellazione [quella delle Iadi] è in genere chiamata Astro Parilicio, perché l’undicesimo giorno prima delle Calende di Maggio [21 Aprile], giorno natale della città di Roma, che in genere riporta il bel tempo..” Svetonio, Caligula 16: “Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile, un segno di una rifondazione di Roma”. Ovidio (vedi infra): “Si sceglie il giorno adatto per tracciare con l’aratro il Solco delle mura: mancava poco alla festa di Pale e fu quello il giorno scelto per dare inizio all’impresa”. Velleio Patercolo, Historiae I 8, 45: “Nella sesta Olimpiade, ventidue anni dopo che erano stati istituiti i giochi, Romolo, figlio di Marte, avendo vendicato l’offesa subìta da suo nonno, fondò sul Palatino la città di Roma il giorno della festa di Pales”. Cassio Dione, XLIII 42, 3: “Infatti i Parilia venivano festeggiati con una gara equestre ricorrente, e non tanto in onore della città che fu fondata in quella festività, ma in onore della vittoria di Cesare [a Munda, nel 45 a.e.v], perché il suo annuncio era giunto il giorno prima verso sera”. Censorino 21, 6: “Secondo questo calcolo [di Varrone], se non mi sbaglio, quest’anno, che ha come indicazione e titolo il consolato di Pio e Ponziano, se si parte dalla prima olimpiade è il millequattordicesimo, almeno a partire dai giorni estivi, nei quali si celebrano i giochi olimpici, e se si parte dalla fondazione di Roma è il novecentonovantunesimo, per l’esattezza a partire dai Parilia, da cui si contano gli anni”. Festo [PARILIA]: “Nei Parilia Romolo fondò Roma, giorno che veniva ritenuto festivo soprattutto dai più giovani”. Scoli Veronesi a Virgilio, Georgiche III I: “..Grande Pales» [..] Romolo ordinò di osservare il suo culto e nel giorno a lei sacro, cioè i Palilia, fondò Roma”. Scoli a Persio I 72: “Un’altra spiegazione: se dice Palilia, [Persio] intende il giorno sacro in onore di Ilia, che partorì Remo e Romolo, e Cicerone così fa menzione di questi rituali nelle Filippiche: «l Palilia, che ora chiamiamo Parilia con un cambiamento grafico, vengono festeggiati con l’incendio del fieno, perché in quel giorno fu fondata Roma dopo che furono incendiati dei fasci, oppure fu ritenuto dagli antichi il giorno sacro di Pales, dea dei campi o dei pastori». CIL I2, Fasti Caeretani, p. 213: “Parilia. Fondazione di Roma”; Fasti Maffeiani p. 224: “PAR[ILIA]”; Fasti Praenestini p. 236: “PAR[ILIA]”; Fasti Philocali p. 262: “XI KAL[ENDAS] MAI[AS] N[ATALIS] VRBIS”. Vedi anche gli autori a seguire.

2) Ovidio, Fasti IV 721: “Passata la notte, sorge l’Aurora: sono chiamato ad occuparmi delle feste Parilie, e non sarò stato chiamato invano se ad assistermi sarà la benevola Pale. Assistimi, benevola Pale: sto per cantare i riti dei pastori, il mio impegno è quello di celebrare la tua festa. Anch’io ho spesso portato a piene mani ceneri di vitello e steli di fava, sostanze lustrali affidate al fuoco. Anch’io ho inoltre effettuato il triplice salto dei fuochi allineati e mi sono asperso d’acqua con il ramo d’alloro bagnato. La Dea si è commossa, e mi assiste nell’opera. Che la mia nave esca dal porto, le vele sono ormai gonfiate dal vento. Andate, gente, all’altare della Vergine [la Vestale], fatevi dare le sostanze per la fumigazione: sarà Vesta a fornirle, grazie a Vesta sarete purificati. Sostanze per la fumigazione sono sangue di cavallo [vedi nota 5], ceneri di vitello [nota 4] e, terza, i vuoti steli della dura fava. Quando fa sera, pastore, purifica le pecore, dopo che hanno mangiato. Spargi dell’acqua sul terreno e spazzalo con una scopa. Abbellisci gli ovili con fronde sostenute da solidi rami e copri le porte addobbandole con grandi festoni. Si levino fumi bluastri dal vivo zolfo e le pecore belino al contatto con il fumo sulfureo. Brucia legno di olivo maschio, rami di pino ed erbe della Sabina, fai crepitare l’alloro bruciandolo al centro del focolare. Unisci ad un paniere di miglio una focaccia di miglio: la rustica dea gradisce particolarmente questo tipo di alimento. Aggiungi i cibi che le competono ed un secchio di latte: dopo aver tagliato le vivande, prega Pale, la dea che vive nel bosco, offrile il tiepido latte e pronuncia questa preghiera: «proteggi le pecore e assieme alle pecore il loro pastore. Le mie stalle restino al sicuro, lontane dalle sventure. Se ho pascolare le greggi in un luogo sacro, se mi sono seduto sotto un albero sacro, se qualche mia pecora senza saperlo ha brucato attorno a un sepolcro, se sono entrato in un bosco interdetto e il mio sguardo ha messo in fuga le ninfe o il dio semicaprino, se in un bosco sacro con la mia falce ho tagliato un ombroso ramo, per dare un cesto di foglie ad una pecora inferma: perdonami per queste mie colpe. E non mi si condanni per aver messo il gregge a riparo, durante una grandinata, in un tempietto della campagna. Né mi nuoccia l’aver smosso l’acqua del laghetto: perdonatemi, ninfe, se una zampa muovendosi ha reso torbide le vostre acque. Dea, placa per noi le sorgenti, le divinità delle sorgenti e tutti gli dèi che vivono sparsi nell’intero bosco. Non farci vedere le Driadi, né i lavacri di Diana, né Fauno, quando a mezzogiorno riposa nei campi. Tieni lontane le malattie: uomini e greggi restino in buona salute, e in buona salute restino i cani, guardiani vigili e sagaci. Che non debba ricondurre alla sera meno pecore di quante non ci fossero state al mattino, né riportare piangendo pelli strappate ai lupi. Che non debbano soffrire la tremenda fame: abbondino le erbe, le foglie e le acque nelle quali si lavano e possono bere. Che possa mungere mammelle gonfie, che il formaggio mi assicuri guadagno, che il siero possa colare dal canestro di vimini. Che l’ariete sia vigoroso e la gravida pecora porti a maturazione il suo feto, che nel mio stabbio gli agnelli siano in gran numero. Che ne possa ricavare una lana che non punga il corpo delle fanciulle, morbida e adatta alle mani più delicate. Che questa preghiera venga esaudita, che si possa ogni anno offrire grandi focacce a Pale, la dea dei pastori». Questa è la preghiera con cui placare la dea: recitala per quattro volte rivolto ad Oriente e purifica le tue mani nell’acqua corrente. Poi ti sarà consentito bere latte dal color della neve mescolato con rossa sapa usando la ciotola quale bicchiere, e subito dopo salta velocemente con agile piede i mucchi di stoppie che crepitano tra le fiamme. Ho descritto il rito, mi resta ora da spiegarne l’origine. Sono esitante nel proseguire, le molte spiegazioni mi rendono incerto. La forza del fuoco purifica tutto e spurga il metallo della sua impurità: è per questo che esso purifica il gregge con il suo pastore? Oppure perché ci sono due diverse divinità, l’acqua e il fuoco, che formano gli opposti elementi di tutte le cose e che i nostri padri vollero riunire, ritenendo utile mettere il corpo a contatto con le fiamme e con l’acqua corrente? Oppure questi elementi sono tenuti in gran conto per il fatto che da essi nasce la vita [motivo empedocleo], che da essi l’esule è escluso [nella formula rituale della condanna all’esilio si escludeva l’esiliato dall’acqua e dal fuoco: aqua et igni interdicere], che con essi la sposa diventa tale [alla sposa, nel momento in cui entrava nella dimora del marito, erano offerti ritualmente l’acqua ed il fuoco]? Alcuni ritengono, ma è un’opinione che mi pare poco credibile, che il rito ricordi Fetonte e il diluvio di Deucalione. Altri sostengono che i pastori, sfregando le pietre fra loro, ottenessero all’improvviso scintille [immagine corrente della scoperta del fuoco; Virgilio, Georgiche I 135]: la prima si perse, ma la seconda dette fuoco alla paglia. E’ questa la ragione del fuoco acceso in occasione delle Parilie? Oppure quest’uso venne invece introdotto dal pio Enea, che nel momento della sconfitta si vide offrire dal fuoco la via della salvezza [Virgilio, Eneide II 632]? Ma non è forse più verosimile che nel momento della fondazione di Roma, quando si dovettero portare i Lari nella nuova sede e cambiare casa, dopo aver bruciato le loro rozze abitazioni ed abbandonato le vecchie capanne, i pastori e il bestiame siano stati costretti a saltare in mezzo alle fiamme [stessa eziologia in Dionigi I 88]? Gesto che si ripete tuttora, Roma, nel giorno della tua Fondazione [..] Si sceglie il giorno adatto per tracciare con l’aratro il Solco delle mura: mancava poco alla festa di Pale e fu quello il giorno scelto per dare inizio all’impresa”.

