Avendo visto che avete particolarmente gradito il calendario romano dello scorso anno, ve lo riproponiamo aggiornato a quest’anno, ampliato e cartaceo!
Il calendario romano è uno strumento fondamentale per tutti gli appassionati della Roma antica, e per i tradizionalisti romani. Nel nostro calendario troverete un’ampia descrizione di ogni mese, con i loro aspetti religiosi, e la funzione che avevano nel ciclo delle festività romane.
Il mese di Settembre sembra totalizzato dalla presenza dei Ludi Romani, o Ludi Magni. Questi Ludi duravano ben quindici giorni nel calendario solare, tuttavia il calendario precesariano indica soltanto tre “M” (dall’8 al 10), il che fa supporre che questa festa sia stata lentamente estesa nel tempo. Settembre ha un’altra particolarità che condivide con Novembre, non sono presenti feste in carattere capitali, indice del fatto che non vi sono feste appartenenti al ciclo arcaico. Questo ha fatto supporre -erroneamente- ad alcuni che fossero questi i mesi non conteggiati dal calendario di Romolo. Ma trattasi di un chiaro errore, perché significherebbe il cambio completo di nomi di tutti i mesi, oltre al fatto che le fonti sono esplicite del dire che i mesi aggiunti da Numa erano Gennaio e Febbraio.
Sestile è un mese con caratteristiche eccezionali.
Nella prima metà del mese non sembra accadere nulla di particolare, se non la commemorazione dei templi a Victoria e Spes (posti in questa data forse come conseguenza della Concordia festeggiata nel mese precedente), Salus e Sol Indiges introdotto in età imperiale (tanto che nei fasti si alterna da F a C fino a diventare NP regolarmente solo dopo il 16 d.c.).
Gli elementi più interessanti di questo mese sono le Idi ed il ciclo arcaico posto nella seconda metà. Continua la lettura di Sextilis, il mese del rivolgimento→
Con Quintile (Luglio) iniziano i mesi numerali, che ci accompagneranno fino a fine anno.
È il primo mese della seconda metà dell’anno, purtroppo i Fasti di Ovidio si interrompono con Giugno, a causa dell’esilio impostogli da Augusto. Perciò manchiamo di un’importante fonte di informazioni per i mesi successivi. La comprensione delle caratteristiche del mese deve passare quindi necessariamente dall’analisi delle sue feste.
<Un tempo Roma, dal nome di mio padre fu detta Saturnia,
e per lui questa terra fu più vicina al cielo.
Se il talamo è in pregio, mi spetta il titolo di consorte del Tonante,
e il mio tempio è congiunto a quello di Giove Tarpeio.
Ma come! Una concubina poté dare il suo nome al mese di maggio,
e invece tale onore sarà negato a me?
Perché dunque mi si dice regina, e la prima delle dee?
Perché lo scettro d’oro fu assegnato alla mia mano destra?
Ma come! I giorni formeranno il mese, e da essi sarò detta Lucina, e non prenderò nome da nessun mese?
In tal caso mi pentirei di aver deposto lealmente l’ira
contro la stirpe di Elettra e la casa Dardania. […]
Ma no, non mi pento , né v’è alcun popolo a me più caro:
qui io sia venerata e occupi il tempio insieme con il mio Giove.
Marte stesso mi disse “ti affido queste mura;
tu sarai potente nella città di tuo nipote”.
La parola fu mantenuta: mi onorano cento altari;
e maggiore di ogni altro onore è per me quello del mese.>
(Ovidio, Fasti, VI,31-56)
Giugno è l’ultimo dei mesi che compare nei Fasti di Ovidio (la cui produzione venne interrotta a causa della cacciata dell’autore per opera di Ottaviano), ed è l’ultimo ad essere “nominale”, infatti tutti i successivi saranno numerali. In merito alla questione del nome dei mesi ne abbiamo parlato in quest altro articolo. Continua la lettura di Iunius, il mese di Giunone e delle giovani→
Di tutti gli aspetti pratici di qualunque religione quello più importante di tutti è senza alcun dubbio il calendario. Dalle lontane steppe asiatiche, ai torridi deserti africani, ai gelidi boschi del nord, fino alle pianure e alle giungle delle Americhe, tutti i popoli del mondo hanno sempre cercato di qualificare in senso religioso il tempo. Questa misurazione temporale ha sempre avuto bisogno di una definizione qualitativa oltre che quantitativa e si è sempre manifestata sotto un profilo religioso e sacro. Continua la lettura di L’incostanza del Tempo presso i Romani→
<Dopo il Caos furono dati al mondo i tre elementi,
e tutta la materia assunse nuove forme,
la terra si fece concava per il suo peso e attrasse il mare,
che la levità sospinse il cielo nell’altezza degli spazi;
anche il Sole e gli astri non trattenuti da alcuna pesantezza,
e voi, cavalli della Luna, balzaste in alto.
Ma la Terra non cedeva a lungo al Cielo, né le altre stelle
al febèo Sole: l’onore era uguale per tutti.
Spesso qualche divinità tratta dalla massa degli Dèi ordinari
osò sedere sul soglio che tu, Saturno, occupavi:
qualche dio straniero si affiancò all’Oceano,
e spesso Teti fu accolta nell’ultima sede,
finché l’Onore e la bella Riverenza dal placido aspetto
unirono i loro corpi in legittimo connubio.
Da essi nacque la Maestà che regge il mondo intero,
e fu sempre grande fin dal giorno che fu generata.
Subito alta si assise nel mezzo dell’Olimpo,
splendente d’oro e ammirevole nella purpurea veste;
le sedettero accanto il Pudore e il Timore. E avresti veduto
ogni altro nume atteggiare il volto a somiglianza del suo.
