Abbiamo appena affrontato l’arcaico sentimento dell’uomo italico. Prima di passare in rassegna i luoghi di verde maestà che generarono questo sentire, sedimentandolo troppo in profondità perché la superstizione galilea (imposta con la menzogna e la paura, non sinceramente cercata né genuinamente accolta) potesse scalzarlo, essendo costitutivo del suo essere, concentreremo ora la nostra analisi alle diverse varietà arboree. Per esigenze di spazio ci atterremo al solo profilo cultuale, senza trattar le numerose teofanie vegetali presenti nel Mito (per quanto illuminanti), sviluppando invece la nostra analisi a partire dai singoli, venerati esemplari.
Ad esempio quel particolare esemplare di fico (Ficus carica) che cresceva al Velabro, quasi lambito dalle acque del biondo fiume. Le sue fronde accolsero una lupa ed un picchio, accorsi ad assistere due lattanti che la corrente, quasi carezzevolmente, vi aveva deposto, salutando così l’evento fondamentale della storia di quei luoghi e del mondo intero (1). Si tratta del Ficus Ruminalis.
Che il fico sia albero strettamente legato alla fertilità emerge, oltre che dal legame con Rumina, anche da quello con Giunone: una varietà selvatica di fico, un caprifico, era al centro delle Caprotinia, festività consacrate a Iuno Caprotina alle none di Luglio. Si svolgevano al Campo Marzio, in un punto chiamato Palus Caprae, ed erano condotte dalle schiave (da cui il nome della festa di Ancillarum Feriae): esse correvano, colpendosi con verghe ottenute dal caprifico, e sacrificavano sotto di esso. Al di là delle spiegazioni eziologiche fornite dagli antichi (che riconducono le origini della festa all’apoteosi di Romolo, oppure all’intervento salvifico delle schiave a tutela dello Stato, in un frangente bellico), le Caprotinia rappresentano una rituale sospensione dell’Ordine, forse in connessione con un antico capodanno estivo, e costituiscono un equivalente femminile dei Lupercalia (dove anziché il ramo di caprifico si impiegava la februa, striscia di pelle della capre sacrificata, conosciuta anche come Amiculum Iunonis).
Vi è un ulteriore elemento, testimoniato dalla natura stessa: il fico infatti produce una secrezione lattiginosa, sia dal frutto staccato dal ramo che dal ramo stesso; tale succo era offerto alle Caprotine (7). Fertilità animale ma anche vegetale: il caprifico, dai frutti non commestibili, vive in perfetta simbiosi con una particolare vespa (Blastophaga psenes); essa deposita le sue uova solo in questi frutti, recandovi però anche il polline; laddove l’insetto penetri all’interno di un frutto femminile, avviene la fecondazione (8). Per questo è attestata una pratica (9), utilizzata a tutt’oggi (la caprificazione), di appendere fronde di questa varietà selvatica ai fichi domestici, al fine di incrementarne la produttività.
Un altro albero di fico, davanti al tempio di Saturno, dovette esser rimosso, dietro sacrificio delle Vestali, poiché minava la statua lignea di Silvano; un terzo fico crebbe nel luogo (10) indicato dalla tradizione come il punto in cui il valente Marco Curzio sacrificò la sua vita.
Nel 362 a.e.v. nel Foro si sarebbe infatti spalancata un’incolmabile voragine, che metteva a repentaglio l’esistenza stessa dello Stato; i responsi divini avevano imposto di colmare la fossa con i massimi valori posseduti dai Romani. Tutti vani i tentativi fatti fino a quel momento: solo il giovane Curzio, interpretando come massimo valore il coraggio posseduto dai suoi soldati (11), consacrandosi ai Mani si gettò al suo interno. E se prima abbiamo parlato di un albero abbattuto a tutela di una statua di culto, a fianco del fico cresciuto spontaneamente presso il Lacus Curtius, vennero associati anche un olivo e una vite, ad espiazione di un altare rimosso precedentemente.
Restando in tema di fertilità, dal Fico Ruminale facciamo un salto di pochi decenni. Il Ratto, perpetrato ai danni dei popoli confinanti, aveva attirato ostilità sui Romani senza, tuttavia, apportare alcun beneficio poiché il ventre delle donne si rifiutava di dare frutto. Senza la possibilità di una discendenza, che speranza aveva dunque la Città?
Una sacra processione si recò al bosco di Giunone Lucina sull’Esquilino, ad impetrare grazia; una voce tra gli alberi, o forse lo stormire delle fronde stesse (come avveniva presso l’Oracolo di Dodona, in Grecia), affermò che le madri italiche avrebbero dovuto farsi penetrare da un sacro capro. A dirimere tale sconcertante responso fu un augure etrusco che, fabbricate delle strisce di pelle da un caprone ritualmente sacrificato e sferzando con esse la schiena delle donne, le vinse dalla sterilità (12). Si riconferma il legame, strettissimo, tra la figura di Giunone e l’elemento caprino in relazione alla fecondità. Tra gli alberi presenti in questo bosco oracolare si stagliava un loto, vecchio (ai tempi di Plinio) ben 500 anni; non si trattava del loto orientale, bensì dell’autoctono bagolaro (Celtis australis). Ancora più vetusti erano il loto presente, unitamente ad un cipresso, al Volcanale e l’Arbor Capillata, il loto dove le nuove Vestali appendevano la chioma recisa (per simboleggiare l’avvenuta morte rituale dell’inizianda). Più antico dell’Urbe era il grande leccio (Quercus ilex) del colle Vaticano, riverito anche da altri popoli, come testimonia un’iscrizione di bronzo in caratteri etruschi lì posizionata; anche i tre alberi millenari presenti a Tibur, più antichi dell’eroe eponimo (13), contemporaneo della Guerra di Troia, erano lecci.