3) Scoli a Persio I 72: “Varrone dice: «l Palilia sono tanto privati quanto pubblici: e presso i campagnoli c’è un tipo di gioco e di divertimento che consiste nel saltare un grande fuoco fatto di fasci uniti a fieno e credono di purificarsi con questi Palilia».Festo [POPULARIA SACRA]: “Gli atti religiosi popolari sono, come dice Labeone, quelli a cui tutti i cittadini partecipano e che non sono riservati a particolari famiglie; tali sono le Fornacalia, le Parilie, i Laralia..”

4) I Fordicidia avevano luogo il 15 di Aprile, e prendevano il nome dalle fordae boves, ossia le vacche incinte che si offrivano a Tellus. Ognuna delle trenta Curie di cui era suddivisa Roma sacrificava un capo, mentre il feto in grembo veniva bruciato; le ceneri così conservate dalle Vestali venivano distribuite per le purificazioni delle Palilia. Le origini ed il significato del rito verran trattati nell’articolo dedicato a Tellus.

5) Properzio, Elegiae IV 1, 20: “Per nessuno ci fu la preoccupazione di cercare dei stranieri, poiché una folla sospesa fremeva per il patrio rito, e col fieno acceso, celebrare le annuali Parilie, come ora si rinnovano i riti lustrali col cavallo dalla coda mozza”. Le corse in questione si tenevano al Circo Massimo a metà Ottobre, in onore di Marte: il cavallo di destra della biga vincitrice veniva sacrificato, presumibilmente dal Flamine di Marte, e la coda tagliata veniva portata alla Regia, dove il sangue veniva raccolto dalle Vestali. Vi torneremo altrove.

6) Sull’alloro e sulle valenze e gli utilizzi degli altri alberi vedi il precedente articolo: https://admaioravertite.org/2019/03/09/sacri-alberi-e-culti-maschili/

7) Festo [BURRANICA POTIO]: “Così si chiama una miscela di vino cotto e latte, a causa del suo colore rossastro; burrus, in effetti, significa rosso”.

8) Scoli a Persio I 72: “[Persio] dice Palilia, giorno sacro chiamato così in onore della dea della pastorizia: in questo giorno i campagnoli saltavano su fasci di fieno posti sul fuoco, e credevano di purificarsi con questo rituale: perciò chiama i Palilia «fumosi».”  Tibullo, Elegiae II 5, 87: “..innaffiato di vino, canterà il pastore le Palilie, che sono le sue feste: via allora, lupi, allontanatevi dalle stalle. Dopo aver bevuto, secondo il rito, a mucchi di stoppie leggere darà fuoco e d’un balzo attraverserà le fiamme consacrate. La moglie gli darà figlioli, e il bimbo, aggrappandosi alle orecchie del padre, non farà che strappargli baci; e non sarà di peso al nonno vegliare il piccolo nipote, balbettare da vecchio col bambino. Allora i giovani, resi gli onori al dio, si distenderanno sull’erba, dove leggera cade l’ombra di un albero antico; e con le loro vesti drizzeranno una tenda, cingendola di ghirlande, e anche la coppa sarà inghirlandata. Ciascuno imbandirà le sue vivande, innalzando con zolle le mense festive e con zolle un giaciglio. Qui un giovane, eccitato dal vino, maledirà la sua fanciulla, anche se subito dopo vorrebbe che i suoi voti non avessero effetto: tornato in sé, lui stesso, ch’era in collera con l’amica, piangerà e giurerà d’aver agito con la mente annebbiata”.

9) Properzio, IV 4, 73-80: “Per la città era un giorno di festa (i padri lo chiamarono Parilia), e questo giorno iniziò a essere il primo per le mura: furono annuali i banchetti di pastori, lo svago in città, quando i piatti di campagna sono pieni di ghiottonerie e sugli sparsi mucchi di fieno in fiamme la folla ubriaca salta con i piedi luridi. Romolo stabilì che i turni di guardia diventassero riposo e che gli accampamenti, cessato il suono della tromba, tacessero”.