Subito penetrò nelle menti il rispetto degli onori:
si pregiano i degni di stima, ognuno cessa di compiacersi
soltanto di sé. Per molti anni durò tale stato del cielo,
finché il dio più antico per fato cadde dalla sua roccia.
La Terra partorì i Giganti, immani mostri,
che avrebbero osato assalire la casa di Giove. […]
ma Giove, scagliando fulmini dalla roccia del cielo,
rovesciò quell’immensa congerie su chi l’aveva ammassata.
Ben difesa da queste armi, la Maestà degli Dèi
saldamente resiste, e da quel tempo permane venerata.
Da allora siede accanto a Giove, di Giove fedelissima custode,
e a Giove assicura lo scettro da reggere senza contrasto.
Discese anche in terra: la onorarono Romolo e Numa;
poi di seguito gli altri, ognuno nel suo tempo.
Ella guarda ai padri e alle madri con dovuto onore,
ella viene compagna ai fanciulli e alle vergini,
ella conferisce decoro ai fasci portati dai littori e all’eburnea
sedia curule, ella alta trionfa sui cavalli incoronati.>
(Ovidio, Fasti VI, 11ss)
<Circa il nome di questo mese [Maggio ndr] le opinioni degli autori sono largamente contrastanti. Fulvio Nobiliore, nei Fasti che depositò presso il tempio di Ercole e delle Muse, dice che Romolo, dopo che ebbe diviso il popolo in anziani [maiores] e giovani [iuniores], in modo che i primi contribuissero con le decisioni alla salvezza dello stato ed i secondi con le armi, per onorare le due metà chiamò Maius questo mese e Iunius il seguente.
«Alma Venere, madre di entrambi gli Amori»
La dea rivolse il suo sguardo verso il poeta, e disse:
«Cos’hai a che fare con me? Certo volevi cantare più gravi argomenti. Forse nel tenero petto conservi l’antica ferita?»
Risposi:
«Tu sai, oh dea, la mia ferita»
Sorrise, e subito il cielo intorno a lei si fece sereno:
«Sano o ferito ho forse mai lasciato le tue bandiere? Tu sei sempre stata il mio modello e il tema del mio canto. Senza colpa, come si conviene, scherzai nei miei giovani anni; ora i miei cavalli corrono un più vasto campo. Canto le ricorrenze e le cause, tratte dagli antichi annali, e il sorgere delle stelle, e il loro tramontare sotto la terra. Sono giunto al quarto mese, nel quale sommamente ti si onora: e tu, oh Venere, sai che il poeta e il mese sono tuoi.»
Commossa, toccò lievemente le mie tempi con il mirto di Citerea, e disse:
«Completa l’opera intrapresa»
Ebbi l’ispirazione, e d’un tratto mi si chiarirono le cause delle festività: mentre è concesso, e spirano i venti, corra la nave.>
Ovidio, Fasti IV, 1-18
Aprile, il cui nome deriva dal verbo aperire (aprire, schiudere, in riferimento allo sbocciare dei fiori), era il mese sacro a Venere, dea latina legata all’attrazione e ai venenia, cioè ai veleni ma anche alle pozioni ed al vino. Nel secoli queste sue caratteristiche originarie andarono perdute obliterate dall’identificazione con la greca Afrodite. Continua la lettura di Aprilis, il mese che apre→
Il calendario pregiuliano, chiamato anche calendario repubblicano o “di Numa”[1], è il calendario luni-solare usato nella città di Roma fino alla riforma compiuta da Giulio Cesare nel 46 aev. che introdusse un calendario puramente solare [Plut. Caes. LIX]. Come termine “ante quem” per la sua adozione, è possibile fissare il 400 aev. per quell’anno, secondo Cicerone, gli Annales Maximi dei pontefici riportarono un’eclissi di sole avvenuta alle Nonae di Junius [Cic. Rep. I, 25], che sappiamo essere avvenuta il 21 giugno di quell’anno. Poiché un’eclissi di sole può avvenire solo quando la luna si trova tra il sole e la Terra e questo può accadere solo poco prima della luna nuova, l’eclissi avrebbe dovuto essere registrata alle Kalendae del mese, tuttavia, il fatto che essa sia caduta alle Nonae, è dimostrazione dell’esistenza, già a quell’epoca di uno scostamento tra ciclo lunare e mese calendariale, il che implica l’utilizzo di un calendario luni-solare non più empirico (vedi oltre), ovvero quello noto come pregiuliano.
Benchè le fonti facciano risalire la sua struttura fino all’età regia, è difficile stabilire in che misura questa affermazione sia veritiera e gli autori moderni hanno formulato in proposito numerose ipotesi[2]: possiamo ritenere che la formazione del calendario “di Numa” sia collocabile tra l’età regia (probabilmente ad opera della monarchia etrusca) e l’età decemvirale, gli autori antichi, infatti, riportano che il collegio decemvirale fu responsabile di una riforma del calendario romano, di cui però non conosciamo l’entità, che fu poi inscritto su una tavola di bronzo che accompagnava le XII Tavole della legislazione decemvirale. È quindi lecito ritenere che il feriale originario da cui si sviluppò il calendario repubblicano, risalga almeno alla metà del V sec. aev. È tuttavia verosimile che esso esistesse già in una forma sostanzialmente analoga a quella uscita dalla riforma dei decemviri4,[3].
Doveva trattarsi di un feriale di 12 mesi lunari per un totale di 355 giorni, cui era aggiunto saltuariamente un mese intercalare per mantenere l’allineamento tra ciclo lunare e ciclo solare. In ogni mese erano riportate solo le festività principali e più antiche, quelle che, nei calendari epigrafici che ci sono noti, sono indicate in lettere maiuscole[4], oltre alle date fisse di ogni mese (Kalendae, Nonae, Idus).