Un’interessante presenza a Roma fu quella del mirto (Myrtus communis). Si tratta infatti di una pianta insolita, poiché tipica della macchia mediterranea, soprattutto nella fascia costiera (14). Le bellezza dei suoi fiori candidi e il soave, penetrante profumo delle foglie fa del mirto il naturale simbolo della bellezza; per questo è legato a divinità femminili. Nel mondo italico è associato a Fauna, interdetto dal culto di Bona Dea (15), e legato alla sfera di Venere. Essa risulta sempre associata al mirto, nelle fonti (16), nonché nelle pratiche di culto: ai Vinalia Rustica del 19 Agosto le prostitute offrivano incenso, fiori e mirto a Venere Ericina (culto importato da Erice, in Sicilia, in origine amministrato da cortigiane sacre) nel suo tempio fuori Porta Collina (17). Nella prima parte dei Veneralia (18) alle Calende di Aprile le donne, dopo un lavaggio rituale della statua di Venere Verticordia, si lavano anch’esse schermandosi con rami di mirto; a questo elemento possono concorrere ragioni di profilassi, per le virtù antinfiammatorie, astringenti ed antisettiche riconosciute (19). Il legame tra il mirto e Venus ha favorito l’assorbimento, da parte di quest’ultima, dei culti di due divinità arcaiche, Murcia e Cloacina, anch’esse legate a questa pianta; a ciò sarà dedicato un articolo su Ad Maiora Vertite.
Ricondurre le prerogative di Venere alla sola unione dei sessi, per quanto fondamentale possa essere, è oltremodo riduttivo se non fuorviante: si tratta di una divinità estremamente complessa, che abbraccia le sfere delle regalità e della vittoria. E l’aderenza del mirto prosegue: di esso era costituita la corona ovalis, conferita nell’ovatio (20). Si trattava di una cerimonia simile al trionfo, tributata a seguito di vittorie senza previa dichiarazione di guerra, contro nemici considerati indegni (ad esempio contro pirati), oppure ottenute con facilità e senza spargimenti di sangue; la cosiddetta “Vittoria di Venere”(21). Due rinomati esemplari erano posti al tempio di Quirino (22), divinità che presiede alla collettività dei cittadini riuniti; il primo albero simboleggiava il ceto patrizio, il secondo quello plebeo. Essi accompagnarono le fortune delle rispettive classi sociali: ad un iniziale e duraturo primato del primo mirto subentrò (a partire dalla Guerra Sociale e al declino del potere senatoriale) il secondo. A questa valenza “politica” se ne aggiunge un’altra, sancita dal legame con Cloacina: il mirto, anche in relazione alle già menzionate virtù antisettiche, era impiegato nelle purificazioni tramite suffumigi (23) o come offerta sacrificale a mò di incenso, sebbene ciò sia attestato solo presso altre tradizioni (24). Forse anche per questo veniva impiegato nei riti funebri nelle tradizioni greche (25), oltre che rappresentare un elemento del paesaggio dell’Oltretomba.
Benchè non si ricordino singoli esemplari di palma oggetto di venerazione, anche questa pianta (legata in Oriente e nel mondo mediterraneo a divinità femminili, come Hathor) godeva di notevole considerazione. Presa a prestito probabilmente dall’usanza greca (26), eventualmente per mediazione etrusca (27), a sua volta derivativa da altre culture, sul finire delle guerre sannitiche essa risulta già ben inserita nel sistema religioso e culturale romano. Al punto da essere costitutiva della pompa trionfale: la tunica palmata, così chiamata perché decorata con foglie di palma, insieme alla toga purpurea costituiva la vestis triumphalis. Lodata e ammirata per la sua altezza, nonché per la perennità delle sue foglie (28), venne per questo associata alle vittorie (29). Sia quelle belliche, specie se cruenti, e dunque al trionfo (30), sia a quelle agonistiche, nei ludi o nel Circo (31), o a quelle legali combattute con i virtuosismi nella retorica nel Foro (32); gli avvocati vittoriosi negli esiti processuali ornavano con fronde di palma gli ingressi delle proprie case. Per maggior completezza di note ed informazioni sul trionfo rimandiamo ad una trattazione a parte.
Adriano Mattia Cefis
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NOTE
1) Livio I 4: “..espongono i bambini nel punto più vicino dello straripamento, là dove ora c’è il fico Ruminale (che, stando alla leggenda, un tempo si chiamava Romulare).” Origo Gentis Romanae 20, 4: “..posero i bambini in una cesta e ai piedi del monte Palatino li gettarono nel Tevere, che aveva formato una palude per via delle forti piogge [..] la cesta in cui essi si trovavano si era arenata presso un albero di fico e una lupa apparsa all’improvviso, richiamata dal vagito dei bambini, prima li ripuliva leccandoli, poi per sgravarsi le mammelle offriva loro da succhiare [..] Alcuni aggiungono che mentre Faustolo osservava la scena anche un picchio si avvicinò in volo ai bambini e fece loro ingerire il cibo che portava nel becco; ecco perché, evidentemente, sia il lupo che il picchio sono sacri a Marte. Quanto all’albero intorno al quale i bambini erano stati abbandonati, venne detto «Ruminale», perché alla sua ombra, a mezzogiorno, il bestiame è solito fermarsi a riposare e ruminare.” Varrone, De l.l. V 54: “Il nome Germalo deriva dai fratelli germani Romolo e Remo, poiché è vicino al Fico Ruminale ed essi furono trovati lì, dove l’acqua invernale del Tevere li aveva portati..” Conone 48, 4: “..dopo un lungo tragitto, si arenò su una riva sporgente presso le radici di un grande fico selvatico che cresceva in quel luogo..” Plutarco, De fort. Rom. 8 (320c): “..pose i neonati in quel luogo, vicino a un fico selvatico, che chiamavano Ruminale..”; Quest. Rom. 57 (278c): “I Latini chiamavano ruma la mammella, e dicono che il fico nel Lupercale è stato chiamato così perché la lupa porse la mammella a Romolo?” Floro I 1: “Così, avendoli trovati presso un albero, Faustolo”.