10) Vedi tra gli altri Catone, De Agri Coltura 95: “Perché le viti non abbiano i bruchi: piglia della morchia, purificala, mettine due congi [6,4l] in un vaso di rame, falla bollire a fuoco lento, agitandola spesso con un bastoncello, finché non sia densa come il miele. Prendi poi un terziario [1hg] di bitume e un quartario di zolfo [70g]; pestali separatamente in un mortaio; poi versa queste polveri minutissime nella morchia calda e continua a mescolare e fa’ cuocere all’aria aperta; perché se la cuoci in un luogo chiuso, quando ci metti il bitume e lo zolfo s’infiammano. Quando questo miscuglio sarà denso come il vischio, lascia raffreddare e ungine il ceppo e i rami della vite. Il bruco non comparirà”. Questo trattamento verrà poi citato da Plinio XVII 264: “Similmente, perché nella vite non si formino i bruchi, prescrive di cuocere due congi di morchia fino a che si assuma la consistenza del miele, poi di cuocerla di nuovo con un terzo di bitume e un quarto di zolfo, all’aria aperta, perché al chiuso si incendierebbe. Dice di ungere con questo preparato le viti intorno alla base e sotto le «ascelle», così non nasceranno bruchi. Certi si contentano di esporre le viti ai suffumigi di questa mistura approfittando di un vento favorevole, per tre giorni di seguito”. Trattazione sistematica si ha invece in XXXV 174 (e seguire): “Tra gli altri generi di terra, certo di estremo interesse è la natura dello zolfo che esercita un grande potere su moltissime altre sostanze [..] Lo zolfo ha la proprietà di riscaldare, di cuocere, ma riduce anche gli ascessi nei corpi, per cui mescola agli impiastri e ai cataplasmi emolienti atti al caso. Anche in caso di dolore ai reni e di lombaggini giova incredibilmente se posto sulla zona dolente con grasso. Guarisce i licheni del volto e le dermatiti scagliose se applicato con la resina di terebinto [..] fa bene anche agli asmatici se lo succhiano e a quanti tossiscono espellendo pus; cura le punture degli scorpioni. Lo zolfo vivo mescolato al nitro e pestato nell’aceto, se spalmato, elimina le macchie della vitiligine, come pure i lendini [..] Anche nei riti religiosi viene usato per purificare le case con il suo fumo”. Sulle virtù, anche lustrali, dello zolfo concordano le fonti greche, sia quelle propriamente mediche e farmacologiche (come Dioscoride), sia quelle naturalistiche (come Teofrasto) e letterarie. Celebre l’utilizzo di Odisseo subito dopo la strage dei pretendenti. Omero, Odissea XXII 479: ..l’opera era compiuta. Allora egli disse alla cara nutrice Eurìclea: «Portami zolfo, balia, rimedio dei mali, portami fuoco, perché la sala purifichi [..] E gli rispose la cara nutrice Eurìclea: «Sì, questo creatura mia tu l’hai detto a proposito. Però anche tunica e manto porterò, buone vesti, che così tu non stia, coperto l’ampie spalle di stracci, qui nella sala: vergogna, sarebbe.» Ma rispondendo disse l’accorto Odisseo: «Fuoco prima di tutto mi si porti in sala». Rispose così, non fu sorda la cara nutrice Eurìclea, e portò fuoco e zolfo, e Odisseo purificò tutto bene, sala, soffitto e cortile”.

11) Virgilio, Georgicon III 414: “Impara a bruciar nelle stalle odorifero cedro, snida i serpenti insidiosi con suffumigi di galbano. Sotto non smosse lettiere, spesso, fuggendo la luce si nasconde la vipera dal mortifero morso, o la biscia che ama le case“. Columella, De Re Rustica VII 4, 6: “E bisogna liberare le stalle non solo dal fango e dal letame, ma anche dai serpenti nocivi [..] Ma perché non sia necessario fare questo con proprio pericolo, brucia spesso dei capelli di donna o delle corna di cervo, i cui odori sono efficaci a impedir che quella peste si annidi nelle stalle”.

12) Varrone, De l.l. VI 15: “Palilia è termine che deriva da Pales, perché si tratta di una festività in suo onore..”

13) Festo [PALES]: “E’ il nome della Dea dei pastori e le sue feste si chiamano Palilia; oppure, come altri ritengono, furono chiamati Parilia perché furono fatti sacrifici a questa divinità per la nascita del bestiame”. Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane I 88: “In questo giorno, che arriva all’inizio della Primavera, i contadini e i mandriani offrono un sacrificio di ringraziamento per l’aumento del loro bestiame”.

14) Varrone, De Re Rustica II 2, 2: “Ebbene io parlerò del bestiame primitivo. Tu infatti dici che fra gli animali selvatici le pecore furono le prime ad essere catturate e addomesticate dagli uomini”. Plinio 187: “Molto dobbiamo anche al bestiame minuto, sia per quanto riguarda i sacrifici agli Dèi, sia per l’utilizzazione della loro lana. Come i buoi procurano nutrimento all’uomo, così siamo debitori a questi animali del vestito che ci protegge”.  Columella, De Re Rustica VII 2: “Le pecore tengono il secondo posto, subito dopo gli armenti di bestiame grosso; ma se si guarda all’utile dovrebbero tenere il primo. Esse ci offrono la miglior protezione contro il freddo e sono la fonte più ricca di indumenti per il nostro corpo. E non basta: con l’abbondanza del latte e del cacio saziano la gente di campagna e ornano di piacevoli e svariate vivande anche le delicate mense dei ricchi. Forniscono totalmente il vitto ad alcune tribù, che non conoscono il frumento..”

15) Varrone, De Re Rustica II 1 18: “Per gli ovini il periodo adatto si ritiene il tempo che va dal tramonto di Arturo [metà Maggio] sino a quello dell’Aquila”[seconda metà Luglio] 19: “Una seconda cosa da osservare, sul punto della figliatura, è che alcune bestie partoriscono dentro un periodo di tempo, altre dentro un altro. Le cavalle, infatti, portano 12 mesi, le vacche 10, le pecore e le capre 5, le scrofe 4”. II 2, 13: “Il tempo migliore per l’accoppiamento è quello che va dal tramonto di Arturo a quello dell’Aquila, perché gli agnelli concepiti dopo vengono supiccoli e deboli. La pecora porta 150 giorni, perciò partorisce sulla fine d’autunno, quando la temperatura è mite e le prime piogge fanno crescere le prime erbe”. Plinio 187: “Per tutti il periodo di calore va dal tramonto di Arturo, cioè da tre giorni prima delle Idi di Maggio [il 13],al tramonto dell’Aquila, cioè 10 giorni prima delle Calende di Agosto [23 Luglio]. La gestazione dura 150 giorni; gli esemplari concepiti dopo questo termine sono deboli. Gli antichi chiamavano cordi gli agnelli nati dopo quel periodo [cordus è aggettivo usato per indicare ciò che giunge tardi a maturazione, sia in ambito animale che vegetale]. Molti preferiscono gli agnelli nati in Inverno a quelli nati in Primavera, perché è più importante che siano robusti prima del Solstizio d’Estate che prima del Solstizio d’Inverno; pensano inoltre che è utile che nasca in Inverno solo questo animale”.