I mesi duravano alternativamente 29 o 31 giorni, eccetto Februarius, che ne durava solo 28; per il mese intercalaris vi sono varie ipotesi, sappiamo però che, in età medio-repubblicana doveva durare 22 giorni.
Secondo gli autori romani, prima di questo feriale, la storia del calendario romano era già molto complessa.
Il primo di cui si abbia notizia fu in uso una sorta di calendario empirico di 10 mesi puramente lunari, della durata di 304 giorni, chiamato “calendario romuleo”, poiché la tradizione ne attribuiva la creazione a Romolo, nel quale 6 mesi erano di 30 giorni e 4, di 31 giorni e l’inizio dell’anno era fissato ai Palilia, la festa di Pales, giorno in cui, secondo la tradizione, fu fondata Roma, oppure poco prima dell’inizio della primavera [Liv. I, 19, 6 – 7; Ov. Fast. I, 27 – 45; III, 120 – 127; 152 – 154; Plut. Num. XVIII – XIX; Q. R. 19; Gel. III, 16, 16; Solin. I, 36; Var. Fr. apud Cens. XX, 2 – 4; M. Fulv. Nobil. Fr. apud Cens. XX, 2 – 4; Gran. Licin. Fr. Apud Cens. XX, 2 – 4; Serv. Georg. I, 43; Macr. Sat. I, 12, 3; 13, 1 – 3]. Nonostante le ricostruzioni degli autori classici, è verosimile che la scansione dei mesi e la loro durata non fosse fissa, ma definita empiricamente, attraverso l’osservazione delle fasi lunari.
Il ciclo romuleo doveva seguire il ritmo dei lavori agricoli, iniziando in primavera per concludersi in tardo autunno; durante i mesi invernali che separavano un ciclo dal successivo, veniva aggiunto un certo numero di giorni sufficiente a coprire il periodo che mancava al ritorno della primavera successiva. Le date delle festività venivano comunicate all’inizio di ogni mese (vedi Non. Jan.) e potevano variare di anno in anno.
Gli autori moderni ritengono che tale ricostruzione sia stata influenzata dall’evoluzione successiva del calendario romano e che in realtà quello più arcaico, usato dalle comunità protourbane che popolavano l’area su cui sorgerà Roma (e che probabilmente era diverso da villaggio a villaggio) avesse una struttura differente: si ipotizza che la suddivisione del tempo non avvenisse secondo i cicli lunari, ma usando come riferimento altri fenomeni astronomici o metereologici4, in modo simile al calendario agricolo riportato da Varrone nel De Re Rustica [Var. R. R. I, 27 – 36], nel quale l’anno era diviso in 8 parti e alle menologie rustiche (calendari agrari usati nelle zone rurali) [CIL VI, 2305 = CIL VI, 32503 = CIL I, p 280 = Inscr. It. XIII, 2, 47 = ILS 8745 = AE 2012, 179] divise in quattro parti secondo le stagioni. È stato anche ipotizzato che il calendario “romuleo” seguisse il ciclo della coltivazione del farro o la durata della gravidanza umana, entrambi di circa 10 mesi[5],4.
La tradizione antiquaria vuole che, il secondo re, Numa Pompilio, alla fine dell’VIII sec. aev. abbia introdotto due mesi supplementari portando la durata del feriale a 355 giorni e creando la struttura alla base del feriale pregiuliano. A quest’epoca viene attribuita la creazione dei mesi lunari scanditi secondo la successione Kalendae, Nonae, Eidus, che ritroveremo nelle fasi successive. L’inizio di ogni mese veniva determinato empiricamente attraverso l’osservazione del cielo notturno, all’apparire della prima falce di luna, secondo un rituale tramandatoci da Varrone e Macrobio, tale giorno era chiamato Kalendae. Le Nonae cadevano al primo quarto di luna e le Eidus indicavano la data della luna piena. Benchè le fonti non ne facciano diretta menzione, è possibile che vi fosse anche una data che segnava l’ultimo quarto di luna, simmetrica alle Nonae, circa nove giorni dopo le Eidus, la quale sarebbe andata poi persa. Le caratteristiche di questo feriale, specialmente il coinvolgimento del rex sacrorum nell’indictio delle festività e i sacrifici compiuti nella regia (vedi oltre), è coerente con un’elaborazione in età monarchica, tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile definire con precisione il periodo; il fatto che le Eidus fossero una ricorrenza presente anche nei calendari etruschi (vedi Eidus), ha fatto ipotizzare che il calendario monarchico fosse stato elaborato, nella forma a noi nota durante la monarchia etrusca.
In un’epoca non definibile, probabilmente in età decemvirale, il calendario empirico fu sostituito da uno fisso, in cui la durata dei mesi era stata stabilita e fissata una volta per tutte e non era più soggetta a variazioni in base all’osservazione delle fasi lunari, nacque così il feriale pregiuliano per come lo possiamo ricostruire dalle fonti epigrafiche e letterarie. Poiché esso aveva solo 355 giorni, per mantenere l’allineamento tra ciclo claendariale e ciclo solare, era necessario introdurre, una volta ogni due anni, un mese supplementare, detto Interkalaris.
Durante il primo periodo repubblicano la regolazione del calendario e l’indictio delle festività spettava esclusivamente ai pontefici, i quali anche erano gli unici depositari del formulario necessario a condurre azioni legali attraverso il sistema per leges actiones e i preposti a stabilire quali giorni dovevano essere fasti (vedi oltre) e quali nefasti. Queste conoscenze esclusive rendeva indispensabile il loro intervento ogniqualvolta un cittadino intendesse adire le vie legali. È anche possibile ipotizzare che l’attribuzione della qualità di fastus o nefastus ai giorni dell’anno (eccetto le feriae che erano sempre nefas) non fosse statica e definita una volta per tutte, ma avvenisse di volta in volta in base a una decisione del collegio ponteficale[6].
