SACRI ALBERI E CULTI MASCHILI

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Se nel precedente articolo abbiamo parlato di alcuni alberi connessi alla femminilità, qui passeremo invece in rassegna alcuni di quelli maschili.

Partiamo da quelli che, per la dirittura del loro tronco, si collegano direttamente alla virilità, ossia le conifere. Si tratta di una presenza piuttosto insolita nel Lazio (1), relitto di epoche precedenti e più fresche: in epoca arcaica, a causa del cambiamento del clima, alle conifere erano già da tempo subentrate le latifoglie (faggi e querce, soprattutto). I culti legati a questi alberi, specie al pino (il cui nome deriva dalla forma aghiforme delle sue foglie, e associato alla fecondazione, 2), son tutti stranieri e legati al ciclo di morte e rinascita vegetale: quello dionisiaco il cui tirso, chiaro simbolo fallico, era sormontato da una pigna, quello Isiaco, quello di Proserpina e quello di Attis (3). In questo culto, collegato a quello della Magna Mater importato dalla Frigia (4), il pino ricopre un ruolo cruciale,in particolare nella dendrophoria. Le festività iniziavano il 15 Marzo con il corteo dei cannophori, collegio religioso preposto a recare delle canne fino al tempio di Cibele sul Palatino, in ricordo dei canneti dove trovò rifugio il giovane Attis; dopo un periodo novendiale in regime di purità (con l’astensione dalle pratiche sessuali e da determinati cibi), ove si piangeva la morte del dio, il 22 avveniva l’Arbor Intrat. I dendrophori trasportavano un pino sacro, ritualmente scelto e tagliato prima del sorgere del Sole, avvolto in rosse bende di lana e adorno di viole (nate dal sangue di Attis) nonché altri simboli di culto appesi ai rami, fino al tempio.

Lì avveniva la vera e propria commemorazione, che il 24 culminava nel Dies Sanguinis: in un generale parossismo, i sacerdoti del dio si laceravano le carni (5) irrorando di sangue l’albero e arrivando persino ad autoevirarsi, per poi offrire i genitali; ciò aveva lo scopo di rianimare il dio e con esso la vegetazione. Il 25 Marzo, con gli Hilaria, la gioia prorompeva incontenibile per la resurrezione di Attis; dopo il giorno di riposo della Requetio, il 27 si svolgeva la cerimonia della Lavatio Matris Deum. Il simulacro di Cibele, posto su un carro, veniva trasportato al fiume Almone (6), dov’esso confluiva nel Tevere, e ritualmente lavato. L’Initium Caiani al Vaticano era l’atto conclusivo, il 28 Marzo, in cui avevano luogo le iniziazioni ai Misteri di Attis (7). Questo ciclo di festività, attestato solo dal tardo Calendario di Filocalo (8), era estraneo alla Romanità: il sacerdozio (che prevedeva tra l’altro l’abbigliarsi da donna e la castrazione) era precluso ai cittadini Romani, e interamente composto da un clero straniero, i Galli (che nulla hanno a che vedere con l’omonimo popolo). Visti come fanatici, l’impulso alla follia era attribuito alle acque del fiume Gallo, in Frigia (9), di cui erano originari e da cui derivavano il nome. Il culto ottenne tuttavia una forma di riconoscimento statale a partire da Claudio (10), e la documentazione epigrafica sulle corporazioni dei cannofori e dei dendrofori (preposti al trasporto del sacro pino), attestate in decine di iscrizioni da tutta Italia e nell’Impero, prova una certa fortuna (11), complice anche la crisi spirituale dell’epoca. Persino i cristiani, per puntellare l’insussistenza della loro artefatta dottrina, ne saccheggiarono a piene mani.

Divinità italica è invece Silvano. Il pino (sotto forma di albero, fronda o pigna) ricorre sulle rappresentazioni del dio, nonostante le altre fonti (tranne un’iscrizione che parla di una corona pinifera 12) parlino di alberi diversi: cipresso, frassino nonché ferule, fiori e vari frutti rustici (13). Il singolo albero non è dunque che un mero elemento convenzionale, slegato da uno specifico significato cultuale. E’ nella qualità, insita nel suo nome, di signore della silva, rafforzata anche dall’epiteto “silvestris”, che nella letteratura o nel culto gli vengono dedicati alberi (14). Al pino è associato tra i diversi miti anche quello di Fetonte (15): alla morte del giovane, precipitato col Carro Solare, le sorelle Eliadi vennero trasformate in pini (pioppi, secondo altre versioni), stillanti lacrime di ambra.


Altro albero talvolta associato a Silvano è il cipresso (Cupressus sempervirens), secondo una variante del mito di Ciparisso (16). Consacrato a Dite ed impiegato nei roghi e cortei funebri, nonché per adornare le dimore colpite da un lutto (17); questa valenza dura a tutt’oggi. A questo concorrono anche ragioni pratiche: le sue radici non si espandono orizzontalmente bensì in verticale, il che lo rende idoneo a risiedere nei cimiteri, senza che apporti danno alle tombe. Tuttavia, il legame che questo magnifico albero ha con la morte può essere in parte ridimensionato: l’impiego in detto ambito si deve al suo soave profumo, capace di soffocare quello della corruzione. E se è vero che le sue radici si sviluppano verso il basso, è altresì vero che l’asse verticale procede al di fuori del terreno, puntando verso il Cielo. Quasi ad accompagnare l’anima del defunto, la forma del cipresso, perennemente verde, richiama non solo il cordoglio ma anche l’immortalità. Del resto con il suo legno, assai pregiato (18), si facevano statue di culto e templi (19). Le virtù del legno di cipresso sono spesso associate a quelle di cedro: per le sue proprietà germicide e disinfettanti se ne facevano anche fumigazioni nelle stalle (20). Al fine di tenere lontani i parassiti e, più in generale, in ragione della sua incorruttibilità, diversi celebri santuari, come quello di Artemide Efesina (21), erano fabbricati nei loro elementi portanti con questo albero, mentre i libri venivano trattati con la sua resina. Per questo, e per la maestosità della sua imponenza, secondo i Romani le parole meritevoli di essere eternate ai posteri erano chiamate “..degne del cedro” (22).


Vi son poi due alberi tra loro contrapposti, l’olivo e il corniolo. Benchè il primo, nell’ambito sacro, non abbia conosciuto altrettanta fortuna che in Grecia, è comunque associato a Minerva e utilizzato per fabbricare l’apex, la sommità del copricapo sacerdotale dei Flamini (23). Ma l’olivo è soprattutto riconosciuto come il simbolo della prosperità, e della pace imprescindibile per conseguirla (24), assegnato ai militari nel momento del congedo. Tutt’altra valenza invece per il corniolo, che rientra sotto il dominio di Bellona: la guerra. Di corniolo erano fabbricate lance e giavellotti (25), come quella servita a prendere possesso di Roma: scagliata da Romolo appena ricevuti gli auspici fatidici, essa si conficcò sul Germalo, in cima al Palatino. E prodigiosamente l’asta gettò delle gemme, che diedero vita a delle fronde ed infine ad un albero di corniolo (26), custodito e venerato per oltre mezzo millennio. La scelta di quei luoghi fu messa in discussione una sola volta: all’indomani del saccheggio di Brenno, il Senato discuteva se ricostruire la Città o trasferire la popolazione a Veio; in quel frangente giunge alle loro orecchie, da fuori, il perentorio ordine di un centurione ad un signifero di piantare le insegne nel terreno: “..statue signum; hic manebimus optime”. Tale esortazione rappresentò l’omen, il presagio che indusse i padri a confermare la scelta compiuta da Romolo (27). In modo assai simile aveva luogo l’indictio belli da parte dei Feziali: questo sacro collegio era preposto alla stipulazione dei patti, alla loro tutela e alla riparazione in caso di rottura. Se le istanze del popolo romano, avanzate secondo un preciso formulario rituale, non trovavano accoglimento, i Feziali scagliavano l’asta (presumibilmente) di corniolo sul confine del territorio nemico (28). Era la guerra.