2) Festo [RUMINALIS]: “Era così chiamato un certo albero di fico, poiché era ai piedi di questo albero che una lupa aveva offerto le sue mammelle a Romolo e Remo. Ora il seno è chiamato rumis, e la gente del paese chiama subrumi i bambini che stanno ancora sotto le mammelle. Secondo altri, questo fico era chiamato ruminale, perché era consuetudine pascolare il bestiame sotto la sua ombra.” Plutarco, Romolo 4, 1: “V’era lì vicino un fico, che chiamavano Ruminale, o da Romolo, come i più ritengono, o perché vi facevano la pennichella a causa della sua ombra le bestie «ruminanti», o — soprattutto — per l’allattamento dei due piccini, poiché gli antichi chiamavano «ruma» la mammella e Rumina chiamano una dea che ritengono abbia cura dell’allevamento dei bambini: a lei sacrificano senza vino e sopra le sue vittime versano libagioni di latte.”
3) Varrone, Res rusticae II 11, 5: “Non negherei – soggiunsi io – che proprio per questo presso il sacello della dea Rumina sia stato piantato dai pastori un fico. Qui infatti sogliono sacrificare latte, invece di vino, e animali lattanti, ché rumis significa mammella, come dicevano una volta, e anche oggi da questo vocabolo gli agnelli sono chiamati subrumi, alla stessa maniera che da «latte» si è fatto «lattanti».” Varrone, citato da Nonio Marcello 167L: “Gli antichi chiamavano la mammella ruma. Varrone nel Catone o Sull’Educazione dei Fanciulli dice: «A questi Semones si fa offerta con il latte, non con il vino, come a Cunina che protegge le culle, o a Rumina che protegge la ruma, cioè la mammella secondo un antico vocabolo»..” Agostino, Civ. IV 11: “..spremerebbe la mammella al bimbo nella ninfa Rumina perché gli antichi hanno chiamato ruma la mammella.” Agostino cita questa divinità a più riprese, anche in relazione ad un corrispettivo maschile, il dio Ruminus. VII 11: “Ruminus per i lattanti maschi, Rumina per le femmine.” Vedi IV 21 e 34, VI 10, VII 11 e 14.
4) Plinio XV 77: “Nel Foro, e precisamente nel Comizio, si venera una pianta di fico nata a Roma, perché in quel luogo avveniva l’interramento rituale dei fulmini e ancor di più in virtù del ricordo di quella pianta che, nutrice di Romolo e Remo, fondatori dell’impero, dette loro per prima riparo nel Lupercale, chiamata Ruminale perché sotto di essa fu trovata la lupa che offriva ai neonati la sua rumis, questo era l’antico nome della mammella: un bronzo, rappresentante questo fatto prodigioso, fu consacrato nei pressi, come se questo fico si fosse spontaneamente trasferito nel Comizio, in forza degli auspici di Atto Navio. Non si secca mai senza che ciò costituisca un presagio, e i sacerdoti si prendono cura di ripiantarlo”. Dionigi di Alicarnasso III 71: “..di fronte alla sede del Senato, vicino al fico sacro.”
5) Ovidio, Fasti II 411: “C’era un albero, ne rimangono i resti: un fico che è chiamato ora Ruminale e che un tempo era il fico di Romolo.”
6) Tacito, Annales XIII 58: “L’anno stesso, nel luogo delle adunanze, si seccarono alcuni rami e si disseccò il tronco dell’albero Ruminale, che ottocento anni prima aveva steso le sue fronde sopra l’infanzia di Romolo e Remo. Il vederlo appassire parve un presagio funesto, fino a che non emise nuovi germogli.” Vedi anche i passi precedenti di Livio e di Plinio.
7) Ausonio, De Fer. 9: “Ricorderò le feste che hanno luogo alle none Caprotine, quando le matrone si tolgono la stola per rivestirne le loro schiave.” Varrone, De l.l. VI 18: “I Poplifugia sembra abbiano tratto il loro nome dal fatto che in questo giorno il popolo d’improvviso fuggì tumultuosamente: tale giorno infatti cade non molto dopo di quello in cui i Galli si ritirarono dalla città e i popoli che erano allora sotto Roma, come i Ficuleati e i Fidenati e gli altri confinanti, si unirono contro di noi. Alcune tracce della fuga ricordata in questo giorno sopravvivono nei riti sacri, su cui parecchie informazioni sono date dai Libri delle Antichità. Le None Caprotine sono così chiamate perché quel giorno nel Lazio le donne sacrificano a Giunone Caprotina e lo fanno sotto un caprifico adoprando un ramo di caprifico”. Macrobio, Saturnalia I 35 sgg: “Sta a sentire un fatto non meno memorabile di cui furono protagoniste delle schiave, e fu più utile allo Stato di qualsiasi altro compiuto dalla nobiltà. Alle none di luglio si celebra la festa delle serve: lo sanno tutti, e non è affatto oscura l’origine e la causa di tale solennità. In quel giorno donne libere e schiave sacrificano sotto un fico selvatico a Giunone Caprotina in memoria della preziosa virtù nata nel cuore delle schiave a difesa della dignità dello stato. Dopo la presa di Roma, alla fine della sommossa dei Galli, la situazione della repubblica era estremamente critica: i popoli vicini, ritenendo giunto il momento di invadere il territorio romano, scelsero come loro capo Livio Postumio, dittatore di Fidene. Costui mandò messi al Senato a chiedere che gli consegnassero le madri di famiglia e le vergini, se volevano salvaguardare i resti della loro città. I senatori esitavano a prendere una decisione: allora una schiava di nome Tutela o Filotide si impegnò ad andare dai nemici con le altre schiave fingendosi donna libera. Vestite quindi da madri di famiglia e da fanciulle, furono condotte ai nemici con un corteo di popolo piangente, a dimostrazione di dolore. Livio le distribuì per l’accampamento ed esse eccitarono gli uomini a bere moltissimo, dichiarando falsamente che quello per loro era giorno di festa. Quando quelli si furono addormentati, diedero ai Romani il segnale convenuto da un fico selvatico vicino all’accampamento. Essi con un improvviso attacco sopraffecero i nemici, ed il Senato in segno di riconoscenza fece liberare tutte le schiave, diede loro una dote a spese dello Stato e concesse loro di portare le vesti che avevano indossato quel giorno. Inoltre denominò ufficialmente quel giorno None Caprotine, dal fico selvatico o caprifico da cui avevano ricevuto il segnale della vittoria, e stabilì che nella ricorrenza annuale si celebrasse un sacrificio in cui a ricordo del fatto si usa del lattice di fico selvatico.” Plutarco, Romolo 29: “..il giorno in cui egli [Romolo] scomparve è chiamato «Poplifugio» e «None Capratine», perché si scende dalla città nella «Palude della Capra» per celebrare