Nel 304 aev un liberto di Appius Claudius Caecus6, Cn. Flavius, scriba ponteficale, pubblicò per la prima volta il corpus delle leges actiones, mettendo fine all’esclusività della competenza ponteficale in materia di diritto e dando origine al diritto laico. Assieme alle leges actions, Cn. Flavius pubblicò anche un calendario chiamato Fasti [Fest. 87]. Considerando che il feriale doveva già essere stato pubblicato in età decemvirale, è ragionevole pensare che la vera innovazione introdotta in quest’anno non sia stata tanto la pubblicazione del feriale, ma di un vero calendario in cui era indicato il carattere dei giorni, ora stabilizzato e definito, così da dare origine ad una sequenza di dies fasti e dies nefasti ripetuta in modo identico anno dopo anno e non più sottoposta alla decisione dei pontefici. Da questo momento in avanti non sappiamo quanto fosse la reale autorità dei pontefici in materia di calendario: la tradizione antiquaria vuole che ad essi sia rimasta la responsabilità della regolazione del calendario attraverso le intercalazioni, ma anche tale affermazione è piuttosto dubbia.
È probabile che il calendario pubblicato nel 304 aev, fosse il feriale uscito dall’intervento decemvirale, comprendente le festività più antiche. Nel tempo furono inserite le nuove festività che via via venivano istituite. Nel III sec. aev. La sua struttura fu radicalmente alterata nel 287 aev. dall’istituzione dei dies comitiales che portò alla distinzione tra questi ultimi e i dies fasti, il cui numero fu drasticamente ridotto.
Da un certo momento furono inserite anche le date della dedica dei templi, tuttavia non sappiamo quando questa innovazione sia stata introdotta. Secondo l’opinione di J. Rüpke[7], sarebbe avvenuto in occasione della costruzione del tempio di Hercules e le Muse da parte di M. Fulvius Nobilior, nel 186 aev. Sulle pareti di questo tempio, o su quelle del suo podium, fu dipinto un grandioso calendario commentato dallo stesso Fuvius (sappiamo che egli compose un commentario ai Fasti). Benchè non sappiamo come fosse, si ritiene che avesse assunto la struttura dei documenti epigrafici giunti fino a noi.
Un ultimo intervento, prima della riforma giuliana, avvenne nel 191 aev. con la Lex Acilia de intercalando: non sappiamo quale fosse il testo della legge, tuttavia è verosimile che essa sia intervenuta per ridurre il forte scostamento tra ciclo calendariale e anno solare, che si era accumulato tra la fine del III sec. aev. e l’inizio del II.
In base ai dati disponibili oggi, possiamo dire che il calendario repubblicano, per come lo conosciamo, era in vigore nel I sec. aev. come testimoniato dai Fasti Antiates Majores [Inscr. It. XIII, 2, 1 = ILLRP 9 = AE 1922, 87 = AE 1960, 209], l’unico calendario epigrafico noto, precedente la riforma di Giulio Cesare.
Maurizio Gallina
NOTE:
[1] A. K. Michels – The “Calendar of Numa” and the Pre-Julian Calendar. In Transactions and Proceedings of the American Philological Association, Vol. 80, 1949, pgg 320 – 46
[2] Per un’esposizione della questione e delle principali ipotesi vedi A. K. Michels – The “Calendar of Numa” and the Pre-Julian Calendar. A. K. Michels – The Calendar of Republican Rome, Princeton 1967, § 7 pg 119 segg. J. Rüpke – The Roman Calendar from Numa to Constantine. Time, History and the Fasti, Blackwell 2011, § 3 pgg 23 segg
[3] M. Humm – Appius Claudius Caecus. La République accomplie, Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, Roma 2005, §9 pgg 441 – 80
[4] L’ipotesi fu formulata da Th. Mommsen nella sua edizione del CIL I, 297 segg de feriis è oggi largamente accettata
[5] A. Carandini – La Nascita di Roma – Dei, Lari, Eroi e Uomini all’alba di una civiltà, tomo II, 7 pgg 395 segg in particolare § 309 – 10; Addenda VII pgg 559 segg e bibliografia ivi
[6] A. K. Michels – The Calendar of Republican Rome pgg 110 – 11
[7] J. Rüpke – The Roman Calendar from Numa to Constantine § 7, pgg 95 segg.
Per
comprendere, appieno, le espressioni cultuali di un popolo è necessario
conoscere l’ambiente in cui si è formato e ha vissuto. Sono queste
caratteristiche climatiche e geomorfologiche, infatti, a plasmare i suoi
bisogni (anche religiosi), e a condizionarlo anche quando sarà in grado di
conferire al territorio un determinato assetto.
Il popolo latino, racchiuso in quella lingua di terra tra l’Appennino e il Tirreno, si trovò a dover gestire una terra con ecosistemi assai diversi tra loro, che ben si prestava alla pratica della transumanza. L’economia pastorale è infatti incentrata sulle migrazioni stagionali, volti alla ricerca di determinate condizioni climatiche e ambientali, dai monti a valle (e viceversa), necessarie a provvedere alle esigenze nutritive e di sviluppo delle bestie. D’altronde, l’area dei Sette Colli in origine non favoriva in modo ottimale l’agricoltura, e nemmeno le aree immediatamente limitrofe, in quanto soggette alle frequenti esondazioni del Tevere.