Un giorno un gallina cadde dal cielo in grembo ad una giovane donna: era stata afferrata e rilasciata, illesa, da un’aquila; stupefatta, la ragazza si accorse che la gallina stringeva ancora nel becco un rametto d’alloro, con tanto di bacche. Questo fatto venne interpretato come un prodigio e gli indovini disposero che si avesse massima cura del volatile, insieme alla sua discendenza. Stessa sorte avrebbe dovuto avere il rametto che, una volta piantato, fiorì rigoglioso dando vita ad un boschetto. Quella ragazza si chiamava Livia Drusilla, e l’uomo a cui andò in sposa si chiamò Ottaviano: da quel boschetto attinse per ornare i suoi trionfi, consuetudine mantenuta dagli altri imperatori; ad ogni trionfo, un nuovo albero veniva piantato. Quel gruppetto di lauri cresceva al IX miglio della Flaminia, a nord di Roma, strettamente legato ai membri della dinastia: ogni alloro seguiva, nelle alterne fortune, la sorte di colui che l’aveva piantato. Alla fine del principato di Nerone, l’ultimo esponente della dinastia Giulio-Claudia, l’intero boschetto si estinse insieme agli eredi della gallina bianca (29).

Il legame tra l’alloro (Laurus nobilis) e la gloria è in realtà assai più antico. Roma aveva già salutato la sua prima cerimonia di vittoria, condotta da Romolo (30), con il verde dei lauri di cui, come il resto del Lazio, era ricca (31). L’usanza si mantenne per l’intero arco della storia romana: re, consoli, dittatori e imperatori (con la nascita dell’Impero solo i membri della famiglia potevano celebrare il trionfo) si fregiarono tutti della corona trionfale (32). Di alloro erano anche adornati gli altri ornamenta triumphalia, così come i dispacci che annunciavano la vittoria, i fasci littori e i giavellotti dei soldati (33). Per questo verrà indirettamente associato alla pace, benché in questo senso l’albero prediletto resti l’olivo; . L’utilizzo di alloro si estese poi anche all’uso colloquiale e all’ambito profano (per premiare vincitori di competizioni ginniche o artistiche), giungendo fino ad oggi, con il cerimoniale accademico; il nome dell’albero deriverebbe proprio da laudere, “lodare” (34). Trovava per questo riverita dimora davanti alle porte di sacerdoti e imperatori (35), anche in ragione di una sua prerogativa esclusiva: sarebbe l’unico albero a non essere toccato dai fulmini (36). Albero felicissimo e solare, al punto che il suo legno caldo era prescelto per l’accensione del fuoco (37), è consacrato ad Apollo. E del dio lauripotens (38), more graeco (39), l’alloro perpetua le virtù profetiche. Secondo alcune interpretazioni, è proprio masticando foglie di lauro che la Pizia si empiva di furore divino e lanciava i suoi responsi; dal crepitio prodotto dalle foglie poste sul fuoco e dal modo in cui bruciavano si ottenevano responsi (40). Quest’usanza si conserverà nelle campagne italiane fino ad oggi, come la convinzione che con esso si possano stornare i fulmini. Come il mirto per l’ovatio (di cui abbiamo parlato nel precedente articolo), l’alloro trovava impiego nel trionfo proprio per le sue qualità purificatrici: quest’albero solare, come i raggi dell’Astro stesso, era in grado di riscattare i soldati dal sangue versato. Solo allora il generale vittorioso, uomo e al tempo stesso immagine vivente di Giove (42), risaliva la Sacra Via fino al Campidoglio, per deporre la corona ai piedi del sovrano di tutti gli uomini e di tutti gli Dèi (43). Veicolo quindi di divinità, cantato dai letterati di ogni tempo (da Dante e Petrarca ad oggi), nessun albero come il lauro ha conquistato, nella storia, la stessa fortuna (44).


Concludiamo con la quercia. Il rapporto dei Romani con questi alberi viene da lontano: da questi tronchi sarebbero nati i primi abitanti dei Sette Colli (45), e dalle sue ghiande (come da quelle del faggio) avrebbero tratto il primo sostentamento (46). Di questa ancestrale condizione serbano ricordo le leggi delle XII Tavole, dove si riconosceva il diritto di cibarsene anche raccogliendole dall’altrui proprietà privata (47). Entrambi questi alberi sono consacrati a Giove (48), soprattutto la quercia che (nel resto del mondo mediterraneo) per mezzo dello stormire delle sue fronde faceva udire il proprio volere; così a Dodona e a Siwa (49). L’autorità di questa pianta sulle altre è attestata dalla corona civica: si trattava della più alta onorificenza.  Nessun altro riconoscimento, né quello conferito per le vittorie navali (corona rostrata) o sul campo, per chiunque fosse arrivano ad espugnare le mura di una città o di un accampamento nemico (rispettivamente, la corona muralis e vallaris) valeva quanto questa corona  (50) e ciò che rappresentava. Le foglie della corona civica, che surclassavano quelle auree, erano ottenibili da chiunque avesse salvato la vita ad un concittadino. E questo la dice lunga sulla pretesa bellicosità dei Romani. Accusa impugnata da chi ignora il complesso di norme giuridiche e sacrali (sovrinteso dai Feziali) necessario a rendere quel conflitto legittimo, agli occhi di uomini e Dèi; Bellum Iustum. Da chi ignora quei versi degli antichi che ci testimoniano non solo l’angoscia degli esuli, scacciati dalle proprie terre, ma anche il prezzo della vittoria nelle lacrime delle donne e dei figli privati dell’affetto dei padri (51). Da chi ignora come la guerra sia una costante di ogni società umana, e che il discrimine stia nel cosa rimane una volta che la polvere della battaglia si è posata. E nessuno restituì mai ai vinti quanto restituì Roma. L’Impero in questo senso non è una volontà di dominio, ma una necessità di pace, Pace venerata come divinità anche più di Bellona. Una pace regolata nel Diritto. Giustamente si dice che l’intera struttura romana poggi su di esso; ma il diritto romano affonda le sue radici in quelle di una sacra quercia.

Una quercia maestosa, venerata dai pastori sul Campidoglio secoli e secoli prima della Fondazione. Sotto le sue fronde Romolo trasportò le spoglie del suo primo nemico vinto, Acrone signore dei Ceninensi, dedicandole a Giove Feretrio e consacrandovi una capanna cultuale (52). Al suo interno erano conservate le Lapides Silices, pietre silicee, che sfregate emettevano minuscole saette. Questa rimase la prima rappresentazione di Giove, come il fuoco puro per Vesta, finchè i Tarquini non introdussero le raffigurazioni antropomorfe degli Dèi (53). Con quella pietra venivano sanciti i patti: in origine si giurava, con essa in mano, di rispettare l’impegno; poi la si gettava lontano reclamando analogo destino, di maledizione e di esilio, per sè stessi laddove si fosse mancato alla parola e stornando la collera divina dalla Città (54). A questa funzione esecratoria si affiancò poi quella di strumento sacrificale: con la Pietra di Giove si colpiva un animale, in genere una scrofa, ed in tal modo sarebbe stato fulminato il reo (55). Privati cittadini e rappresentanti di popoli diversi giurarono su questa Pietra:  è la prima espressione del Diritto: lo Ius Iurandum, il più solenne dei giuramenti (56). All’ombra dell’antica quercia, il Tempio di Giove Feretrio fu il primo tempio di Roma: qui le gentes, per la prima volta delegarono le loro prerogative ad un potere centrale. L’interesse privato dei clan subentrò a quello collettivo della civitas, la Legge soppiantò l’Arbitrio. Fu l’inizio della dialettica istituzionale tra i popoli, basata non sulla violenza ma su patti comuni (57) Tutto questo, sotto gli auspici di una sacra quercia e di una pietra.

Adriano Mattia Cefis




                                 NOTE

1) Plinio XVI 38: “A quei tempi parevano esotici, dato che non appartenevano alle zone circostanti la Città, il pino e l’abete e tutti gli altri alberi che danno pece”.

2) Isidoro, Etymologiae XVII, VII 31: “Il pino è un albero il cui nome fa riferimento alle foglie aghiformi: gli antichi, infatti, dicevano pinnus per dire acuto. In Greco, una varietà di pino è chiamata pitis, mentre un’altra, cui noi diamo il nome di picea in quanto trasuda una resina simile a pece, è detta pefki. Di fatto, esistono differenti specie di pino. Si crede che il pino favorisca la crescita di tutto ciò che si semini ai suoi piedi, così come si crede che il fico la disturbi”.