un sacrificio [..] Quando si muovono per recarsi al sacrificio essi gridano a gran voce molti dei nomi propri in uso nel posto, come Marco, Lucio, Gaio, imitando il modo di chiamarsi l’un l’altro, come fecero in quel frangente in mezzo alla paura e alla confusione. Alcuni invero dicono che questa non è imitazione di una fuga, ma di fretta e di sollecitudine, riportando la spiegazione del fatto al seguente motivo. Dopoché i Galli, occupata Roma, ne furono cacciati da Camillo e la città a causa delle sue rovinose condizioni non era più in grado di riaversi, mossero contro di essa molti Latini con a capo Livio Postumio. Costui, avendo posto l’accampamento non lontano da Roma, mandò un ambasciatore a dire che i Latini, avendo ormai rotto l’antica amicizia e parentela, volevano rinnovarle ristabilendo vincoli di sangue con nuovi legami matrimoniali. Se avessero mandato loro un buon numero di vergini e di vedove, si sarebbe stretta la pace e l’amicizia fra loro, come era precedentemente avvenuto, in modo analogo, coi Sabini. Udite tali proposte, i Romani da una parte temevano la guerra, dall’altra ritenevano che la consegna delle loro donne non costituisse altro che una loro riduzione in schiavitù. Mentre erano in tale perplessità, una serva di nome Filotide (ma dicono alcuni che si chiamasse Tutola) consigliò di non fare nessuna delle due cose, ma di evitare a un tempo, per mezzo di un inganno, la guerra e la consegna degli ostaggi. L’inganno consisteva in questo: di mandare la stessa Filotide, e con lei altre serve adeguatamente acconciate come donne libere, presso i nemici. Poi di notte Filotide doveva accendere una fiaccola come segnale e i Romani dovevano piombare con le armi e fare strage dei nemici in preda al sonno. Questo piano fu messo in atto, essendosi i capi romani lasciati persuadere. Filotide levò la fiaccola dall’alto di un fico selvatico, coprendola dal di dietro in modo che la luce non potè essere vista dal nemico, ma fu ben visibile ai Romani. Appena questi scorsero il segnale, subito in fretta mossero all’attacco e a causa della loro fretta si chiamavano spesso l’un l’altro presso le porte della città. Piombati all’improvviso sul nemico e sopraffattolo, a ricordo di questo evento celebrano la festa della vittoria. La festa viene chiamata None Capratine dal fico selvatico, che i Romani chiamano caprifico. Essi invitano le donne fuori della città, all’ombra di rami di fico. Allora le serve si raccolgono sciamando intorno e giocano, poi si colpiscono con bastoni e si lanciano pietre fra di loro, come anche quella volta avevano fatto assistendo i Romani e prendendo parte alla battaglia insieme con loro. Queste spiegazioni non sono accolte da molti storici, ma anche l’uso di chiamarsi per nome in quella giornata e di recarsi nella «Palude della Capra» come per un sacrificio sembra adattarsi meglio alla prima spiegazione, a meno che, per Zeus, ambedue quei fatti non si verificassero per caso nella stessa giornata in differenti periodi.” Plutarco, Camillo 33: “Non avevano ancora i Romani terminato i lavori di ricostruzione, quando scoppiò un’altra guerra contro di loro: Equi, Volsci e Latini invasero contemporaneamente il loro territorio e gli Etruschi stringevano d’assedio Sutri, città alleata dei Romani [..] Dicono che i Latini sia per avere un pretesto di guerra sia volendo realmente effettuare un rinnovamento dell’antico legame fra i due popoli, mandarono a chiedere ai Romani delle fanciulle di libera condizione, da sposare. Mentre i Romani non sapevano cosa contenersi (temevano infatti una guerra, dato che non si erano ancora ristabiliti e ripresi, e d’altra parte sospettavano che quella richiesta di donne fosse una richiesta di ostaggi, chiamata per convenienza richiesta di matrimoni), una servetta di nome Tutula, ma secondo quando dicono altri, di nome Filotide, esortò le autorità a mandare dai Latini, insieme con lei, alcune schiave tra quelle che più erano in età da marito e di apparente condizione libera, dopo averle agghindate come spose di buona famiglia: al resto avrebbe pensato lei. Essendosi lasciati persuadere i magistrati a scegliere quante servette ella giudicò adatte all’impresa, dopo averle adornate di vesti e d’oro le consegnarono ai Latini, che si erano accampati non molto lontano dalla città. La notte, mentre le altre ragazze sottraevano le spade ai nemici, Tutula o Filotide che sia, salita sopra un grande fico selvatico e stendendosi dietro le spalle un mantello, sollevò una torcia in direzione di Roma, come era stato da lei convenuto coi magistrati senza che nessun altro dei cittadini lo sapesse. Perciò anche l’uscita dei soldati avvenne in modo tumultuoso, ché richiamati dai comandanti e chiamandosi fra loro per nome, a stento riuscirono a mettersi in ordine. Giunti però alla palizzata dei nemici, che non li aspettavano epperò dormivano, presero l’accampamento e uccisero la maggior parte di quelli. Questo avvenne alle None del mese ora chiamato di luglio, allora detto Quintilio, e la festa che oggi si celebra in questa data è una commemorazione di quel fatto. Per prima cosa infatti uscendo dalla porta della città chiamano ad alta voce molti dei prenomi in uso nel posto e comuni, come Gaio, Marco, Lucio e simili, imitando il reciproco chiamarsi per nome che allora nella fretta si verificò; poi le servette, splendidamente agghindate, si aggirano scherzando e motteggiano quelli che incontrano. Avviene anche una specie di battaglia fra di loro, ricordando la battaglia di allora contro i Latini, e mangiano sedute sotto rami di fico: questo giorno chiamano «None Capratine» dal nome del fico selvatico, come si crede, dal quale la fanciulla alzò la fiaccola; il fico selvatico infatti chiamano caprifico. Altri però affermano che la maggior parte di queste cose sono fatte e dette in relazione alla fine di Romolo. In questo giorno infatti egli scomparve fuori porta mentre improvvisamente tenebre e tempesta l’avvolsero e, come credono taluni, durante un’eclissi di sole. Ritengono poi che quel giorno fu chiamato «None Capratine» dal luogo in cui il fatto avvenne, ché quello che noi chiamiamo áiga i Latini chiamano «capra», e Romolo scomparve mentre parlava al popolo presso la palude detta della Capra, com’è scritto nella sua vita”.