L’allevamento quindi (soprattutto di ovini), in misura forse maggiore dell’agricoltura, costituì per gli abitanti di Roma un elemento fondamentale. Si comprenderà meglio perché, in quest’economia di sussistenza, la Fondazione stessa dell’Urbe coincise con l’arcaico capodanno pastorale (1): si tratta delle Palilia, o Parilia, consacrate alla magnanima Pales. Per descrivere i caratteri di questa dea dovremo parlare necessariamente delle sue feste (riferendoci su tutti ad Ovidio, che ci offre la trattazione più ampia, 2). Le celebrazioni, sia pubbliche che private (3), si dividevano sostanzialmente in due parti: la prima era costituita da una serie di purificazioni, la seconda constava nelle vere e proprie offerte a Pale. Le pratiche lustrali si svolgevano bruciando una mistura del tutto particolare, distribuita dalle Vestali: si trattava delle ceneri dei feti di vitelli sacrificati nelle precedenti Fordicidia, rito in onore di Tellus (4); del sangue dell’OctoberEquus, ossia del cavallo di destra della biga vincitrice della festa di Marte, nello scorso Ottobre (5); infine, dei vuoti steli di fava. A parte questi ultimi, usati probabilmente come eccipienti (dal momento che la mistura doveva servire a chiunque ne facesse richiesta), la valenza delle altre due componenti rispetto alle Parilie non è chiara; verranno trattati negli articoli su Tellus e Marte. Coloro che erano impossibilitati a raggiungere la Città e ad accedere alle distribuzioni di questi suffumigi si affidavano comunque all’acqua e al fuoco, usando zolfo, erba sabina (Juniperus sabina) e legni di alberi fausti, quali pino, olivo e alloro. E’ assai probabile che quest’ultimo servisse, come in altri momenti di passaggio nel corso dell’anno, per ottenere responsi sulla base del crepitio prodotto dalle foglie poste nel focolare (6). Dopo essere state abbondantemente spazzate con acqua e scopa, con questi fumi si ammorbavano le stalle (adornate con festoni e ghirlande per l’occasione) e le greggi al loro interno. Dopodichè, si procedeva alle offerte a Pales: miglio e focacce di miglio, latte e presumibilmente prodotti caseari; tutte offerte rigorosamente incruente. Solo allora era dato rivolgersi alla dea, rivolti ad Oriente, con una preghiera da recitarsi quattro volta. La preghiera è in parte una piacolare, atta a chiedere l’assoluzione da eventuali colpe commesse dai pastori, o dalle loro bestie, a danno di ignoti numi silvestri: l’aver inavvertitamente intorbidito una sorgente, ad esempio, l’aver consentito agli animali di brucare da una tomba, oppure l’aver usato come foraggio delle frasche appartenente a boschi oppure ad alberi sacri.
Nonostante
i versi di Ovidio siano molto tardi, essi sono in grado di restituirci
magistralmente l’arcaico sentimento latino che vede in ogni aspetto della
Natura una controparte energetica da onorare sempre; quel timor reverentialis di cui abbiamo già trattato su Ad Maiora
Vertite, e che mai ci stancheremo di testimoniare. La preghiera proseguiva
chiedendo a Pales protezione per pastori, armenti e cani, “guardiani vigili e sagaci” e abbondanza. L’abbondanza di pascoli e
d’acque, l’abbondante produzione di latte, di lana e dei prodotti caseari e
l’abbondante e fruttifera fertilità delle bestie. Finito di recitare quest’invocazione
l’officiante, purificandosi con acqua lustrale, beveva la burranica (7), una
rustica pietanza composta da latte e mosto non fermentato. Infine, iniziava la
parte più gioiosa della feste (8),
consistente nell’accensione di falò alimentati con fieno e paglia, che venivano
attraversati con un salto al suono dei cimbali e dei flauti; anche le bestie
venivano condotte nel varco posto tra due fuochi. La festa proseguiva così all’aria
aperta, tra banchetti e abbondanti bevute di vino (9).
E’ significativo che le pratiche purificatorie appena citate si
ritrovino, identiche, presso una sterminata vastità di culture ed epoche
differenti. Agiscono “meccanicamente”, senza alcun intervento divino,
grazie alle loro intrinseche caratteristiche disinfettanti,
anticrittogamiche e fungicide. Lo zolfo in particolare, utilizzato
largamente a tutt’oggi, trova ampi rimandi nella letteratura (10). Fumigazioni nelle stalle di questo tipo son comunque ben attestati nel mondo latino (11).
Tornando alle Parilia, se il senso generale risulta perfettamente
chiaro, più complicato è stabilire l’esatta “funzionalità” di Pale. Il
nome stesso della festa è soggetto ad alcune incertezze: Palilia o
Parilia?
Entrambe le forme sono attestate. Se la prima rimanda immediatamente a Pales (12), la seconda si presenta illuminante perché si collega a pario: parere, “partorire”. E se nella preghiera di Ovidio viene chiamata ad agire nei più disparati ambiti, altri autori sembrano assegnare l’intervento della dea pro partum pecoris (13); sono questi animali infatti a detenere la maggior fortuna, presso i Romani, anteposti ad ogni altro allevamento (14). Ulteriore conferma ci viene dal fatto che proprio a partire da questo periodo avveniva la monta delle pecore (15), così che esse partorissero a Settembre, con pascoli abbondanti e temperatura mite ma non torrida. Quella delle capre e dei bovini avveniva in seguito, rispettivamente in Autunno (16) e in Luglio (o tra Gennaio e Febbraio 17), mentre la riproduzione dei maiali cominciava ai primi di Febbraio (18) e quella dei cavalli dopo l’Equinozio di Primavera (19). L’arcaicità della festa è fuori discussione: risale alla Fondazione dell’Urbe (20), istituita da Romolo stesso, o addirittura precedente. Ciò è dimostrato anche dalla natura delle offerte impiegate nel culto di Pale (21): il latte costituì la sostanza più impiegata nelle libagioni sacre del mondo arcaico, a differenza del vino.