16) Varrone, De Re Rustica II 3, 8: “Per quanto riguarda la figliatura, sul finir dell’autunno si allontanano dal gregge che è nei campi i caproni e si chiudono nelle stalle, come è stato detto per gli arieti. La capra che ha concepito partorisce dopo 4 mesi in Primavera”. Columella, De Re Rustica VII 6, 6: “Consiglio di scegliere quale tempo dell’accoppiamento l’autunno, avanti il mese di Dicembre, perché i capretti vengano alla luce all’avvicinarsi della Primavera, quando su tutte le macchie sbocciano le gemme e le selve germogliano di fronde nuove”. Plinio VIII 200: “Concepiscono nel mese di Novembre, in modo da partorire di Marzo, quando i cespugli stanno germogliando”.

17) Columella, De Re Rustica VI 24: “Per lo più bisogna portare le femmine al maschio nel mese di Luglio, perché partoriscano in Primavera, quando già i pascoli sono ricresciuti, i vitellini concepiti d’Estate. Infatti portano il ventre pieno per dieci mesi e d’altra parte non si sottopongono al maschio per comando del bovaro, ma solo quando ne hanno voglia. Ora il desiderio naturale coincide appunto col tempo detto, perché in piena euforia per l’abbondante pascolo primaverile, cercano l’accoppiamento”. L’accoppiamento dei bovini secondo altri autori dovrebbe invece avvenire a partire da Gennaio. Varrone, De Re Rustica VI 5, 13: “Il tempo più adatto per concepire è quello che va dal sorgere della costellazione del Delfino sino a 40 giorni dopo o anche più. Le vacche, infatti, che hanno concepito in questo periodo si trovano a partorire in una stagione mitissima, ché le vacche portano 10 mesi”. Plinio VIII 177: “Il periodo del coito comincia quando sorge la Costellazione del Delfino, cioè la vigilia delle Nonae di Gennaio, e dura trenta giorni; alcune vacche vanno in calore anche in Autunno, ma quei popoli che vivono di latte distribuiscono il periodo in modo da poter fruire tutto l’anno di questo alimento”.

18) Varrone, De Re Rustica I 28, 2:“Infatti, come per i suini si ritiene che il periodo adatto sia quello che va dall’inizio dello spirar del Favonio sino all’Equinozio di Primavera4, 7: “Per la riproduzione i verri vanno isolati due mesi prima dell’accoppiamento. Il tempo migliore per la monta è quello che va dall’inizio dello spirar del Favonio sino all’equinozio di primavera 4 , così che i parti avvengano d’estate. La scrofa infatti porta 4 mesi e partorisce in una stagione in cui la terra abbonda di pascoli. Non si debbono far accoppiare le scrofe minori di 1 anno; meglio aspettare 20 mesi, in modo che partoriscano di 2 anni”. Columella, De Re Rustica VII 9: “Può[la scrofa] già concepire bene quando ha un anno, ma deve essere fecondata nel mese di Febbraio in modo che, dopo quattro mesi di gravidanza, al quinto partorisca, quando già le erbe hanno una certa consistenza e così i porcellini godano di un latte ben maturo e forte, e quando saranno svezzati si pascano di stoppie e di semi che cadono dai baccelli”. Plinio VIII 205: “Il periodo di calore del suino va dal levarsi del vento Favonio [a Febbraio] fino all’Equinozio di Primavera”.

19) Varrone, De Re Rustica II 6, 4: “Si accoppiano prima del solstizio estivo, sì che le femmine partoriscano nel medesimo periodo dell’anno successivo: esse figliano 12 mesi dopo il concepimento”. Plinio VIII 163: “In questa specie animale le femmine hanno una gestazione che dura undici mesi, al dodicesimo danno alla luce i piccoli. L’accoppiamento avviene durante l’Equinozio di Primavera”. Columella, De Re Rustica VI 27: “I cavalli della razza volgare si lasciano pascolare insieme maschi e femmine e non si stabiliscono epoche fisse per la monta. Alle cavalle generose invece si congiungono i maschi nell’epoca dell’Equinozio di Primavera, perché possano partorire il puledro circa nella stessa stagione in cui l’hanno concepito, passato un anno, e nutrirlo senza tanta fatica, essendo i campi già floridi ed erbosi; infatti esse partoriscono nel dodicesimo mese. Dunque bisogna far di tutto perché proprio in questa stagione si permettano i congiungimenti alle femmine e ai maschi in amore; se lo impedissimo, essi verrebbero stimolati da voglie furiose, tanto che si è dato il nome di ippomane a un veleno che accende nei mortali un desiderio simile alla voglia acuta dei cavalli. E’ certo che in alcune regioni le cavalle arrivano a tale grado di desiderio, che anche non avendo maschio, figurandosi con assidua ed eccessiva cupidità il piacere venereo, concepiscono dal vento, come gli uccelli da cortile.” Il tema di Favonio/Zefiro fecondatore è assai comune nella letteratura.

20) Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane I 88: “Dopo di ciò [Romolo], avendo comandato che i fuochi fossero accesi prima delle tende, fece uscire la gente e saltò sopra le fiamme per espiare la loro colpa. Quando ritenne che tutto era stato svolto in modo accettabile per gli Dèi, chiamò tutto il popolo nel luogo designato [..] Questo giorno è celebrato ogni anno dai Romani fino ad oggi, come una delle loro festività più grandi, e lo chiamano Parilia [..] Ma se avessero celebrato questo giorno già in tempi più antichi quale occasione di gioia, e per tale motivo lo consideravano il più adatto per la Fondazione della Città o se, proprio in quanto segnò l’inizio della sua costruzione, lo consacrarono ritenendo di onorare in esso le divinità che son propizie ai pastori, non posso dirlo con certezza”.

21) Plutarco, Romolo 12: “E’ concordemente accettato che la fondazione della città avvenne l’undicesimo giorno prima delle Calende di Maggio [il 21 Aprile]. E questo giorno festeggiano i Romani, chiamandolo il Natale della loro patria. Da principio, come dicono, nessun animale sacrificavano in questa solennità, ma pensavano di dovere conservare pura e senza spargimento di sangue la festa commemorativa della nascita della loro patria. Ma anche prima della fondazione della città essi avevano in quello stesso giorno una festa pastorale, che chiamavano «Parilia».” Plinio XIV 88: “Che Romolo libasse col latte, non col vino, è provato dalle cerimonie religiose che istituì, i cui riti permangono tuttora. Una legge del re Numa, suo successore, dice «non cospargere di vino il rogo». Nessuno può dubitare che questo divieto fosse una conseguenza della scarsezza di materia prima”.