8) Vedi, tra gli altri, Guido Grandi, Gli Insetti dei Caprifichi:
Fai clic per accedere a c%20Gli%20insetti%20dei%20caprifichi%201923.pdf
9) Columella, De re rust. 11 2, 56 : “E’ tempo ormai di sospendere rami di caprifico alle piante di fichi, e ciò va fatto, secondo alcuni, perché i frutto non cada giù o giunga più presto a maturazione”. Plinio XV, 19: “I fichi del caprifico non giungono mai a maturazione, ma danno ad altri quel che non riescono ad avere essi stessi [..] il caprifico produce certi moscerini; questi, privati dell’alimento della pianta madre in putrefazione, se ne volano sulle piante affini e con i loro numerosissimi morsi fanno un’apertura sui frutti, e penetrandovi dentro in tal modo vi portano per la prima volta il Sole [..] e i venti fecondanti”.
10) Plinio XV 78: “Ce n’era uno anche davanti al tempio di Saturno, che fu rimosso nell’anno 600 di Roma [154 a.e.v], dopo un sacrificio condotto dalle Vestali, perché stava attaccando alla base la statua di Silvano. Un albero del genere, spuntato casualmente, vive nel mezzo del Foro, nel luogo in cui Curzio aveva riempito l’affossamento che, dando funesto presagio, si era prodotto alle fondamenta dell’impero, con i beni sommi, cioè col valore, la pietà e una morte gloriosa. Nello stesso luogo si trovano, sempre casualmente, una vite ed un olivo piantato, per l’ombra che offre, dalla sollecitudine popolare quando fu da lì rimosso un altare, in occasione dei giochi gladiatori indetti dal divo Giulio, gli ultimi tenuti nel Foro”.
11) Livio VII 6: “Nel corso di quello stesso anno, fosse per un terremoto o per un’altra forza della Natura, si dice che nel centro del foro il suolo franò fino a profondità incommensurabili, lasciandovi un’ampia voragine. Nonostante tutti vi gettassero della terra, non si riuscì a riempirla, fino a quando, su preciso monito degli Dèi, la gente cominciò a domandarsi quale fosse l’elemento principale della forza del popolo romano. Questo era quanto gli indovini sostenevano si dovesse consacrare a quel luogo, se si voleva che la repubblica romana durasse in eterno. Allora, stando a quanto si narra, Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, rimproverò i concittadini per essersi domandati se esistesse qualcosa di più romano del valore militare. Poi, calato il silenzio, con gli occhi rivolti al Campidoglio e ai templi degli Dèi immortali che sovrastano il foro, tendendo le mani ora verso il cielo ora verso la voragine spalancata e verso gli Dèi Mani, si offrì in voto ad essi. Quindi, montò in groppa a un cavallo bardato nella maniera più splendida possibile e si gettò armato nella voragine: e una folla di uomini e donne gli lanciò dietro frutti e offerte votive. Fu lui a dare al lago il nome di Curzio..”
12) Ovidio, Fasti II 428: “Ci fu infatti un tempo in cui le spose, per un avverso destino, ricevevano scarsi frutti dal loro ventre. Romolo si lamentava [..] Ai piedi del monte Esquilino c’era un bosco, da molti anni inviolato perché consacrato alla grande Giunone. Qui si recarono insieme le spose e i loro mariti e si prostrarono in ginocchio per supplicare. All’improvviso le cime degli alberi furono scosse e oscillarono, e nel suo bosco la dea pronunciò queste strane parole: «Madri italiche, vi penetri il sacro montone». L’ambiguo responso lasciò la folla in silenzio, in preda allo spavento. C’era un augure, il cui nome con il passare degli anni è stato dimenticato. Era arrivato da poco, esule dalla terra Etrusca. Sacrificò un montone e ordinò alle fanciulle di farsi percuotere la schiena con le strisce di pelle che da esso erano state ricavate. La luna con la sua falce era arrivata al suo decimo ciclo quando gli uomini divennero padri, e le spose madri. Grazie, Lucina: hai avuto il tuo nome dal bosco, oppure perché tu, Dea, sei fonte di luce. Proteggi, ti prego, clemente Lucina, le giovani gravide, fa sì che possano partorire senza travagli il frutto del loro ventre.”