3) Firmico XXVII 1-2: “Nel culto frigio, quello che chiamano della Madre degli Dèi, ogni anno si taglia un albero di pino e nel mezzo dell’albero si lega il simulacro di un giovane. Nel culto isiaco si taglia un tronco di pino e la parte centrale di questo tronco si scava minuziosamente; qui si seppellisce un idolo di Osiride fatto di semi. Nei riti sacri di Proserpina un albero tagliato viene scolpito secondo l’effigie e la forma di una fanciulla e, dopo che è stato portato in processione attraverso la Città, viene pianto per quaranta notti fino a quando, durante la quarantesima notte, non viene bruciato. Una simile fiamma consuma anche gli altri legni dei quali ho parlato. Infatti, dopo un anno, una catasta di questi stessi legni è data in pasto alle fiamme”. Ovidio, Metamorfosi X 103: “Anche voi accorreste, edere dai tronchi tortuosi, e con voi le viti ricche di pampini e gli olmi ricoperti di viti e gli orni e i pini selvatici e i corbezzoli colmi di rosse bacche e le palme flessibili, premio per i vincitori, e il pino che si cinge in alto di rami e irsuto nella cima, albero caro alla Madre degli Dèi, in quanto Attis suo fedele per mezzo di esso si spogliò della natura umana e si inglobò in quel duro tronco”. Catullo, Liber 63: “Solcato in fuga a vele spiegate il mare profondo, Attis correndo raggiunse d’impeto il bosco frigio e in mezzo alla foresta i luoghi oscuri della dea; fuori di sé, in preda a una furia rabbiosa, si recise il sesso con una pietra aguzza. Sentì cosí ogni forza d’uomo sfuggirgli dal corpo (goccia a goccia il suo sangue bagnava la terra); strinse nelle mani candide il piccolo tamburo di Cibele (il tuo tamburo, dei tuoi misteri, madre) e battendo con dita delicate la sua pelle in un tremito si rivolse alle compagne: «Venite, Galle, venite tra i boschi di Cibele, venite tutte, gregge errante della dea di Dindimo: cercando esuli terre lontane, al mio comando per seguirmi vi siete affidate, voi mie compagne, che avete sfidato la furia rabbiosa del mare e per orrore di Venere vi siete evirate, rallegrate di corse pazze il cuore della dea. No, no, nessun indugio, venite tutte, seguitemi alla casa frigia di Cibele, alle sue foreste, dove rombano i tamburi, dove squillano i cembali, dove risuonano cupe le melodie del flauto, dove, cinte d’edera, si dimenano le Mènadi, dove con acute grida si celebrano i riti, dove svolazza l’orda vagabonda della dea: là con le nostre danze impetuose dobbiamo andare». Il canto di Attis ermafrodito alle compagne provoca nella schiera un urlo scomposto di voci, brontolano i tamburi, strepitano i cembali, e corrono tutte al verde Ida come impazzite. Perduta in un delirio se ne va Attis affannata, guidandole tra boschi oscuri al suono del tamburo, come una giovenca selvaggia che rifiuti il giogo: dietro la sua furia si precipitano le Galle. Raggiunto il tempio di Cibele cadono sfinite e morte di fatica si addormentano digiune. Languidamente un torpore suggella i loro occhi e spegne nel sonno la furia rabbiosa del cuore. Ma quando i raggi dorati del sole si diffusero nell’alba livida sulla terra e il mare in tempesta, diradando in un baleno le ombre della notte, Attis si scuote e il sonno veloce s’allontana fuggendo tra le braccia impazienti di Pasitea. Svanito nelle nebbie del riposo il suo furore, Attis rimugina in cuore ciò che aveva fatto e a mente fredda comprende come s’era ridotto: con l’animo in tumulto allora ritorna alla spiaggia. E guardando il mare immenso, gli occhi pieni di lacrime, con voce affranta si rivolge in pianto alla sua terra: «Patria che m’hai creato, patria che m’hai generato, come uno schiavo dannato che fugge dal padrone t’ho abbandonato fuggendo ai boschi dell’Ida per vivere tra la neve, in tane di belve cacciandomi furiosa in ogni loro covo: dove, dove potrò cercarti, patria mia? Verso di te corrono gli occhi a volgere lo sguardo se per un attimo questa rabbia mi dà respiro. E dovrò dunque vivere in questi luoghi sperduti, senza più casa patria beni amici genitori, senza piú fori palestre stadi e ginnasi? Maledetta, lamentati piangi, anima mia. Non c’è un aspetto che io, io non abbia assunto: donna, uomo, giovinetto, ragazzo, tutto sono stato, il fiore dei ginnasi, la gloria delle palestre. Il calore della gente riempiva la mia casa e quando al sorgere del sole lasciavo il mio letto tutte le stanze erano ornate di fiori. Ora, ordinata schiava di Cibele, questo sarò, una Mènade, un rottame d’uomo, un eunuco che vive tra le nevi gelide del verde Ida. E trascinerò la vita sui monti della Frigia tra cerve di foresta e cinghiali selvatici. E piango, piango, mi dispero: non l’avessi fatto». Quando il grido sfuggitogli dalle labbra di rosa giunse alle orecchie degli dei come una folgore, subito sciolse Cibele i suoi leoni, aizzando quello alla sua sinistra, quel predatore d’agnelli: «Via, gettati contro di lui, che senta il tuo furore, che costretto dalla tua furia ritorni nei boschi, quello sciocco che sogna di sfuggire al mio potere. Via, sfèrzati il dorso con la coda, battiti, battiti, che tutta la terra sia assordata dal tuo ruggito, atterrita dal fiammeggiare della tua criniera». Dopo le minacce Cibele libera la belva e quella fulminea, scatenando la sua ferocia, si getta alla caccia, ruggisce, fa strage di piante. Giunta sulla riva umida e bianca della spiaggia scorge il tenero Attis nel riverbero del mare e scatta: quello impazzito fugge nella foresta. Lí schiava rimase per tutto il resto della vita. O dea, dea grande, dea Cibele, dea di Díndimo, signora, allontana dalla mia casa il tuo furore: scatena altri ai tuoi deliri, altri alla tua rabbia”.

4) Introdotto, dietro responso dei Libri Sibillini, durante la guerra annibalica.

5) Lattanzio, Inst. I 21: “Da questo tipo di sacrifici quei riti pubblici devono essere giudicati quantomeno come segni di follia; alcuni dei quali sono in onore della Madre degli Dèi, dove gli uomini mutilano sé stessi”. Giovenale, Saturae VI 511-517: “Ed ecco entrare la schiera della furente Bellona e della Madre degli Dèi con al centro, venerando per i suoi osceni seguaci, un gigantesco evirato che da tempo ormai si è reciso con un coccio affilato i suoi molli testicoli ed è a lui, che su una faccia plebea inalbera una tiara frigia, cui fa largo coi timpani la turba urlante”. Qui i Coribanti devoti al dio vengono utilizzati come termine di paragone. Giovenale V 25: “..e i convitati di colpo mutati in Coribanti! Parolacce al principio, ma presto eccoti a roteare, malconcio, le coppe e col tovagliolo rosso di sangue ad asciugarti le brutte ferite ogni volta che tra voi, che siete solo clienti, e lo stuol dei liberti esplode furiosa una rissa a colpi di bottigliate”. Tra le accuse mosse al giovane Ottaviano, oltre a quella di essersi prostituito a più riprese, v’era quella d’essere effeminato; per questo veniva accostato ad un sacerdote di Attis. Svetonio, Augustus 68: “Sesto Pompeo lo bersagliò come effeminato; Marco Antonio lo accusò di essersi guadagnata l’adozione dello zio prostituendoglisi. Il fratello di Marco, Lucio, gli rinfacciò di aver venduto per mille sesterzi a Irzio, in Spagna, il suo pudore, già delibato da Cesare, e di bruciacchiarsi abitualmente le gambe con una noce infocata, perché il pelo vi crescesse più morbido. Del resto, anche tutto il popolo, una volta, in un giorno di spettacolo, intese come offensivo per lui, e approvò con il massimo consenso, un verso recitato in scena relativo a un Gallo che sonava il tìmpano in onore di Cibele, la Madre degli Dèi: «Vedi tu quel cinèdo come regola l’orbe col dito?»Ovidio, Fasti IV 181: “..ecco che si sente suonare il flauto Berecinzio, con il suo corno ricurvo, e che si tiene la festa della Madre dell’Ida. Avanzano in processione gli eunuchi percuotendo i timpani vuoti mentre i sonagli di bronzo, urtandosi tra loro, tintinnano. La dea, sistemata sulle spalle dai suoi effeminati seguaci, viene portata fra le urla lungo le strade della Città”. Lucrezio, De Rerum Natura II 619: “I tamburi che rullano, percossi forte dai rami, insieme al cembalo cavo, al corno rauco ed al flauto invitano alla violenza con i ritmi di Frigia, incutendo in tal modo agli ingrati ed agli empi il timore e il rispetto dovuti alla Madre Divina”.