Ciò a causa della sua scarsità, benchè vi siano notizia di un suo uso sacrale remoto la viticoltura era infatti poco praticata. La natura incruenta delle offerte, più che ad eventuali influssi pitagorici legati alla dottrina della metempsicosi, sembra rimandare ad una penuria delle materie prime. Il latte e le offerte casearie rispondono ai principi simpatici, similia similibus, così come l’uso del miglio: rustica, a rapido ciclo vegetativo e resistente alla siccità, si trattava della pianta foraggera più rinomata, indicata soprattutto per i cuccioli (22). Questa offerta si ripete il 7 Luglio, come risulta dal calendario più antico rinvenuto (precedente all’introduzione del Calendario Giuliano), ossia i FastiAntiates (23). Qui Pale risulta iscritta al plurale: questo ha portato alcuni autori moderni a ritenere che esistano due Pales (24), la prima addetta al bestiame “minuto”, la seconda al bestiame grosso. Tuttavia a Luglio avevano comunque luogo una seconda e tardiva monta delle pecore (25), mentre le mucche non si riproducevano solo in questo mese, ma anche nei primi mesi dell’anno; inoltre esiste già una figura divina preposta alla tutela dei bovini, ossia Bubona (26). Le motivazioni addotte dai moderni risultano dunque poco convincenti a giustificare l’esistenza di un doppione di Pales.
Altre controversie sono state sollevate in merito al sesso d’appartenenza di Pales: tre fonti del IV/V secolo, perciò molto tarde,
affermano che gli Etruschi consideravano Pale maschile (27). Può essere che si tratti di una interpretatio,
ossia l’accostamento di Pale ad una divinità diversa a partire da
qualche similitudine, fors’anche solo lessicale; la natura assai
differente di questa seconda figura del pantheon etrusco, in quanto
posta in relazione a Tinia/Giove, mina la credibilità di
quest’accostamento, mentre l’unanimità di tutti gli altri autori ci
conferma che Pale è femminile.
Non si può tuttavia escludere l’esistenza di un paredro (vi torneremo in seguito). Può destare meraviglia il fatto che ad una dea tanto importante non fossero assegnati culti più “solenni”. Non si tratta però di un caso isolato: Silvano, divinità tra le più popolari in assoluto, a quanto risulta non ebbe mai sacerdozi a lui dedicati, segno che al netto della cerimoniosità le pratiche di cui era destinatario bastavano a garantirsene l’appoggio; così può essere anche per Pale. A meno di non ricondurre questa dea a Palatua, la dea del Palatino. A questa divinità era assegnato uno dei dodici flamini minori, il FlamenPalatualis (28). Durante il Settimonzio, la festa dei Sette Colli che aveva luogo l’11 Dicembre, il flamine officiava un sacrificio chiamato Palatuar (forse destinato a Palatua) sul Palatino (29). Le relazioni tra Pale e Palatua sembrano diverse, a partire dal luogo di culto: questo colle, dove ebbe origine il primo nucleo urbano, sembra prendere il nome proprio dai greggi di cui era costellato (30). Questo scenario sembra difficile da immaginarsi oggi, con la magnificenza delle ville imperiali, ancorchè immerse nel verde; ne serbano ricordo i versi struggenti di alcuni autori (31), in grado di riportarci alle origini. L’unica divinità a potersi associare a Palatua, divinità principale dei Sette Colli (perché sembra l’unica a cui fosse dedicato un flamine), anche per la sua indiretta connessione ai greggi, resta per esclusione Pale.
Ignoriamo del tutto la posizione del tempio di Pale, offerto in voto nel
267 a.e.v. dal console Attilio Regolo nel mezzo della guerra contro i
Salentini e i Picenti loro alleati (32). E’ difficile
capire le ragioni del console, e possiamo solo abbozzare delle ipotesi:
quale connessione ha Pale con la guerra? Forse nel corso del conflitto
si resero necessarie delle pratiche lustrali; eppure abbiamo visto come
queste pratiche avessero luogo anche senza mediazioni divine; inoltre
quella lustrale non è una prerogativa assoluta di Pales. Più
verosimile è l’ipotesi suggerita dall’economia salentina: si trattava di
uno dei centri maggiori dell’industria della lana di tutto il mondo
antico. Nelle graduatorie delle lane migliori, svettavano su tutte
quelle proveniente dalle oves Tarentinae, o da quelle di Canosa (33).
Nel corso del conflitto salentino non è assurdo ipotizzare che i Romani
abbiano sentito la necessità di dedicare un tempio alla divinità che
rivestiva una così grande importanza in quei luoghi, evocandola
direttamente (o meglio, evocando una divinità salentina dalle
caratteristiche simili 34), oppure in riparazione dei danni arrecati a quelle terre (35).