13) Festo [CAPILLATA]: “Albero a cui si appendevano i capelli dopo averli tagliati”. Plinio XVI 235: “Invece a Roma si sa di un loto nello spiazzo del tempio di Lucina, che fu costruito nell’anno privo di magistrati, nel 379 dalla Fondazione. Non si sa di quanto l’albero sia più antico del tempio, ma che sia più antico non c’è dubbio, perché è da quel bosco che Lucina ebbe il nome [da lucus; Varrone lo connette invece a lux]: perciò questa pianta ha circa 500 anni. Più antico, ma la sua età non è conosciuta con precisione, è il loto che viene detto crinito perché vi vengono portati i capelli delle vergini Vestali. Ma c’è un altro loto nel Vulcanale ritenuto, secondo la testimonianza di Masurio, coevo della città: le sue radici si spingono sottoterra fino al Foro di Cesare, attraversando gli uffici dei municipi [le stationes municipales, ndt]. Insieme ad esso c’era un cipresso della stessa età, che intorno agli ultimi anni del principato di Nerone cadde a terra e rimase lì abbandonato. Sul Vaticano c’è poi un leccio più antico della città: reca un’iscrizione su bronzo in caratteri etruschi, segno che quell’albero era già allora oggetto di venerazione religiosa. Anche i Tiburtini hanno un’origine molto anteriore a quella di Roma: nel loro territorio esistono tre lecci ancora più antichi di Tiburno, fondatore della città, che secondo la tradizione fu consacrato vicino ad essi; si narra che fosse figlio di Anfiarao, il quale morì davanti a Tebe una generazione prima della guerra di Troia. C’è chi afferma anche che il platano di Delfi fu piantato personalmente da Agamennone, come pure un altro nel bosco sacro di Cafia in Arcadia..”.
14) Isidoro, Etym. XVII 7, 50: “Il mirto ha preso nome dal mare, in quanto albero comune sulle coste”. Virgilio, Georgica II 112: “..le coste fiorenti di mirti”; IV 124: “L’amante delle spiagge, il mirto.”
15) Macrobio, Saturnalia I 12, 21 e 24: “Questa nei libri dei pontefici è indicata con i nomi di Bona e Fauna [..] Bona perché produce tutto ciò che è buono per il vitto, Fauna poiché favorisce tutto ciò che è utile agli esseri viventi [..] La dicono pure figlia di Fauno e narrano che resistette alle voglie del padre innamorato di lei, che giunse perfino a sferzarla con una verga di mirto; sopra la sua testa si ramifica una vite, con cui specialmente il padre tentò di sedurla..” Lattanzio, Div. Inst. I 22: “..la sposa di Fauno; poiché contro la decenza che si addice ad una regina aveva segretamente svuotato una brocca piena di vino e si era ubriacata, fu picchiata a morte da suo marito con un ramo di mirto..”. Arnobio, Adv. Nat. V 18: “Sesto Clodius nel sesto libro, in greco, del suo Sugli Dèi, ci dice che fu picchiata a morte con rami di mirto [..] la prova della veridicità della storia consiste nel fatto che, quando le donne celebrano la sua festa [..] sia proibito portare fronde di mirto”. Plutarco, Questioni Romane 20: “Le donne, quando adornano in casa un sacro recinto per la dea delle donne, che chiamano Buona dea, non vi portano ghirlande di mirto, sebbene abbiano l’ambizione di usare piante e fiori d’ogni specie. Perché? Forse perché, come asseriscono i mitologi, questa dea era moglie dell’indovino Fauno, ed era segretamente dedita al vino, ma scoperta fu punita dal marito con bastoni di mirto; perciò non portano mirto, e libano a lei vino chiamandolo latte. O perché compiono il rito sacro restando pure da molte cose e in particolare dai rapporti sessuali. Infatti non solo fanno uscire i mariti, ma portano fuori di casa tutto ciò che c’è di maschio quando compiono i riti in uso per la dea. Quindi aborriscono il mirto in quanto sacro ad Afrodite; e infatti quella che ora chiamano Afrodite Murcia anticamente, a quanto sembra, era denominata Mirtia.”
16) Virgilio, Eneide V 72: “[Enea] vela le proprie tempie col materno mirto”; Georgica I 28: “..cingendoti [Cesare] le tempie col mirto materno”. Ovidio, Ars Amatoria III 53: “Vi dirò che cosa vi ha rovinato: non siete state capace di amare; vi è mancata la tecnica: è con la tecnica che l’amore si perpetua. Anche ora le donne continuassero a ignorarla! Ma Citerea mi ha ordinato di insegnarla e lei in persona si è fermata davanti ai miei occhi [..] Così parlò e da un ramoscello di mirto – infatti si era fermata coi capelli intrecciata di mirto – mi diede una foglia e poche bacche; dopo averli presi, sentii ancora la potenza divina..” Questo legame risulta indipendente da mediazioni greche; Eleana Chirassi, Elementi di culture prece reali nei miti e riti greci, pag. 34: “L’importanza del rapporto mirto-essere femminile-divinità [..] rende necessaria una digressione che esula dalla tradizione religiosa puramente greca per esaminare anche quella romana ove la sacralità del mirto appare singolarmente evidente, forse come eredità di lontane culture mediterranee sul suolo italico con le quali vennero a contatto le stirpi latine, più che frutto di un sincretismo religioso con il mondo greco”.
17) Ovidio, Fasti IV 869: “Alla vostra signora offrite il mirto e il sisimbro che lei predilige, e corone di giunchi ricoperte di rose. Ora è il momento di visitare il tempio che sorge presso Porta Collina”. Il tempio fu votato dal console Lucio Porcio Licino e consacrato nel 181 a.e.v.