6) Ovidio, Fasti IV 329-331, 337-343: “Si arriva ad un’ansa del fiume (gli antichi la chiamavano l’Atrio del Tevere), là ove esso curva a sinistra [..] c’è un punto del fiume in cui il placido Almone sfocia nel Tevere e in cui il fiume più piccolo perde il suo nome mescolandosi con quello più grande. E’ là che il canuto sacerdote, nella sua veste purpurea, lavò con l’acqua dell’Almone la Signora e gli arredi sacri. Si levarono urla di gioia dai suoi seguaci, il flauto suonava freneticamente, le mani degli eunuchi percotevano la pelle dei tamburi”.

7) Giovenale IX 24: “..i palatini misteri della Gran Madre venuta dal Mare”.

8) Vedi il C. Filocaliano: http://www.documentacatholicaomnia.eu/02m/0354-0354,_Furius_Dionysius_Filocalus,_Kalendarium_Anno_CCCLIV_Conscriptum,_MLT.pdf

9) Giovenale, Saturae II 110-116: “Ma fra voi non c’è pudore di lingua, non rispetto d’essere a mensa; turpe impera solo Cibele e, lasciva, la libertà di parola mentre, maestro del sacro rito, c’è, fanatico, un vecchio dai bianchi capelli, raro e memorabile esempio d’insaziabile gola, vero e proprio sovrintendente. Ma che aspettano ancora costoro a recidersi, all’uso di Frigia, quella loro carne superflua? Il momento è venuto da un pezzo”. Lucrezio, De Rerum Natura II 615: “..seguono i Galli eunuchi”. Ovidio, Fasti IV 221-222, 243-245: “E che origine ha la frenesia per cui si tagliano il membro? [..] «Questa follia è stata presa ad esempio e i suoi effeminati seguaci si tagliano anch’essi l’inutile membro scuotendo i capelli».” Ovidio, Fasti IV 361-367: “«Perché chiamiamo Galli coloro che si evirano, nonostante la terra dei Galli sia tanto lontana dalla Frigia?». Lei rispose: «Fra il verde Cibele e l’alta Celene scorre un fiume la cui acqua provoca follia: il suo nome è Gallo. Chi beve la sua acqua diventa pazzo. Ne stiano lontani coloro che vogliono salvaguardare la propria salute mentale: chi beve la sua acqua impazzisce».Plinio XXXI 9: “..e del fiume Gallo in Frigia, secondo Callimaco. Ma lì nel bere bisogna usare moderazione, perché può fare impazzire”.

10) Iohannes Lydus, De Mensib. 4, 59: “Il pino viene portato sul Palatino dai dendrofori. Questa festa fu istituita dall’Imperatore Claudio”.

11) Per completezza d’informazioni e fonti sul culto vedi Maria Grazia Lancellotti, Attis: Between Myth and History e Maarten J. Vermaseren, Cybele and Attis: the Myth and the Cult.

12) CIL VIII 27764. Proviene da Planities-el-Sers, nell’Africa Proconsularis.

13) Virgilio, Georgica I 20: “..e tu, che innalzi da una fragile radice, o Silvano, il cipresso”. Il cipresso è ricordato anche da Marziano Capella V 425. Bucoliche 10, 24: “Venne anche, coronato di splendidi fiori di campo, Silvano, fiorite ferule e grandi gigli agitando”. Il frassino è menzionato in un’iscrizione (CIL XII 103) da Axima, dove vengono consacrati al dio mille alberi. Vedi Amedeo Alessandro Raschieri, Carmi epigrafici dalle Alpi Occidentali: https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/books/978-88-97735-95-3/978-88-97735-95-3-ch-05.pdf

14) Oltre a quella di mille alberi, citati in nota 13, degna di nota è anche l’altare al dio consacrato in mezzo a due alberi (CIL XIII 1780).

15) Isidoro, Etymologiae XVI, VIII 6: “La succinite, ossia l’ambra, chiamata dai Greci elektron, è una gemma di colore giallo rossiccio. Dicono si tratti del succo di un albero, ossia di resina, donde il nome succinite. La ragione del nome elettro ci riporta ad una favola. Si narra, infatti, che quando Fetonte morì colpito da un fulmine, le sue sorelle addolorate furono trasformate in pioppi da cui, tutti gli anni, misto alle lacrime sgorga sulle rive del fiume Eridano l’elettro. Quest’ultimo, a sua volta, è stato così chiamato perché  secondo la testimonianza di numerosi poeti, il sole prendeva il nome di Elector. E’ evidente, comunque, che questa gemma non deriva dalla resina del pioppo, ma del pino: se incendiata, infatti, sprigiona il profumo di questa pianta”.

16) Servio, Georgica I 20: “Silvano amava un ragazzo chiamato Ciparisso che aveva un cervo addomesticato. Quando Silvano involontariamente lo uccise, il ragazzo cominciò a consumarsi dal dolore. L’amante-dio lo ha trasformato allora nell’albero che porta il suo nome, che si dice porti come un senso di consolazione”. Ovidio, Metamorfosi X 107: “In mezzo a questo gruppo comparve il cipresso che richiama le mete del Circo, ora albero, un tempo fanciullo amato dal dio che per mezzo delle corde suona la cetra e tende l’arco [..] Quello continua a lamentarsi e chiede agli Dèi questo dono supremo, cioè di piangere senza limite di tempo. E subito le membra, esauritosi il sangue per l’incontenibile pianto, cominciarono a tingersi di verde e i capelli, che poco prima gli cadevano sulla fronte candida come la neve, divennero una chioma ispida, che drizzandosi puntava con la cima sottile verso il Cielo stellato. Se ne dolse il dio e con tristezza gli dice «Sarai pianto da me e piangerai gli altri e sarai accanto a chi soffre».”

17) Plinio XVI 139: “E’ consacrato a Dite e perciò viene collocato presso le abitazioni in segno di lutto”. Virgilio, Eneide VI 216: “Dapprima resinosa di pini e di roveri segate, immensa innalzarono la pira, che di fogliame scuro sui fianchi, e funebri sul davanti i cipressi dispongono e l’adornano sopra di fulgenti armature”. Orazio, Carmina II 14: “Dovremo scendere a vedere l’oscuro Cocito [..] Dovremo lasciare la terra e la casa e la diletta consorte; né pur uno di questi alberi, che tu ora coltivi, accompagnerà il suo padrone d’un giorno, tranne l’increscioso cipresso”. Lucano, Pharsaglia III 442: “..i cipressi, che testimoniano il lutto delle classi alte”. Silio Italico, Punica X 535: “..cipressi, che adornano i cortei funebri e piangono luttuosi accanto alla pira”.

18) Plinio XVI 141: “E’ una pianta che frutta molto guadagno in rapporto all’investimento richiesto dalla sua coltivazione: gli antichi davano comunemente ai boschi piantati a cipresso il nome di «dote della figlia»”.

19) Isidoro, Etymologiae XVII, VII 34: “Il legno di questo albero possiede qualità assai simili a quelle del legno del cedro: è, infatti, anch’esso adatto alla fabbricazione delle architravi dei templi, essendo dotato di una solidità talmente grande che non cede mai a nessun peso, ma conserva sempre la fermezza iniziale. Gli antichi erano soliti disporre rami di cipresso nelle vicinanze delle pire, in modo che il loro profumo coprisse l’odore dei cadaveri bruciati”. Giulio Ossequente, Prodigiorum Liber 106: “Furono poste due statue di cipresso a Giunone Regina”; 108: “Statue di cipresso furono innalzate in onore di Giunone Regina da ventisette vergini, che purificarono la Città”.

20) Virgilio, Georgiche III 414: “Abituati a profumare le stalle accendendo del cedro e a scacciare col galbano dall’acre fumo i dannosi chelidri”.

21) Vitruvio, De Arch. II 13: “Nel tempio di Diana a Efeso la statua della dea è ricavata da questo tipo di legno, come del resto i soffitti di detto tempio e di altri famosi santuari proprio in grazia della sua durevolezza”.

22) Isidoro, Etymologiae XVII, VII 33: “Le sue foglie sono simili a quelle del cipresso. Il legno, poi, di odore gradevole e di grande durata, resiste agli attacchi dei tarli. Al cedro fa allusione Persio quando scrive: «Pronunciò parole degne del cedro», con evidente riferimento alla lunga vita di quest’albero, ragion per cui anche i lacunari dei templi sono fatti di questo materiale. La resina prodotta dal tronco del cedro, chiamata cedria, è di tale utilità per la conservazione dei libri che questi ultimi, unti con essa, non temono le offese dei tarli o del tempo”.