22) Columella, De Re Rustica VI 3: “La paglia migliore è quella di miglio, poi quella d’orzo e al terzo posto quella di frumento”. VI 24, 5: “..al vitellino si danno polentine di miglio tostato e macinato, misto a latte”.

23) “PALIBUS II” (vedi foto).

24) George Dumèzil, La Religione Romana Arcaica, pp. 334-335.

25) Columella, De Re Rustica VII 3, 11: “Sul tempo della monta, fra gli autori agricoli c’è accordo quasi totale che sia il principio della Primavera, alla festa di Pale, se si tratta di pecore appena giunte all’età feconda; il mese di Luglio per quelle che hanno già partorito. Ma la prima epoca è senza dubbio preferibile, perché così si ottiene che la vendemmia tenga dietro alla mietitura e che dopo la raccolta dell’uva segua la nascita degli agnelli; e questi ultimi si possono saziare dei pascoli di tutto l’Autunno e prendono forza prima del freddo e della povertà di cibo invernale. Celso ha ragione quando afferma che l’agnello nato d’autunno è migliore di quello nato di Primavera, perché è cosa più utile che raggiunga una certa robustezza prima del Solstizio d’Estate piuttosto che prima del Solstizio d’Inverno; del resto, essi soli fra tutti gli animali possono nascere d’Inverno senza danno”.

26) Agostino, De Civ. D. IV 24: “Ma quando non avevano fra mano il nome degli dèi, denominavano gli dèi dal nome delle cose che, a loro giudizio, erano accordate dagli dèi stessi. Pertanto aggiungevano dei suffissi alle parole, come da bellum (guerra) Bellona e non Bello, dalle cune Cunina e non Cuna, da segetes (messi) Segezia e non Segete, dai pomi Pomona e non Pomo, dai bovi Bovona e non Bove”.

27) Arnobio, Adversus Gentes III 40: “Lui stesso [Nigidio Figulo] ancora, nel suo sedicesimo libro, seguendo l’insegnamento etrusco, indica che ci sono quattro tipi di Penati; e che uno di questi appartiene a Giove, un altro a Nettuno, il terzo alle ombre sottostanti, il quarto agli uomini mortali, facendo alcune asserzioni inintelligibili. Anche Caesius stesso, in seguito a ciò, ritiene che siano Fortuna e Cerere, il Genio di Giove e Pale, ma non la divinità femminile comunemente ritenuta, ma un ministro maschile di Giove”. Vedi anche Servio, Ad Georg. III 1 e Martianus Capella, Philologiae I 50.

28) Ennio, Annales II 68: “Egli medesimo istituì il flamine Vulturnale, il Palatuale, il Furinale e il Florale, il Falacre e il Pomonale”. Varrone, De l.l. VII 45: “Ennio dice che Numa Pompilio istituì anche i Flàmini, ciascuno dei quali indicato con un nome desunto da una particolare divinità. Ora in alcuni è evidente l’etimo di questo nome; è evidente per esempio perché uno sia chiamato Marziale e un altro Quirinale. Ma vi sono altri nomi di flàmini la cui etimologia è ignota, come la maggior parte di quelli contenuti nei seguenti versi: questo stesso istituì il flamine Volturnale, il Palatuale, il Furrinale, il Florale, il Falacre e il Pomonale. Questi titoli sono oscuri. L’origine va connessa con Volturno, con la dea Palatua, con Furrina, con Flora, col padre Falacro, con Pomona”. [PALATUALIS FLAMEN]: “Sacerdote istituito per fare sacrifici in onore della dea Palatua, considerata come la patrona del Palatino”.

29) Festo [SEPTIMONTIUM]: “E’, come racconta Antistio Labeone, la festività dei colli raggruppati nel nome: Palatino, dove si celebra un sacrificio detto Palatuar..”

30) Varrone, De l.l. V 8, 54: “Donde derivi il nome di Veliae ho appreso parecchie spiegazioni, tra cui quella che ivi i pastori del Palatino, prima che fosse scoperta la tosatura, solevano vellere [strappare] la lana dalle pecore, da cui deriva il termine vellera [velli]”. Festo [PALATIUM]: “Questo monte di Roma era così chiamato o perché gli armenti che vi pascolavano erano soliti belare, o perché il bestiame andava a vagare lì..” Tuttavia “belare”, di origine onomatopeica, si scrive con la “b” Varrone, De Re Rustica II 1, 6-7: “..capre e le pecore. Con loro termine, infatti, i Greci le chiamarono mela. Né molto diversamente noi con la stessa parola, ma col cambiamento di una lettera (esse fanno, evidentemente, beeh! non meeh!) chiamano baelare l’emissione della voce fatta dalle pecore, da cui poi è venuto balare, con la caduta di una lettera, come avviene in molti casi”.

31) Tibullo, Elegiae II 5, 80: “Della città eterna, che mai al suo fianco Remo avrebbe abitato, Romolo non aveva ancora tracciato le mura; sui pendii erbosi del Palatino pascolavano allora le giovenche e sull’acropoli di Giove sorgevano basse capanne; scolpiti in legno con un rustico scalpello, Pan umido di latte e Pale si riparavano all’ombra di un elce; voto di un pastore errante, da un albero pendeva una zampogna armonica, consacrata al dio delle selve, una zampogna formata da una fila di canne via via decrescenti, ché alla piú corta ognuna è unita con la cera. E là dove si stende la regione del Velabro, una barca minuscola, battendole coi remi, per acque basse se ne andava. Con questa una fanciulla, per donare piacere al ricco signore del gregge, venne portata a quel giovane in un giorno di festa e con lei tornarono i doni di quella campagna feconda, il cacio e il bianco agnello di una pecora color di neve..”.

32) Floro, Epitome I 15: “Dopo i Piceni furono conquistati i Salentini e la capitale di quella regione, Brindisi, dal celebre porto, sotto la guida di Marco Attilio. In tale guerra la dea Pale, sacra ai pastori, reclamò un tempio come prezzo della vittoria”.