18) Ovidio, Fasti IV 133: “Venerate ritualmente la dea, madri e spose del Lazio, ed anche voi, che non indossate né la benda né la veste lunga. Toglietele dal collo di marmo le catene d’oro, mettere da parte i gioielli: la dea va completamente lavata. Una volta asciugata, rimettetele al collo le catene d’oro. Ora bisogna portare altri fiori, ora bisogna offrirle rose fresche. Lei vuole che anche voi vi laviate, coperte da un ramo verde di mirto: questa disposizione ha un motivo preciso, state a sentire qual è. Lei se ne stava sulla spiaggia, nuda per asciugare i capelli bagnati. I satiri, razza sfrontata, guardavano la dea. Lei se ne accorse e si difese coprendosi il corpo con il mirto. Si mise così al sicuro, e per questo ora vuole che voi facciate lo stesso.”
19) Isidoro, XVII 7, 50: “Nei libri di medicina si legge che il mirto è assai adatto a soddisfare numerose necessità femminili.”
20) Plinio XV 125: “Il mirto ha avuto un ruolo anche negli affari bellici e Publio Postumio Tuberto, celebrando durante il suo consolato un trionfo sui Sabini, egli che fu il primo a entrare in Roma con l’ovazione, per aver condotto la campagna militare con mitezza e senza spargimento di sangue, avanzò coronato col mirto di Venere Vittoriosa e rese quest’albero desiderabile anche ai nemici. Questa fu poi la corona delle ovazioni, eccetto che per Marco Crasso, il quale marciò coronato d’alloro, celebrando l’ovazione sugli schiavi fuggitivi e Spartaco. Masurio attesta che anche i comandanti che sul carro celebravano il trionfo usavano portare una corona di mirto. Lucio Pisone riferisce che Papirio Masone, il primo che sul monte Albano celebrò un trionfo sui Corsi, era solito assistere agli spettacoli del circo coronato di mirto [..] Marco Valerio usava due corone, una d’alloro e una di mirto, poiché proprio questo aveva promesso in voto”. Aulo Gellio, Noctes Atticae V 6: “La corona «da ovazione» è di mirto; se ne adornavano i comandanti che entravano in Roma con l’ovazione. L’ovazione in luogo del trionfo si ha quando la guerra non è indetta ritualmente e non si combatte contro un nemico regolare, oppure quando il nemico è di basso titolo e di requisiti insufficienti, come nel caso di schiavi e pirati, oppure quando, per una resa subitanea, la vittoria riesce senza polvere, come suol dirsi, e incruenta. A questa agevolezza si è ritenuto che fosse adeguata la fronda della pianta di Venere; si tratterebbe, in certo modo, del trionfo di Venere anziché di Marte. E Marco Crasso, reduce con l’ovazione dalla guerra contro gli schiavi fuggiaschi, ebbe l’insolenza di ripudiare la corona di mirto e fece decretare, esercitando il suo ascendente, un senatoconsulto che gli assegnava la corona di lauro anziché quella di mirto”. Festo [OVALIS CORONA]: “Corona di mirto portata da coloro che entrano in Città con gli onori dell’ovazione, per guerre non dichiarate oppure ottenute senza spargimenti di sangue”. Plutarco, Marcello 22: “..acconsentì ad entrare in Città col trionfo minore, chiamato «eua» dai Greci e «ova» dai Romani. Nel condurlo, il generale non monta su un carro a quattro cavalli, né indossa una corona di alloro, né ha le trombe che suonano su di lui; ma cammina a piedi, accompagnato dal suono di molti flauti in sovrannumero e indossando una corona di mirto, così che il suo aspetto sia pacifico e amichevole anziché terrificante [..] Nei tempi più antichi i due trionfi si distinguevano non per grandezza, ma per le modalità e le diverse conquiste che celebravano. Per coloro che conseguirono la maestria combattendo e uccidendo i loro nemici celebrarono, come sembrerebbe, quel trionfo marziale e terribile, dopo aver rivestito con abbondanza le loro braccia e i loro uomini con alloro, proprio com’erano soliti fare quando purificavano i loro eserciti con riti lustrali; mentre a quei generali che non avevano necessitato di guerra, ma avevano condotto tutto a buon fine per mezzo di contrattazioni e patteggiamenti, la legge conferiva il privilegio di condurre, come un peana di ringraziamento, questa processione inaudita e festosa. Poiché il flauto è uno strumento di pace, e il mirto è una pianta di Afrodite, che più di tutti gli altri Dèi aborrisce la violenza e le guerre. E questo piccolo trionfo si chiama «ova»”.
22) Plinio XV 120-121: “Tra i templi più antichi, infatti, si annovera quello di Quirino, che è Romolo stesso. Là, davanti al tempio vero e proprio, stettero per lungo tempo due mirti sacri, l’uno chiamato patrizio, l’altro plebeo. Quello patrizio fu per lunghi anni il più florido, esuberante e rigoglioso; per tutto il tempo che anche il senato ebbe vigore, il mirto patrizio si mantenne maestoso, mentre quello plebeo era abbrostito e senza fronde; dopo che quest’ultimo acquistò floridezza e quello patrizio prese ad ingiallire, a partire dalla guerra marsica, l’autorità dei senatori si affievolì e a poco a poco la maestà decadde in una marcescente sterilità. Vi era inoltre un antico altare consacrato a Venere Mirtea, ora detta Murcia. Catone ha menzionato tre tipi di mirto, il nero, il bianco e il coniugulo, forse cosiddetto dalle unioni e da quello di Venere Cluacina.”
23) Plinio XV 119: “[Il mirto] esisteva già, nel territorio su cui ora sorge Roma, al tempo della sua fondazione: per questo la tradizione dice che i Romani e i Sabini, dopo aver voluto sostenere una battaglia per il rapimento delle vergini, deposte le armi, si purificarono con rami di mirto, nel luogo in cui ora sorgono le statue di Venere Cluacina. Infatti presso gli antichi cluere significava «purificare». Anche quest’albero è impiegato per un tipo di suffumigio, ed a suo tempo fu scelto perché Venere sovrintende alle unioni ed a lei esso è sacro. Non so se fu anche il primo di tutti gli alberi piantati a Roma in luoghi pubblici, auspicio certo fatidico e degno di ricordo.