Spostandoci dall’economia all’etimologia, una terza ipotesi (36) accosta Pales a Fales, dea dei Falisci eponima e tutelare della città di Falerii (ma collegabile anche ad altre, come Falacrinae). Linguisticamente, Fale si allaccia a fala (37), ossia una struttura lignea di difesa, per cui non è da escludere che Fale/Pale avesse in tutela le più antiche palizzate, precedente all’edificazione delle Mura Romulee, erette sul Palatino a protezione di greggi e uomini dal regno di Fauno. Del resto, una lettura alternativa (38) di Septimontium propone, anziche septem montes (sette colli), saepti montes (colli recintati). Si instaurerebbe così una doppia relazione della dea: con Pater Falacer da una parte, divinità maschile di cui non sappiamo nient’altro, se non ch’era anch’esso titolare di un flamine (39); dall’altra, tra la dea e strutture di fortificazione, o addirittura dei proiettili scagliati da essi (40), e quindi con la guerra. Questo sfumerebbe quanto detto finora. Del resto, con il nome di Pale (forse preceduto dall’epiteto di Panda; Panda Pales41) sussistono connessioni e assonanze anche con parole pertinenti all’ambito strettamente rurale; Pales da palea, ad esempio (paglia, 42).
Tra le ipotesi suggerite, noi propendiamo dunque per la seconda: come
dea della pastorizia continuò ad essere cantata dai poeti, ad apparire
sui calendari (43) o nei trattati di zootecnia (44)
e dai pastori, che certo ne sapevano di più di tutti quei leziosismi
appena esposti. Ma a tentoni, nei limiti delle nostre possibilità (che
non sono pochi), cerchiamo di arrivare quanto più possibile
all’originalità delle cose. Quello di Pale, a differenza di altri culti
rustici, andò incontro a dei mutamenti già precocemente. Il Tevere era
la direttrice obbligata nord-sud (tra le città etrusche e quelle
campane) ed ovest-est (la via del sale, tra la foce e le comunità
osco-umbre dell’interno).
Proprio la presenza del fiume, che in tempi più remoti aveva ostacolato lo sviluppo coltivo (e incrementato quello pastorale) e del guado naturale a ridosso dei Colli determinò l’impiantazione stabile e un’alacre economia urbana. In seguito, l’avvento di nuove tecniche zootecniche ridimensionarono la necessità di propiziarsi Pales. Ecco dunque che nelle Palilia, almeno in Città, il carattere autentico della festa passò in secondo piano, e il 21 Aprile venne associato più che altro al Dies Natalis dell’Urbe. Una “festa nazionale”. Questo valeva tuttavia per le grandi metropoli e non per le comunità rurali e i piccoli centri, anche immediatamente confinanti con le città, soprattutto quelle a ridosso della Sabina e del Sannio. Zone che per la conformazione prettamente montana ed impervia del territorio continuarono (e tuttora continuano) a vivere dei proventi della pastorizia. E sembra infatti che il culto di Pales fosse praticato anche dai Sabini (45) e dai Sanniti (46), sotto il nome di Pernaì. Più in generale, l’assoluta preminenza dei ritmi pastorali nel mondo italico lo si evince dal nome stesso di Italia (47): il greco Ouitoulìa, “terra dei vitelli”, a partire dall’osco-umbro uitlu (latino vituli).
E così dal nome
degli astri, dei monti, di città e luoghi geografici, così come di individui e
delle gentes: Porcio Catone, così
come Ovinio, Caprilio, Tauro, Vitulo (48).
Il fatto che il denaro si designasse col termine pecunia (da pecus,
bestiame), eco di un tempo in cui la ricchezza era costituita non da freddo e
inerte metallo ma da materia vitale. L’importanza della lana, protagonista
delle cerimonie nuziali (49) e
viatico irrinunciabile del sacro: per le virtù medicamentose e lustrali
conferite a questa sostanza (50), i
sacerdoti romani non se ne discostavano mai. Nemmeno fuori dai riti o tra le
mura domestiche, addirittura v’erano speciali interdizioni che proibivano l’uso
di più ricercati ed esotici materiali come il cotone, il lino o la seta (51). Questo serviva a preservare i
sacerdoti da ogni contatto impuro o nefasto e di valorizzarne la dignità delle
figure; tale l’importanza della lana. Tale l’importanza di Pales.
Adriano Mattia Cefis
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NOTE
1) Cicerone,
De Divinatione II 47: “Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico,
perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno
natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle
quali si dice che essa fu fondata da Romolo”. Plinio XVIII 247: “Questa
costellazione [quella delle Iadi] è
in genere chiamata Astro Parilicio, perché l’undicesimo giorno prima delle
Calende di Maggio [21 Aprile], giorno
natale della città di Roma, che in genere riporta il bel tempo..” Svetonio, Caligula 16: “Si deliberò
inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile,
un segno di una rifondazione di Roma”. Ovidio
(vedi infra): “Si sceglie il giorno adatto per tracciare con l’aratro il Solco delle
mura: mancava poco alla festa di Pale e fu quello il giorno scelto per dare
inizio all’impresa”. Velleio
Patercolo, Historiae I 8, 4–5:
“Nella sesta Olimpiade, ventidue anni
dopo che erano stati istituiti i giochi, Romolo, figlio di Marte, avendo
vendicato l’offesa subìta da suo nonno, fondò sul Palatino la città di Roma il
giorno della festa di Pales”. Cassio
Dione, XLIII 42, 3: “Infatti
i Parilia venivano festeggiati con una gara equestre ricorrente, e non tanto in
onore della città che fu fondata in quella festività, ma in onore della
vittoria di Cesare [a Munda, nel 45 a.e.v],perché il suo annuncio era
giunto il giorno prima verso sera”. Censorino
21, 6: “Secondo questo calcolo [di Varrone],se non mi sbaglio,
quest’anno, che ha come indicazione e titolo il consolato di Pio e Ponziano, se
si parte dalla prima olimpiade è il millequattordicesimo, almeno a partire dai
giorni estivi, nei quali si celebrano i giochi olimpici, e se si parte dalla
fondazione di Roma è il novecentonovantunesimo, per l’esattezza a partire dai
Parilia, da cui si contano gli anni”. Festo
[PARILIA]: “Nei Parilia Romolo fondò Roma, giorno che veniva ritenuto festivo
soprattutto dai più giovani”. Scoli
Veronesi a Virgilio, Georgiche
III I: “..Grande Pales» [..] Romolo
ordinò di osservare il suo culto e nel giorno a lei sacro, cioè i Palilia,
fondò Roma”. Scoli a Persio I 72:
“Un’altra spiegazione: se dice Palilia, [Persio] intende il giorno sacro in onore di Ilia,
che partorì Remo e Romolo, e Cicerone così fa menzione di questi rituali nelle
Filippiche: «l Palilia, che ora chiamiamo Parilia con un cambiamento grafico,
vengono festeggiati con l’incendio del fieno, perché in quel giorno fu fondata
Roma dopo che furono incendiati dei fasci, oppure fu ritenuto dagli antichi il
giorno sacro di Pales, dea dei campi o dei pastori». CIL I2, Fasti Caeretani,
p. 213: “Parilia. Fondazione di Roma”; Fasti
Maffeiani p. 224: “PAR[ILIA]”; Fasti Praenestini p. 236: “PAR[ILIA]”; Fasti Philocali p. 262: “XI KAL[ENDAS] MAI[AS] N[ATALIS] VRBIS”. Vedi anche gli autori a
seguire.