23) Isidoro, Etymologiae XIX, XXX 5: “L’apex è un pileo assai stretto usato dai sacerdoti pagani. Il suo nome deriva dal verbo apire, che significa legare: la verghetta d’ olivo che si trovava in cima all’apex, infatti, era cucita all’apex stesso con un filo di lana di una vittima”.

24) Isidoro, Etymologiae XVII, VII 62: “Quest’albero è simbolo di pace”. Aulo Gellio, Noctes Acticae VI 1: “..e c’è infine quella d’olivo, di cui si adornano coloro che non sono stati in battaglia ma apprestano il trionfo”. Cassio Dione XLIX 13, 2: “..annunciò che avrebbe dato agli uomini congedati tutto quanto promesso, assegnando loro terre, donando a ciascuno di loro duemila sesterzi e a coloro che erano stati vittoriosi nei combattimenti navali una corona d’olivo in aggiunta”.

25) Virgilio, Eneide IX 698:Vola l’italo corniolo per l’aria tenera, e nello stomaco infisso, dentro alle profondità del petto scompare: rigetta la caverna dell’oscura ferita un’onda spumeggiante, e confitto il ferro nel polmone s’intiepidisce”. Ovidio, Metamorfosi VIII 408: “Disse, e lanciò un’asta di corniolo appesantita da una punta di bronzo”. Strabone, Geografia XII 7, 3: “L’albero da cui sono fatti i giavellotti di stiracro, simili a quelli fatti di legno di corniolo”. Claudiano, De Raptu Proserpinae 107: “..il corniolo per le armi da guerra”. Claudiano, Panegyricus dictus Prob. Et Olyb. 122: “..mentre Bellona, dea della guerra, lo alleggerisce dalla corazza e scioglie i destrieri polverosi; una lancia tesa, un’enorme tronco di corniolo, arma la sua mano e illumina il suo tremendo splendore.”

26) Plutarco, Romolo 20, 5: “Questa è vicino alla discesa che porta dal Palatino al Circo Massimo. Qui dicevano che vi fosse la sacra lancia di corniolo. Favoleggiavano che Romolo gettasse con forza dall’Aventino una lancia che aveva la punta di corniolo. Penetrata la punta in profondità, nessuno ebbe la forza di estrarla, sebbene vi ci si provassero in molti. La terra, che era fertile, coprì il legno dell’asta e fece crescere da esso molti germogli e alimentò un grande fusto di corniolo. Quelli che vennero dopo Romolo, custodendolo e venerandolo come uno degli oggetti più sacri lo ricinsero con un muro. Se a qualcuno, accostandosi ad esso, sembrava che non fosse fiorente o verdeggiante, ma che fosse senza nutrimento e che appassisse, subito lo comunicava gridando a quelli che incontrava, e questi, come se portassero aiuto a un edificio in fiamme, gridavano «Acqua!», e da ogni parte accorrevano sul posto portando secchi pieni d’acqua. Ma quando Gaio Cesare, come dicono, dispose la costruzione di un passaggio sopra il recinto e gli operai scavando la zona intorno, senza accorgersene, danneggiarono irreparabilmente le radici dell’albero, questo si seccò”. Si ci riferisce presumibilmente a Caligola, a cui si deve la messa in opera su questo versante del Colle. Servio, Ad Aen. III 46: “Ma questo (che dardi abbiano generato alberi) l’ha tratto [Virgilio] dalla storia romana: infatti Romolo, presi gli auguri, gettò un’asta dal monte Aventino al Palatino; ed essa, conficcatasi nel terreno, mise le fronde e divenne un albero”. Arnobio, Adv. Nat. IV 3: “..Quirino [Romolo] nello scagliare la lancia su superiore alle forze di tutti gli altri”. Lattanzio, Narrationes XV 48: “Romolo, figlio di Marte e Ilia, mentre era a caccia, inseguendo un cinghiale che fuggiva, scagliò dal monte Aventino una lancia. Appena questa si conficcò sul colle Palatino, al posto di quel monte comparve una scala, la cui parte inferiore è tanto sprofondata nella terra da essere intessuta di radici. Infine accadde che l’asta di corniolo si trasformò in un albero”.

27) Livio V 55: “..quello che risultò decisivo in quella situazione di incertezza fu una frase pronunciata al momento giusto. Mentre il Senato era in riunione nella Curia Ostilia per dibattere la questione, poco dopo le parole di Camillo, transitarono per caso nel Foro delle coorti in ordine di marcia di ritorno dal presidio e il centurione esclamò proprio nel luogo del comizio: «Pianta l’insegna qui, signifero; questo è il posto giusto per noi!». I senatori usciti dalla curia udirono la frase e dissero che la interpretarono come un presagio; la plebe, accorsa tutto intorno, approvò”. Valerio Massimo, Memorabilia I 5: “Anche l’osservazione dei pronostici è collegata in qualche modo col culto religioso, perché si crede che essi dipendano non da causalità, ma dalla provvidenza degli dèi. La quale fece in modo che dopo la distruzione di Roma ad opera dei Galli, mentre i padri coscritti discutevano se emigrare a Veio o ricostruirne le mura, un centurione al cospetto delle coorti che tornavano a presidio esclamasse nel comizio: «O alfiere, fissa a terra l’insegna: qui resteremo bene!». Infatti, udita questa frase, il senato dichiarò che accettava come favorevole il pronostico e lì per lì abbandonò il progetto di passare a Veio. Con quanto poche parole fu ribadito che quello era il luogo destinato per l’impero più potente del mondo! Questo, io credo, perché gli dèi ritennero cosa indegna che il nome di Roma, nato sotto i più favorevoli auspici, potesse cambiarsi in quello di Veio, e che l’onore di un’inclita vittoria si confondesse con le rovine di una città da poco umiliata”.

28) Aulo Gellio, Noctes Acticae XVI 4: “Il feziale del popolo romano, a quanto scrive Cincio nel terzo libro Sull’arte militare, nell’atto d’indire la guerra ai nemici e gettare un dardo nel loro terreno pronunciava queste parole: «Poiché il popolo ermundolo [nome da sostituirsi ogni volta] e gli uomini del popolo ermundolo hanno fatto guerra e commesso offesa contro il popolo romano, e poiché il popolo romano ha ordinato la guerra col popolo ermundolo e gli uomini ermundoli, per questa ragione io col popolo romano dichiaro e faccio guerra al popolo ermundolo e agli uomini ermundoli».” Livio I 32: “Di solito il feziale porta ai confini con l’altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco e, di fronte ad almeno tre adulti, dice: «Poichè i popoli dei Latini Prischi e alcuni dei Latini Prischi si sono resi responsabili di atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poichè il popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prischi e il senato del popolo romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il suo consenso a questa guerra coi Latini Prischi, per i suddetti motivi, io e quindi il popolo romano dei Quiriti dichiaro guerra ai popoli dei Latini Prischi e ai cittadini dei Latini Prischi e la metto in pratica.» Detto ciò, scaglia la lancia nel loro territorio. Ecco dunque in che termini fu esposto reclamo ai Latini e come fu loro dichiarata guerra: l’usanza passò ai posteri.”