24) Ad esempio, Epopea di Gilgamesh, Tavola XI 156-161: “Posi l’offerta sulla cima di un monte. Sette e sette vasi vi collocai: in essi versai canna, cedro e mirto. Gli dèi odorarono il profumo. Gli dèi odorarono il buon profumo. Gli dèi si raccolsero come mosche attorno all’offerente”.
25) Plinio XXXV 160: “Chè anzi molti hanno preferito farsi seppellire in sarcofagi di cotto, come Marco Varrone, all’uso pitagorico, in foglie di mirto, di olivo e di pioppo nero”. Virgilio, Eneide V 72: “Così detto, vela le proprie tempie col materno mirto [..] Egli dall’assemblea con molti, migliaia, si recava al tumulo..” Plutarco, Aristide 21, 1-2: “Approvate queste proposte, i Plateesi accettarono di celebrare ogni anno riti funebri per quelli che erano caduti ed erano sepolti nel loro territorio. E ciò fanno ancora oggi nel modo seguente [..] allo spuntar del giorno fanno uscire una processione in testa alla quale è un trombettiere che fa squillare il segnale di battaglia; seguono carri pieni di mirto”.
26) Livio X 47, 3: “Lo stesso anno, per la prima volta, gli uomini che avevano ricevuto delle decorazioni militari nelle campagne poterono assistere ai giochi romani con la corona sul capo, e ugualmente per la prima volta venne concessa ai vincitori la palma del trionfo, secondo un’usanza introdotta dalla Grecia”.
27) Floro, Epitome I 5, 6: “Da questi popoli [Etruschi] vennero a Roma il trionfo, celebrato su di un cocchio tirato da quattro cavalli, le toghe ricamate, le tuniche palmate, insomma tutte le decorazioni e le insegne per cui splende la dignità del comando”.
28) Plutarco, Questioni Conviviali VIII 2: “..la palma è la più longeva tra le piante, come testimoniano questi versi dei canti orfici: «Vivendo quanto i virgulti / della palma dalle alte chiome»; si può dire che solo a lei spetti ciò che erroneamente si dice di molte altre. Che cosa? Che mantiene costantemente le sue foglie ed è sempreverde; né l’alloro, infatti, né l’olivo o il mirto, nessun’altra pianta, insomma, tra quelle definite sempreverdi, come possiamo osservare, conserva costantemente le medesime foglie, ma, generandone continuamente di nuove in sostituzione di quelle che cadono, come le città, ciascuna si mantiene in vita, rinnovandosi continuamente. La palma, invece, poiché non perde alcuna parte del suo fogliame, è davvero sempreverde ed è senza dubbio per questa sua saldezza che si presta in particolar modo a rappresentare la grandezza della vittoria”.
29) Apuleio, Metamorfosi II 4: “..si ergeva una colonna sormontata da una statua della Vittoria palmata, la quale ad ali spiegate, senza mover passo, sfiorava col piede rugiadoso la mobile superficie d’una palla, e il suo stare era così lieve da sembrare lì lì per spiccare il volo” X 31: “La ragazza, agitando il capo ed atteggiando gli occhi a minaccia, con un complicato sistema di gesti, faceva intendere a Paride che, se gli avesse dato la palma della bellezza”. XI 4: “I suoi piedi divini calzavano sandali fatti di foglie intrecciate di palma, la pianta della vittoria”.
30) Apuleio, Apologiae XXII: “..ai trionfatori le quadrighe bianche e la toga palmata”. Isidoro, Etymologiae XVIII, II 4: “Chiunque riportasse una vittoria in un conflitto era incoronato con una palma d’oro perché la palma è dotato di pungoli; chi, invece, prostrava il nemico in fuga senza combattere era incoronato con foglie d’alloro perché quest’albero non presenta spine”. Marziale, De Spectaculis 27: “Cesare mandò ad entrambi il bastone del congedo e la palma della vittoria: questo fu il premio riportato dal coraggio e dalla bravura”. Epigrammi VII 2: “..grandi trionfi e restituisci presto l’imperatore alla toga ricamata di palme”. Livio X 7, 9: “Chi tra gli uomini e gli Dèi può considerare indegno il fatto che le insegne di auguri e pontefici vengano attribuite a quei gentiluomini che voi avete insignito delle sedie curuli, della toga pretesta, della tunica palmata, della toga ricamata, della corona trionfale e dell’alloro, le cui case avete adornato con le spoglie nemiche appese alle pareti? L’uomo che ha attraversato la Città sul cocchio dorato ed è salito fin sul Campidoglio con indosso la veste onorata di Giove Ottimo Massimo non potrà forse farsi vedere con la coppa e il lituo, quando ucciderà le vittime col capo coperto dal velo e prenderà gli auspici dall’alto della Cittadella?”
31) Vedi nota 26 e la lamentazione per la morte del valente auriga Scorpio. Marziale, Epigrammi X, 50: “Rompa la Vittoria nel suo dolore le palme idumee, batti, o Favore, il nudo petto con mano crudele; l’Onore muti il suo abito e tu, o Gloria, afflitta getta alle inique fiamme, come offerta, la tua chioma ornata di corona. Oh, delitto! Tu muori, o Scorpo, strappato alla vita nel fiore della giovinezza, e aggioghi così presto i neri cavalli. Quella meta verso cui sempre ti affrettavi col tuo cocchio e rapidamente raggiungevi perché ti è stata posta tanto vicina nella vita?”
32) Giovenale, Saturae VII 115: “..ti levi per parlare in difesa, davanti a un bovaro di giudice, d’un discusso affrancamento. Fa’ pure, infelice, che il tuo fegato scoppi: spossato, potrai sì appendere in segno di gloria verdi foglie di palma alle tue scale, ma il salario per la tua voce?” Marziale VII 28: “..i fori ti ammirino, il Palazzo imperiale ti lodi, e molte palme ornino le tue porte a due battenti”.
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