33) Marziale, Epigrammaton XIV 127: “Questo tessuto di Canosa, del tutto somigliante a un torbido vino melato, sarà un dono per te. Sii lieto: non invecchierà presto”; 129, titulo: “Tessuti Rossi di Canosa155: “La Puglia è famosa per le sue lane di prima qualità, Parma per quelle di seconda qualità: le lane di terza qualità fanno onore ad Aitino”. Columella, De Re Rustica VII 2: “Quanto alla razza, da noi erano stimate le pecore calabresi, apule e di Mileto, e sopra tutte le tarantine”. Plinio VIII 189: “Lana molto celebre è quella di Puglia e il tipo che in Italia viene chiamato lana greca ed altrove lana italica; al terzo posto viene quella prodotta dalle pecore di Mileto. Le pecore della Puglia hanno il pelo corto e sono famose solo per la produzione di mantelli; quelle dei dintorni di Taranto e Canosa hanno la massima notorietà [..] Canosa produce lana fulva, Taranto quella di colore scuro particolare”. Orazio, Carmina II 6, 10: “..io mi avvierò verso il fiume Galeso [presso Taranto], diletto alle lanute greggi, e verso le campagne, su cui regnò lo spartano Falanto. Quel cantuccio a me sorride sopra ogni altro della terra”. III 15: “..a te conviene filar le lane, tosate presso la rinomata Lucera, non la cetra, né il fiore vermiglio della rosa, né le anfore, che tu tracanni, vecchia qual sei, sino all’ultima stilla”. Persio, Saturae II 62: “A che giova introdurre le nostre usanze nei templi, e trasferire agli Dèi i piaceri della nostra carne scellerata? Essa ha corrotto l’olio diluendovi per sé la cannella, essa ha bollito la lana calabra nella deturpante porpora..”

34) L’evocatio è un rito consistente nel “chiamare a sé” una divinità altrui, magari nel mezzo di un assedio, portandola dalla propria parte e lasciando così i nemici senza protezione divina (o addirittura volgendola contro di loro). In cambio le si offrivano templi, culti e onori più grandi a Roma; è il caso ad esempio dell’Uni di Veio o della Tanit di Cartagine, poi identificate con Giunone. Solo chi deteneva l’Imperium, ossia un dittatore o un console, poteva evocare divinità. A questo rito dedicheremo una trattazione a parte.

35) Orazio, Epodoi I 27: “..perché il mio bestiame, prima della grande caldura, cambi le praterie dell’Apulia con quelle della Lucania”. Varrone, De Re Rustica II praef. 6: “..anche io ebbi grandi allevamenti, di pecore in Puglia e di cavalli nel Reatino”; 1, 16: “Né i medesimi luoghi sono per tutte le bestie adatti al pascolo d’inverno e d’estate. Pertanto le greggi di pecore dalla Puglia vengono spinte lontano nel Sannio a passar l’Estate”. 2, 9: “Sogliono infatti le greggi pascolare in luoghi lontani e per larga estensione, in zone poste in direzione diverse, sicché spesso i pascoli invernali distano molte miglia da quelli estivi. – Lo so bene io – dissi – ché le mie greggi, le quali passavano l’estate sui monti del Reatino, svernavano in Puglia. Fra queste due regioni, come due cesti tenuti insieme da un giogo, corrono pubblici tratturi che uniscono le due lontane zone di pascolo”. Varrone, De Re Rustica II 2, 18: “..le quali per la bontà della lana, come si usa a Taranto e in Attica, si coprono con pelli, affinché non si sporchi la lana”; II 9, 6: “Nella vendita erano compresi i cani, ma non i pastori, con l’intesa però che questi dovessero condurre le pecore sino ai boschi di Metaponto e al mercato di Eraclea”. III 17, 9: “Sembrava infatti che per il caldo avesse fatto passare i suoi amici pesci in luoghi più freschi, come sogliono fare i pastori della Puglia che attraverso sentieri conducono il gregge sui monti della Sabina”.

36) Andrea Carandini, La Leggenda di Roma I, pag. 422 (con riferimenti).

37) Festo [FALERI]: “Nome della città che sembra provenire da Fal”. [FALAE]: “Alcune opere di fortificazione, per via della loro elevazione, son denominate Falandum, che in lingua etrusca significa cielo”.

38) Treccani [SETTIMONZIO]: http://www.treccani.it/enciclopedia/settimonzio/

39) Ennio, Annales II 68: “Egli medesimo istituì il flamine Vulturnale, il Palatuale, il Furinale e il Florale, il Falacre e il Pomonale”. Varrone, De l.l. VII 45: “Ennio dice che Numa Pompilio istituì anche i Flàmini, ciascuno dei quali indicato con un nome desunto da una particolare divinità. Ora in alcuni è evidente l’etimo di questo nome; è evidente per esempio perché uno sia chiamato Marziale e un altro Quirinale. Ma vi sono altri nomi di flàmini la cui etimologia è ignota, come la maggior parte di quelli contenuti nei seguenti versi: questo stesso istituì il flamine Volturnale, il Palatuale, il Furrinale, il Florale, il Falacre e il Pomonale. Questi titoli sono oscuri. L’origine va connessa con Volturno, con la dea Palatua, con Furrina, con Flora, col padre Falacro, con Pomona”. [PALATUALIS FLAMEN]: “Sacerdote istituito per fare sacrifici in onore della dea Palatua, considerata come la patrona del Palatino”.

40) [FALARICA]: “Una sorta di proiettile, usato da coloro che combattono dall’alto di certe opere innalzate dalle mani degli uomini, chiamate falae”.

41) Aulo Gellio XIII 23, 4: “Te, Anna e Peranna, Panda Cela, te, o Pale, Neriene e Minerva, Fortuna e Cerere”. Il frammento di Varrone è il 506. Gerard Radke, in Nerio. Beobachtungen zu einem Götternamen pp. 191-198, ha proposto l’emendamento “Panda te calo Pales” (invoco te, Panda Pale).

42) Varrone, De Re Rustica I 50, 3: “La paglia invece che rimane attaccata alla spiga viene portata in ceste sull’aia, dove viene da quella staccata in luogo aperto, palesemente [palam]. Da questo fatto può derivare il nome palea [paglia]”. Palea [paglia] è accostato a palam solo per la somiglianza di suono, ma si tratta di due parole di origine del tutto diversa. I 52, 2: “Così avviene che la parte più leggera, che si chiama acus e palea [pula] è vagliata e gettata fuori dell’aia, mentre il frumento, che è pesante, arriva puro nelle ceste”.

43) Fasti Esquilini, CIL I2 pp. 210-211: “AN[NUS PASTORICI]”. Fasti Praenestini p. 236: “PAR[ILIA]: principio an[ni pastoricii]”. Le Palilia son qui iscritte in qualità di capodanno pastorale. Vedi anche l’immagine sopra, Menologia Rustica: “OVIS LVSTRANTVR”.

44) Virgilio, Bucoliche V 35: “Rapito tu dai fati, Pale stessa i campi lasciò”. Come prefazione al trattato sull’allevamento in Virgilio e Columella. Georgiche III: “Te pure, grande Pale, e te [Apollo] canteremo, indimenticabile pastore dell’Anfriso”; 294: “È l’ora, veneranda Pale, è l’ora di declamare a gran voce”. Columella, De Re Rustica X 1: “Pur de’ giardini l’arte ti voglio, o Silvino, insegnare quell’arte che un tempo, rinchiuso nel breve giro del carme, cantate le messi feconde e il dono di Bacco, il buon vino, e te veneranda Pale, e il miele rugiada celeste..