29) Plinio XV 136: “Fatti memorabili che riguardano l’alloro sono connessi anche col divino Augusto. Infatti Livia Drusilla, che poi assunse col matrimonio il nome di Augusta, quando ancora era fidanzata a Cesare Augusto, stando seduta, ricevette in grembo una gallina di notevole bianchezza che un’aquila aveva lasciato cadere dall’alto, illesa; mentre ancora osservava, senza provar paura, un altro prodigio si aggiunse, perché la gallina teneva nel becco un ramo di alloro carico delle sue bacche: gli indovini ordinarono di conservare il volatile e la prole, nonché di piantare quel ramo e di custodirlo religiosamente. La prescrizione fu eseguita nella dimora di campagna dei Cesari sulle rive del Tevere, sulla via Flaminia a nove miglia da Roma, che è chiamato per questo «alle galline», e lì attorno nacque prodigiosamente un boschetto. E’ l’alloro proveniente da lì che Cesare Augusto, da quel momento in poi, tenne in mano mentre celebrava i suoi trionfi e di cui portò sul capo la corona: dopo di lui questa fu consuetudine comune a tutti gli imperatori. E’ così invalso l’uso di piantare i rami di alloro da loro tenuti in mano ed esistono tuttora dei boschi distinti dai nomi dei vari imperatori, motivo per cui forse furono sostituiti gli allori da trionfo.Svetonio, Galba 1: “Con Nerone si estinse la dinastia dei Cesari. Che questo sarebbe successo molti segni l’avevano annunciato, ma due con particolare evidenza. Un giorno, poco tempo dopo le nozze con Augusto, Livia aveva voluto rivedere la sua villa di Veio. Ed ecco che un’aquila, sorvolandola, le lasciò cadere in grembo una gallina bianca che ancora teneva nel becco, così come quando era stata ghermita, un ramoscello d’alloro. Avendo Livia deciso di far allevare il volatile e piantare il rametto, ne venne una così grande discendenza di polli che ancor oggi la villa è chiamata «le Galline», e il laureto diventò così rigoglioso che i Cesari ne spiccavano le fronde per i loro trionfi. Anzi subito dopo i trionfatori vi ponevano di volta in volta un’altra pianta: e si fece caso che all’approssimarsi della loro morte si seccava l’albero corrispondente a colui che l’aveva piantato. Ora, nell’ultimo anno di Nerone l’intero boschetto inaridì fin dalle radici e le galline, quante ve n’erano, morirono tutte. Di lì a poco un fulmine colpì il tempio dei Cesari: a tutte le statue caddero le teste e a quella di Augusto fu strappato lo scettro dalle mani”.

30) Si trattava di un’ovatio, o “trionfo minore”, ne abbiamo parlato nel precedente articolo in riferimento al mirto.  Plutarco, Romolo 16, 4: “Egli quindi indossò il manto e si coronò di alloro il capo chiomato. Avendo preso sull’omero destro il trofeo e tenendolo diritto, marciava intonando un peana di vittoria, seguito dall’esercito in armi, mentre i cittadini lo accoglievano con gioia e ammirazione”.

31) Vedi l’articolo Sacri Boschi su Ad Maiora Vertite, con relative note: https://admaioravertite.org/2019/02/02/sacri-boschi/

32) Ovidio, Metamorfosi I 562: «Poiché non puoi essere mia coniuge – disse – sarai di certo il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra, o alloro, si orneranno di te. Tu incoronerai i generali lieti per la vittoria, quando un coro festante intonerà il canto del trionfo e il Campidoglio vedrà lunghi cortei Tu medesima, come una custode fedelissima, sarai appesa alle porte della reggia di Augusto e guarderai la quercia che sta nel mezzo, e come il mio capo giovanile è pieno di capelli intonsi, anche tu avrai in eterno l’onore delle foglie sempreverdi». Apollo così finì di dire: l’alloro con i suoi rami formatisi da poco dà il suo assenso e sembrò che muovesse la cima come se fosse il capo”. Tra i numerosi esempi Svetonio, Iulius 45: “..fra tutti gli onori decretatigli dal Senato e dal Popolo, nessuno egli accolse o sfruttò più volentieri del diritto di portare sempre una corona d’alloro”. Plutarco, Lucullo 36, 3-4: “Ambedue erano preceduti dai littori coi fasci insigniti d’alloro per le vittorie riportate. Vedendo i littori di Lucullo che le foglie di alloro intrecciate intorno ai fasci di Pompeo si erano seccate a causa del lungo viaggio da lui compiuto attraverso zone prive d’acqua e aride, gentilmente ne dettero ai suoi littori delle loro, che erano fresche e verdi. Il fatto fu interpretato con segno di buon auspicio dagli amici di Pompeo, e in realtà le imprese di Lucullo furono di ornamento al comando militare di Pompeo”. Elio Sparziano, De Vita Hadriani 2, 8: “«Ma chi è colui che da lontano, coronato di rami d’olivo, i sacri arredi porta? Riconosco i capelli ed il canuto mento del re romano, che la città primitiva sulle leggi fonderà, dall’umil Curi, da una povera terra sortito a un grande impero. Cui poi seguirà..» Questa profezia, a parere di altri, gli sarebbe venuta dai Libri Sibillini”. Aulo Gellio, Noctes Acticae V 6, 5: “Le corone «trionfali» sono d’oro e vengono assegnate ai comandanti per l’onore del trionfo; comunemente si parla di «oro coronario». In antico erano di lauro, poi si cominciò a farle d’oro”. Sull’interdizione al trionfo per i non appartenenti alla famiglia imperiale, vedi ad esempio Tacito, Agricola 40: “Pertanto fa decretare dal senato gli ornamenti trionfali, l’onore di una statua incoronata di alloro e ogni cosa che sostituisce il trionfo aggiungendo tutti gli elogi possibili”.

33) Cesare, De Bello Civili III 71: “Per quella battaglia Pompeo fu acclamato imperator. Mantenne il titolo e con questo nome si lasciò in seguito salutare, ma non ne fece uso di solito nella corrispondenza, né fece ornare d’alloro i fasci dai quali era preceduto”. Marziale VII 6: “Le lettere di vittoria testimoniano la pubblica gioia, le aste dei guerrieri hanno le punte rivestite di verde lauro. Evviva! Roma acclama di nuovo i tuoi grandi trionfi”. Elio Lampridio, Severus Alexander 58, 1: “Campagne militari furono condotte con successo da Furio Celso [..] da tutte queste regioni gli furono inviati dei bollettini di vittoria ornati di alloro”. Giulio Capitolino, Maximini Duo 14, 4: “Di lì, attraversando la provincia d’Africa, giunse a Cartagine in pompa regale e accompagnato da guardie del corpo e da fasci ornati di alloro”. 24, 6: “..inviò a Roma una lettera fregiata d’alloro, che suscitò grande esultanza in città, sicché tutti rendevano grazie dinanzi agli altari, nei templi, nei sacelli, e in ogni luogo sacro”. Gordiani Tres 9, 6: “In moltissime fonti trovo attestato che questo Gordiano e suo figlio furono entrambi proclamati imperatori e chiamati Antonini [..] Dopo di ciò si trasferirono a Cartagine con tutto l’apparato regale e i fasci ornati di alloro”. Tacito, Annales XIII 9: “Al fine di comporre il dissidio, Nerone ordinò la seguente comunicazione: per le felici imprese di Quadrato e Corbulone ai fasci imperiali si sarebbe aggiunto un ramo d’alloro”.

34) Plutarco, Confronto fra Aristide e Catone 5: “..nella gloria e negli allori”. Plutarco, Confronto fra Demostene e Cicerone 2: “..le armi devono cedere alla toga, e all’eloquenza deve cedere l’alloro del trionfatore”. Isidoro, Etymologiae X 112: “Glorioso dalla laurea, o corona d’alloro, che si dà ai vincitori”. XVII, VII 2: “Laurus, alloro, deriva dal vero laudare, lodare: con foglie d’alloro, infatti, si incoronavano, tra lodi, i vincitori. Gli antichi chiamavano quest’albero laudea, nome che più tardi, con la caduta della D e l’aggiunta di una R, divenne laurus [..] i Greci chiamano l’alloro dàfni perché sempre verde, ragion per cui lo si usa per incoronare i vincitori.Aulo Gellio, Noctes Acticae XVIII 2, 3: “Metteva in palio per la soluzione d’un quiz il libro d’un autore antico, greco o latino, e una corona intrecciata di lauro”.

35) Plinio XV 127: “L’alloro è consacrato propriamente ai trionfi, ma è ottimamente accolto anche nelle case, piantato com’è davanti alla porta dei Cesari e dei Pontefici. E’ l’unico albero che decora anche le abitazioni e vigila davanti agli ingressi”. Ovidio, Tristia III 1, 39: «Questa è la porta del Palatino», dice, «qui è Giove Statore; in questo luogo anticamente fu fondata Roma» [..] «E questa è la casa di Giove?» chiesi. A credere che lo fosse mi offriva un indizio alla mente la corona di quercia [..] ma perché la porta è oscurata da un lauro che le sta di fronte, e un albero ombroso attornia gli augusti stipiti? Forse perché questa casa meritò continui trionfi o perché fu sempre amata dal dio di Leucade? O perché essa è sempre in festa e rende ogni cosa festosa? Oppure essa è il simbolo della pace che ha donato al mondo? E come il lauro è sempre verde né mai cadono e si colgono le sue fronde, così quella casa conserva eterno il suo decoro? La ragione della corona che sta sopra la porta è spiegata dall’iscrizione: indica che i cittadini sono stati salvati per merito suo».Res Gestae Divi Augusti 34. “Nel mio sesto e settimo consolato, dopo aver sedato l’insorgere delle guerre civili, assunsi per consenso universale il potere supremo, trasferii dalla mia persona al senato e al popolo romano il governo della repubblica. Per questo mio atto, in segno di riconoscenza, mi fu dato il titolo di Augusto per delibera del senato e la porta della mia casa per ordine dello Stato fu ornata con rami d’alloro, e una corona civica fu affissa alla mia porta”.

36) Plinio II 146: “Tra i prodotti del suolo, la folgore evita l’arbusto del lauro”. Isidoro, Etymologiae XVII, VII 2: “Si crede comunemente che sia questo l’unico albero capace di resistere ai fulmini”.  Svetonio, Tiberius 69: “..quando il tempo era un po’ brutto, portava sempre sul capo una corona d’alloro, perché si dice che quella fronda tenga lontano il fulmine”.

37) Plinio XVI 208: “L’esperienza degli esploratori, nella vita militare, e dei pastori ha portato ad escogitare tale procedimento per accendere il fuoco, dato che non sempre capita di avere disponibile la pietra: si sfregano due pezzi di legno, l’attrito causa scintille che devono attaccarsi a materiale combustibile secco [..] il legno più adatto per essere sfregato è quello di edera, mentre quello di alloro è ottimo per sfregare”.

38) Epiteto attestato in Marziano Capella I 24 e nell’Alcesti di Barcellona 1.

39) Tale valenza risulta marginale nell’Apollo romano, e apparirà solo in epoca tarda, poiché nel mondo italico lo si privilegerà come divinità salutare; quella oracolare è invece una funzione propria di Fauno. Tibullo, Elegiae II 5: “Febo, sii propizio: un nuovo sacerdote entra nel tuo tempio: su vieni fra noi con la cetra e con i tuoi carmi. Ora fa risonare con il pollice le corde sonore, ora ti prego piega il mio canto alle tue lodi. Tu stesso, cinto le tempie di trionfale alloro, mentre i doni si accumulano sulle are, vieni al sacrificio in tuo onore [..] Tu prevedi con grande anticipo gli eventi futuri, l’augure a te consacrato sa bene i presagi del canto degli uccelli, tu governi le sorti, per tua opera l’aruspice interpreta i segni che il dio ha impresso sulle rubriche viscere: sotto la tua guida la Sibilla, che non ha mai deluso i Romani, preannuncia in versi esametri i segreti del destino. Lascia, o Febo, che Messalino tocchi le sacre carte della veggente, e tu stesso, ti prego, isegnagli che cosa predire. Costei diede l’oracolo a Enea..”

40) Tibullo, ibidem: “..l’alloro acceso crepiti propizio sulle sacre fiamme, presagio che l’anno sarà sacro e felice. Quando l’alloro dà segni propizi, rallegratevi, o coloni: Cerere renderà i granai colmi di spighe, il contadine spruzzato di mosto pigerà le uve, finchè non vengano a mancare le botti e gli ampi tini..” Claudiano, De Raptu Proserpina II 109: “..l’alloro che preconizza il futuro“.

41) Plinio XV 138: “Questo stesso albero è impiegato nelle purificazioni”.

42) Basterà per ora affermare che la veste trionfale (ne abbiamo accennato alla fine del precedente articolo, in merito alla palma) era conservata nel tempio di Giove Capitolino, e lì riposta alla fine del trionfo insieme alla corona aurea (detta etrusca) retta, sul cocchio, dallo schiavo che rammentava al generale la transitorietà di quella condizione divina. Il volto era inoltre dipinto di cinabro rosso, con cui anticamente si decorava la statua di culto fittile di Giove. Per esigenze di spazio, si rimanda ad una successiva trattazione.

43) Il seguente passo sintetizza quanto detto finora sull’albero. Plinio XV 133: “L’alloro è, in sé stesso, portatore di pace perché, brandito anche tra i nemici armati, è simbolo di tregua. Messaggero soprattutto di gioia e di vittorie per i Romani, esso è congiunto alle lettere, alle lance e ai giavellotti dei soldati e adorna i fasci dei comandanti . Prendendolo dai fasci, lo si depone sulle ginocchia di Giove Ottimo Massimo, ogni volta che una nuova vittoria abbia apportato gioia, e questo non perché è una pianta sempreverde e pacifica –sotto questi due aspetti l’olivo gli è preferibile- ma perché esso cresce particolarmente rigoglioso sul monte Parnaso  e, conseguentemente, lo si ritiene caro ad Apollo, visto che già anche i re di Roma avevano la consuetudine di inviare doni in quel luogo, per chiederne oracoli, come testimonia Lucio Bruto: la sua vicenda può forse fornire una prova ulteriore, poiché lì egli ottenne la libertà per il suo paese baciando, secondo il responso, quella terra fertile di allori; altra prova può essere il fatto che l’alloro è l’unico degli alberi piantati dalle mani dell’uomo e allevati in casa, a non essere colpito dal fulmine. Per queste ragioni, penserei, ad esso è toccato l’onore dei trionfi piuttosto che, come informa Masurio, per il suo impiego nei suffumigi purificatori del sangue dei nemici; così severa è la proibizione sacra di contaminare l’alloro e l’olivo con impieghi profani, che neppure nel caso di sacrifici propiziatori alle divinità è consentito accendere con essi il fuoco su altari pubblici e privati. L’alloro infatti segnala chiaramente la propria avversione al fuoco con un crepitio ed una scorta di protesta, poiché il legno si torce come se riproducesse gli spasimi di intestini e nervi. Si dice che l’imperatore Tiberio, quando tuonava, fosse solito incoronarsene, per vincere la paura dei fulmini”.

44) Vedi Maria Luisa Crosina, Il Sacro Alloro. Mito, arte, virtù terapeutiche: http://www.destradigelagarina.it/UploadDocs/5720_Maria_Luisa_Crosina_p_227.pdf

45) Virgilio, Eneide VIII 314: “Questi boschi erano abitati da Fauni indigeni e Ninfe e da una stirpe di uomini nata dai tronchi di dura quercia”. Quintiliano, Institutiones X 88: “Ennio adoriamolo pure come facciamo con i boschi sacri per la loro antichità, dove le querce grandi e vecchie non possiedono tanto la bellezza, quando la religiosità”.

46) Plinio XVI 1 e 7: “Si dovrebbe trattare, subito dopo, degli alberi produttori di ghiande, i primi a fornire un nutrimento al genere umano, quando era povero e selvatico [..] Gli alberi che da sempre a Roma sono stati tenuti in maggior considerazione sono tutti quelli produttori di ghiande”. Virgilio, Georgiche I 149: “Per prima Cerere insegnò ai mortali a rivoltare la terra con arnesi di ferro, poiché già di ghiande e corbezzoli le sacre selve scarseggiavano e il nutrimento Dodona [la quercia] rifiutava”. Isidoro, Etymologiae 28: “Il faggio e l’esculus, ossia l’ischio, sono due alberi ghiandiferi, così chiamati, a quanto pare, perché i primi uomini vivevano unicamente dei loro frutti, servendosene come cibo e come esca, ossia alimento. Esculus, di fatto, deriva da esca, mentre faggio è nome di origine greca, dal verbo fageìn, che significa mangiare”.

47) Plinio XVI 15: “Inoltre una tra le leggi delle XII Tavole si preoccupava di consentire la raccolta delle ghiande cadute in un terreno altrui”.

48) Plinio XV 3: “Alcune specie di alberi sono oggetto di una continua protezione in quanto dedicate ciascuna a una sua propria divinità, come il farnetto a Giove..” Virgilio, Georgiche II 15: “..il sommo degli alberi che a Giove frondeggiano, l’eschio ma anche, ritenute dai Grai profetiche, le querce”. III 332: “..dove grande di antico tronco la quercia di Giove immensa protenda i suoi rami, o là dove cupo di lecci fitti un bosco riposi nella sua sacra ombra”. Vedi nota 3 nell’articolo sui boschi: https://admaioravertite.org/2019/02/02/sacri-boschi/

49) Isidoro, Etymologiae XVII, VII 38: “Il quercus, o quernus, ossia la quercia, così chiamata perché gli dei pagani erano soliti rendere i responsi quaerentibus, vale a dire a chi li interpellava, mediante essa”.