45) Varrone, De l.l. V 10, 74: “Con qualche piccola modificazione provengono dai Sabini anche i seguenti nomi: Pale, Vesta, Salute, Fortuna, Fonte, Fede..”

46) https://web.archive.org/web/20170702120145/http://www.sanniti.info/smagnon.html Vedi Adriano La Regina. Alla Tavola Osca dedicheremo una trattazione la prossima settimana, relativamente all’articolo su Flora.

47) Varrone, De Lingua Latina V 19, 95: “Vitulus [vitello] è detto così dal fatto che anticamente in greco si chiamava italós”. De Re Rustica VI 5, 3: “..nell’allevamento del bestiame il bue rappresenta necessariamente un animale di grandissima importanza, specialmente in Italia, che si crede tragga il suo nome da quello dei buoi. Nell’antica Magna Grecia, infatti, come scrive Timeo, i tori si chiamavano itali: dal loro numero e dalla loro bellezza e dalla produzione dei vitelli chiamarono Italia quella regione. Altri hanno scritto che questo nome deriva dal fatto che Ercole inseguì dalla Sicilia sino là un famoso toro chiamato italus”. Timeo fu uno storico greco nativo di Tauromenium del III see. a.e.v; scrisse una storia della Sicilia, di cui ci rimangono solo frammenti. Il toro a cui si allude nei versi finali è uno dei capi di bestiame sottratti da Ercole a Gerione. Vedi anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Etimologia_del_nome_Italia

48) Varrone, De Re Rustica II 1, 7-10: “Che se presso gli antichi non fosse stato tenuto in gran pregio il bestiame, gli astronomi nel descrivere il cielo stellato non avrebbero chiamato le costellazioni con nomi di animali. Il che non solo non esitarono a fare, ma molti nella enumerazione dei XII segni dello Zodiaco partono proprio da questi nomi, cioè dall’Ariete e dal Toro, preferendoli a quelli di Apollo e di Ercole. Questi due dèi, infatti, vengono dopo, ma sotto il nome di Gemelli. Né ritennero sufficiente che i nomi di animali prendessero un sesto di quelli delle XII costellazioni, ma vi aggiunsero, perché ne possedessero un quarto, il Capricorno. Inoltre dagli animali domestici trassero i nomi della Capra, dei Capretti, dei Cani [Col nome Cane si hanno due costellazioni: Cane maggiore, in cui spicca Sirio, e Cane minore, la cui stella più splendente è Procione, “Antecanis”]. Del pari non vi sono tratti di terra e di mare designati coi nomi di quelli? Di mare, poiché il nome Egeo deriva da «capre» [αῖγες áighes, aeges] e poi chiamarono Tauro un monte in Siria, un altro in Sabina, Canterio [ϰανϑἡλιος, canthélios ossia “animale da soma”] e Bosforo chiamarono le due rive dello stretto, il Bosforo Tracio e quello Cimmerio [βóσπоρоς, bósporos, ossia “guado del bue”], e non chiamarono col nome di animali molte località terrestri, come in Grecia la città di Hippion Argos [cioè, “allevatrice di cavalli]? Infine il nome d’Italia non deriva da vituli [vitelli], come scrive Pisone? Chi può negare, per vero, che il popolo romano discenda da pastori? Chi ignora che Faustolo, l’aio che allevò Romolo e Remo, era un pastore? E il fatto che essi fondarono la città proprio il giorno delle Parilie non sarà una prova che loro stessi erano dei pastori? Alla stessa conclusione si può giungere partendo dai seguenti fatti: 1) ancora oggi – secondo una antica – usanza – s’infliggono multe di buoi e di pecore; 2) le monete di più antico conio sono contrassegnate da figure di animali; 3) quando fu fondata la città, il punto delle mura e delle porte fu segnato dall’aratro a cui erano aggiogati un toro e una vacca; 4) quando il popolo romano compie il rito purificatorio dei suovitaurilia vengono condotti in processione un verre, un ariete e un toro; 5) noi portiamo molti nomi gentilizi desunti da ambedue i tipi di bestiame, quello grosso e quello minuto (da quello minuto abbiamo Porcio, Ovinio, Caprilio; così da quello grosso abbiamo Equizio, Taurio, Asinio): la stessa cosa provano i cognomi, in quanto diciamo per esempio gli Anni Caprae, gli Statili Tauri, i Pomponi Vituli, e così molti altri cognomi desunti da nomi di animali”.

49) Plutarco, Quaestiones Romanae 31: “Nei riti nuziali si canta il notissimo Talasio. Perché? Forse per derivazione da talasiva [filatura]. Infatti chiamano talasus il tavlaro [cesto per la lana], e quando conducono a casa la sposa stendono un vello; essa porta una conocchia e il fuso, e adorna con trecce di lana la porta del marito”. Lucano, Pharsalia II 355: “..benchè il tempo non si adatti a nozze, già il destino chiamando alla guerra, gli piace tuttavia stringere soltanto il vincolo legale senza alcuna pompa vana, ammettendo alla sacra cerimonia testimoni gli Dèi. Non pendono serti festivi sull’inghirlandata soglia, non si distende fra i due cardini la candida benda..” Festo [TALASSIONEM]: “Varrone sostiene che nelle cerimonie nuziali vi appare il simbolo del lavoro della lana. Infatti si chiamava talassio un cesto altrimenti chiamato calathus, peculiare dell’arte di lavorare la lana”.

50) Plinio VIII 191: “Tutte le lane non ancora purgate hanno proprietà medicamentose”. Tra gli autori che si sono occupati di lana si possono citare Sestio Nigro, Dioscoride, Celso, Marcello, Sereno, Pseudo Prisciano, Sesto Placito. Per esigenze di spazio riporteremo qui il “solo” Plinio. XXIX 29 sgg: “Cominceremo dai rimedi universalmente riconosciuti [..] Gli antichi Romani attribuivano alla lana un valore anche superstizioso e prescrivevano alle spose novelle di toccare con essa gli stipiti delle porte delle loro case. A parte l’uso religioso e la protezione dal freddo, la lana non sgrassata fornisce parecchi rimedi intrisa di olio e vino o aceto, secondo che sulle varie parti del corpo si richieda un effetto emoliente o irritante, astringente o rilassante, in applicazione sulle membra lussate e i tendini dolenti, umettandola frequentemente. Alcuni, per le lussazioni, vi mescolano anche il sale; altri insieme alla lana mettono la ruta pestata e il grasso, anche su contusioni e edemi. Si dice anche che la lana renda più gradevole l’alito strofinata sui denti e le gengive in impasto col miele. Giova poi in suffumigi negli attacchi di delirio. Arresta l’epistassi, introdotta nelle narici con l’olio rosato e, con altro procedimento, in tamponi auricolari molto spessi. Inoltre si stende sulle ulcere croniche in impasto col miele. Guarisce le ferite imbevuta nel vino o nell’aceto o nell’acqua fredda e nell’olio e poi strizzata. La lana d’ariete lavata a freddo macerata nell’olio, usata nelle malattie delle donne, calma l’infiammazione dell’utero e, nel prolasso, adoperata in suffumigi, lo fa rientrare nella sua sede. La lana non sgrassata distesa sul ventre e applicata in pessari estrae i feti morti; arresta pure le emorragie uterine. Si tamponano con essa le ferite prodotte dal morso di cane rabbioso, poi la si stacca dopo sette giorni. Intrisa di acqua fredda guarisce la pipite. La stessa impregnata di un miscuglio bollente di nitro, zolfo, olio, aceto, pece liquida, applicata più calda che si può due volte al giorno, è un sedativo delle lombaggini. La lana di ariete non sgrassata fasciata stretta intorno alle articolazioni delle estremità arresta pure le emorragie [..]  Applicano la lana non sgrassata anche sopra le escoriazioni, le battiture, i lividi, le contusioni, le ammaccature, le lacerazioni, le lesioni traumatiche da caduta, sulla testa nel mal di capo e su altre parti dolenti; sullo stomaco, nella gastrite, imbevuta di aceto e olio rosato. La sua cenere si spalma sulle escoriazioni, sulle ferite, sulle bruciature. Si aggiunge anche ai preparati oftalmici, come pure si introduce nelle fistole e negli orecchi invasi dal pus. Per questo scopo tosano la lana, altri la strappano e, dopo averne tagliato le punte, la seccano, la cardano, la ripongono in un recipiente di argilla non cotto, poi la cospargono di miele e la bruciano. Altri, dopo aver disteso sotto la lana uno strato di schegge di legno di pino e altri strati poi uno sopra l’altro, la spruzzano di olio e le danno fuoco, quindi stropicciano la cenere con la mano dentro a vaschette in cui han versato acqua, e la lasciano sedimentare; ripetono più volte questa operazione cambiano l’acqua, finchè all’assaggio la cenere non risulti lievemente astringente senza però pizzicare la lingua. A questo punto ripongono la sostanza. Essa ha effetto risolvente ed è un ottimo depurativo delle palpebre. Anche lo sporco incorporato nel grasso degli ovini e il sudore del cavo femorale ed ascellare aderenti alla lana – materia chiamata esipo – hanno svariatissimi impieghi. Eccelle l’untume che si produce nei capi dell’Attica. Lo si prepara in parecchie maniere, ma il più pregiato si ottiene raccogliendo prima la lana strappata di recente in quelle regioni, o tutta la massa di sporco ancora piena di unto, facendo bollire leggermente la materia in un recipiente di bronzo, a fuoco lento, lasciando raffreddare poi raccogliendo il grasso che viene a galla in un recipiente di terracotta e di nuovo mettendo a cuocere la sostanza primitiva. L’uno  e l’altro grasso così ottenuto viene lavato nell’acqua fredda, filtrando attraverso un panno di lino, e lasciato seccare al Sole, finchè divenga bianchissimo e trasparente; a questo punto si ripone in un vasetto di stagno. Per essere buona la sostanza deve mandare odore di rancido e non liquefarsi se stropicciata con le mani bagnate, ma divenire bianca come la biacca. L’esipo è utilissimo agli occhi contro le infiammazioni e le callosità delle palpebre. Alcuni abbrustoliscono la massa su un coccio, fino a perdita del grasso, giudicando che il prodotto così ottenuto sia più confacente per le palpebre escoriate e indurite e per gli angoli degli occhi granulosi e lacrimanti. L’esipo guarisce le piaghe non solo degli occhi, ma anche della bocca e dei genitali, mescolato al grasso d’oca. Cura inoltre le infiammazioni dell’utero, le ragadi anali e i condilomi in impasto con il meliloto ed il burro. Passeremo in rassegna più avanti gli altri suoi usi. Anche lo sporco che si trova sotto la coda, condensato in pillole, lasciato seccare da sé e poi ridotto in polvere, strofinato sui denti ha su di essi un mirabile effetto, anche quando tentennano; altrettanto sulle gengive, se colpite da lesioni cancerose. Quanto poi alla lana depurata, o applicata da sola o medicata con zolfo, allevia i dolori sordi, mentre la sua cenere guarisce le malattie dei genitali, ed è tanta la sua efficacia che la si mette pure sopra le medicine. Anzitutto è un rimedio per gli stessi ovini se non pascolano per inappetenza. In effetti se si fa una legatura la più stretta possibile alla coda con la lana ad essa strappata, subito riprendono a mangiare e dicono che il tratto di coda al di là del nodo si necrotizza rapidamente. La lana si associa anche alle uova, venendo applicata insieme ad esse sulla fronte, contro le lacrimazioni degli occhi. Per questo impiego non c’è bisogno che la lana sia purgata con la saponaria, e non occorre versare altro che il chiaro d’uovo e la polvere d’incenso”.

51) Servio, Ad Aen. XII 169: “I Feziali e il Padre Patrato, attraverso i quali venivano ratificate le dichiarazioni di guerra o gli accordi di pace, non facevano mai uso di vesti di lino; del resto questa fibra è tanto estranea al cerimoniale romano che, quando si trova una flaminica con la tunica di lana intessuta di fili di lino, si conviene che a causa di quel fatto sia stato commesso un sacrilegio”. Aulo Gellio, Noctes Acticae X 15: “Il flamine diale era tenuto a numerose pratiche rituali, come pure a parecchi divieti rituali che abbiamo visto registrati nei libri composti Sui sacerdoti pubblici nonché nel libro primo di Fabio Pittore. Ecco quanto ricordiamo, in complesso, da tali fonti [..] Stare all’aperto senza berretto non gli è permesso; al coperto può farlo, da non molto tempo, per decisione dei pontefici, come testimonia Masurio Sabino; così come, si dice, alcuni altri obblighi gli sono stati condonati e gli si è fatto grazia di certuni riti [..] Non può togliersi la sottoveste se non in luoghi coperti, per non essere nudo sotto il cielo, che sarebbe come dire sotto gli occhi di Giove [..] Alle medesime pratiche rituali è tenuta in linea di massima la moglie del flamine diale; ma dicono che essa ne osservi anche per conto suo [..] E queste sono le parole di Marco Varrone sul flamine diale, dal secondo libro delle Antichità divine: «Egli solo porta il galero bianco: o perché è il sacerdote più importante o perché il galero dev’essere confezionato con una vittima bianca sacrificata a Giove».”