50) Plinio XVI 7: “Con le foglie di queste piante sono fatte le corone civiche, l’emblema più fulgido del valore militare, e ormai da tempo anche della clemenza imperiale, da quando cioè, per l’empietà delle guerre civili, il non aver ucciso un concittadino cominciò a sembrare un merito. Sono più importanti, queste, delle corone murali e vallari e di quelle d’oro, che pure hanno maggior valore venale; sono superiori anche alle corone rostrate”. Seneca, De Clementia XVI 5: “Nessun ornamento è più degno del rango di un principe, nessun ornamento è più bello di questa corona «per aver salvato i cittadini»: né le armi nemiche sottratte ai vinti, né i carri macchiati del sangue dei barbari, né le spoglie conquistate in guerra. Potenza divina è salvare in massa e tutto un popolo; uccidere molti e senza discriminazione è la potenza degli incendi e dei crolli”. Aulo Gellio, Noctes Acticae V, VI 11: “Si chiama «civica» la corona assegnata da un cittadino a un altro cittadino che lo salvò in battaglia, a testimonianza della vita e della salvezza ricevuta. Si fa con fronde di quercia, perché la quercia soleva essere considerata il più antico mezzo di sostentamento vitale; ma fu anche di leccio, che è la pianta più simile alla suddetta quercia, come sta scritto in una commedia di Cecilio: Arrivano con una corona di leccio e con la clamide, buon dio! Però Masurio Sabino nell’undicesimo dei suoi Libri di memorie dice che la corona civica si conferisce di solito quando colui che aveva salvato un cittadino avesse nello stesso tempo ucciso un nemico senza abbandonare la posizione di combattimento; diversamente, dice, il diritto alla corona civica non era concesso. Dice tuttavia che fu consultato l’imperatore Tiberio per sapere se poteva assumere la corona civica uno che aveva salvato un cittadino in battaglia e ucciso sul posto due nemici ma non aveva tenuto la posizione di combattimento, cosicché i nemici avevano occupato quella posizione; e l’imperatore rispose che anche quello risultava degno della corona civica perché era chiaro che il cittadino era stato portato in salvo da una posizione scomodissima, che non si era potuto mantenere neanche con fior di combattenti. Di questa corona civica Lucio Gellio, personaggio di rango censorio, propose in senato che lo stato gratificasse il console Cicerone, per cui merito fu scoperta e stroncata la tremenda congiura di Catilina”.

51) Orazio, Odi I 1, 24: “Le guerre detestate dalle madri“. Silio Italico, Punica XI 592: “La pace è la migliore delle cose che siano date di conoscere all’uomo e una sola pace è da preferire a mille trionfi“. Ovidio, Ars Amatoria III 502: “Agli uomini la candida pace s’addice: la truce ira alle belve”Lucrezio, De Rerum Natura I 27: “..associati a me, te ne prego, per riempirli d’incanto e dammi un aiuto perché i crudeli conflitti finalmente si plachino, sulla terra e sui mari. Solo tu puoi donare a questa specie mortale un tempo di pace tranquilla. E’ Marte che regge le crudeli battaglie: lui ama spesso tornare al tuo grembo accogliente, a sua volta colpito dalla ferita d’amore. Col capo reclino ti guarda pascendosi con desiderio della bellissima immagine e ti carpisce sul labbro il leggero ansimare. Quando poi si abbandona, ti prego, stringiti a lui, tienilo stretto ed implora, col tuo parlare soave, perché conceda ai Romani una stagione di pace”.

52) Livio I 10, 5: “Poi, ricondotto in patria l’esercito vincitore, Romolo, uomo glorioso nel compiere le imprese ma non meno pronto a ostentarle, salì sul Campidoglio portando le spoglie del capo nemico ucciso appese a un carro costruito per l’occasione, e depostele ai piedi di una quercia sacra per i pastori, insieme al dono segnò i limiti di un tempio di Giove, e aggiunse al nome del dio un epiteto. «Giove Feretrio» disse, «io, re Romolo vincitore, ti porto queste armi regie e ti dedico un tempio in quest’area che ho appena delimitato con la mente, sede di spoglie opime che i posteri, seguendo il mio esempio, ti offriranno dopo aver ucciso i re e i condottieri dei nemici». Questa è l’origine del tempio che per primo venne consacrato a Roma”.

53Lattanzio, Div. Inst. I 20: “Cosa si può dire di coloro che adorano una pietra grezza e non lucidata, che chiamato dio Terminus? Si dice che sia quella pietra che Saturno deglutì, pensando di ingoiare suo figlio Giove”. Agostino, Civ. Dei II 29, 1: “In essa non il fuoco di Vesta, non il Giove di pietra del Campidoglio”.

54) Plutarco, Silla 10, 7: “Cinna salì sul Campidoglio e prestò giuramento tenendo una pietra in mano; poi, chiamati gli Dèi a testimoni e imprecando contro sé stesso che venisse cacciato dalla Città come quella pietra dalla mano se non avesse mantenuto fede al suo giuramento, scagliò a terra la pietra alla presenza di molti”. Polibio III 25: “I giuramenti che dovettero prestare furono i seguenti. Nel primo trattato i Cartaginesi giurarono per i loro Dèi ancestrale e i Romani, seguendo un’antica usanza, per la Pietra di Giove [..] il giuramento per la Pietra di Giove è il seguente. L’uomo che pronuncia il giuramento per il trattato prende in mano una pietra e, dopo aver giurato sulla fides publica, pronunzia queste parole «Mi tocchi ogni bene se osservo il mio giuramento; ma se penso o agisco diversamente, mentre tutti gli altri uomini vivranno sicuri nella loro patria, sotto le proprie leggi, in possesso dei loro beni, dei loro templi e delle loro sepolture, io solo ne sia scacciato così come ora questa pietra». Detto questo scaglia la pietra via da sé”. Festo [LAPIS SILEX]: “Chi si apprestava a giurare in nome di Giove teneva tra le mani una pietra di selce dicendo queste parole «Se inganno deliberatamente allora Giove Padre, preservando la Città e la cittadella, butti fuori me dai confini, come io getto via questa pietra»”.

55Servio, Ad Aen. VIII 641: “..i Feziali introdussero il costume di colpirla [la scrofa] a morte con una pietra per questa ragione, che i popoli antichi ritenevano la pietra di selce una rappresentazione di Giove”. Livio I 24: “Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: «Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all’ultima parola e senza la malafede dell’inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpisci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.» Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano.” Livio IX, 5: “I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il vincitore voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il trattato non poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i Feziali e il resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non fu stipulata con regolare trattato – come abitualmente si crede e come anche scrive Claudio – ma tramite garanzia personale. Infatti che bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto che in quel caso l’accordo stipulato dall’invocazione che Giove colpirebbe quel popolo venuto meno alle condizioni sancite, così come il maiale viene colpito dai Feziali?Livio XXI 45, 8: “E perché sapessero che l’impegno a mantenere quelle promesse era assoluto, tenendo con la sinistra un agnello e con la destra una pietra, pregò Giove e gli altri Dèi che, se avesse mancato alla parola, lo sacrificassero come egli sacrificava l’agnello: eseguita questa invocazione, fracassò con il sasso la testa della bestia”. Festo [FERETRIUS]: “Epiteto di Giove, deriva da ferre [portare] perché si credeva che portasse la pace; era dal suo tempio che si prendeva lo scettro su cui si prestava giuramento, e la pietra su cui il trattato era sancito colpendo”.

56Aulo Gellio, Noctes Acticae I 21: “«Io sarei disposto – disse – a giurare per Giove Lapide, cioè con quello che è ritenuto il più solenne dei giuramenti»”. Apuleio, De Deo Socr. 5: “«la mia destra è per me un dio e il dardo, che sto per lanciare». Allontana Dèi tanto cruenti, la destra stanca di stragi e il dardo arrugginito dal sangue: né l’una, né l’altro meritano d’essere invocati nei giuramenti, non giurare per cose come queste, giacchè tale onore spetta solo al dio supremo. Infatti la parola stessa «giuramento», «ius iurandum», significa «promessa di Giove», «Iovis Iurandum», come dice Ennio. Che pensi dunque? Giurerò per «Giove-Pietra», secondo il più antico rito romano?Cicerone, Ad Fam. VII 12, 2: “Come puoi pensare che sia possibile giurare per la Pietra di Giove, quando ritieni che Giove non possa arrabbiarsi con alcuno?

57) Vedi Andrea Carandini, La Leggenda di Roma II. Dal Ratto delle Sabine al Regno di Romolo e Tito Tazio (in particolare, pag. 208 sgg.) e Antonello Calore, Per Iovem Lapidem: alle Origini del Giuramento.

 

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