2)
Ovidio, Fasti IV 721: “Passata la
notte, sorge l’Aurora: sono chiamato ad occuparmi delle feste Parilie, e non
sarò stato chiamato invano se ad assistermi sarà la benevola Pale. Assistimi,
benevola Pale: sto per cantare i riti dei pastori, il mio impegno è quello di
celebrare la tua festa. Anch’io ho spesso portato a piene mani ceneri di
vitello e steli di fava, sostanze lustrali affidate al fuoco. Anch’io ho
inoltre effettuato il triplice salto dei fuochi allineati e mi sono asperso
d’acqua con il ramo d’alloro bagnato. La Dea si è commossa, e mi assiste
nell’opera. Che la mia nave esca dal porto, le vele sono ormai gonfiate dal
vento. Andate, gente, all’altare della Vergine [la Vestale], fatevi dare le sostanze per la
fumigazione: sarà Vesta a fornirle, grazie a Vesta sarete purificati. Sostanze
per la fumigazione sono sangue di cavallo [vedi nota 5], ceneri di vitello [nota 4] e, terza, i vuoti steli della dura fava.
Quando fa sera, pastore, purifica le
pecore, dopo che hanno mangiato. Spargi dell’acqua sul terreno e spazzalo con
una scopa. Abbellisci gli ovili con fronde sostenute da solidi rami e copri le
porte addobbandole con grandi festoni. Si levino fumi bluastri dal vivo zolfo e
le pecore belino al contatto con il fumo sulfureo. Brucia legno di olivo
maschio, rami di pino ed erbe della Sabina, fai crepitare l’alloro bruciandolo
al centro del focolare. Unisci ad un paniere di miglio una focaccia di miglio:
la rustica dea gradisce particolarmente questo tipo di alimento. Aggiungi i
cibi che le competonoed un secchio
di latte: dopo aver tagliato le vivande, prega Pale, la dea che vive nel bosco, offrile il tiepido latte e
pronuncia questa preghiera: «proteggi le pecore e assieme alle
pecore il loro pastore. Le mie stalle restino al sicuro, lontane dalle sventure.
Se ho pascolare le greggi in un luogo sacro, se mi sono seduto sotto un albero
sacro, se qualche mia pecora senza saperlo ha brucato attorno a un sepolcro, se
sono entrato in un bosco interdetto e il mio sguardo ha messo in fuga le ninfe
o il dio semicaprino, se in un bosco sacro con la mia falce ho tagliato un
ombroso ramo, per dare un cesto di foglie ad una pecora inferma: perdonami per
queste mie colpe. E non mi si condanni per aver messo il gregge a riparo,
durante una grandinata, in un tempietto della campagna. Né mi nuoccia l’aver
smosso l’acqua del laghetto: perdonatemi, ninfe, se una zampa muovendosi ha
reso torbide le vostre acque. Dea, placa per noi le sorgenti, le divinità delle
sorgenti e tutti gli dèi che vivono sparsi nell’intero bosco. Non farci vedere
le Driadi, né i lavacri di Diana, né Fauno, quando a mezzogiorno riposa nei
campi. Tieni
lontane le malattie: uomini e greggi restino in buona salute, e in buona salute
restino i cani, guardiani vigili e sagaci. Che non debba ricondurre alla sera meno
pecore di quante non ci fossero state al mattino, né riportare piangendo pelli
strappate ai lupi. Che non debbano soffrire la tremenda fame: abbondino le
erbe, le foglie e le acque nelle quali si lavano e possono bere. Che possa
mungere mammelle gonfie, che il formaggio mi assicuri guadagno, che il siero
possa colare dal canestro di vimini. Che l’ariete sia vigoroso e la gravida
pecora porti a maturazione il suo feto, che nel mio stabbio gli agnelli siano
in gran numero. Che ne possa ricavare una lana che non punga il corpo delle
fanciulle, morbida e adatta alle mani più delicate. Che questa preghiera venga
esaudita, che si possa ogni anno offrire grandi focacce a Pale, la dea dei pastori». Questa è la
preghiera con cui placare la dea: recitala per quattro volte rivolto ad Oriente
e purifica le tue mani nell’acqua corrente. Poi ti sarà consentito bere latte
dal color della neve mescolato con rossa sapausando la ciotola quale bicchiere, e subito
dopo salta velocemente con agile piede i mucchi di stoppie che crepitano tra le
fiamme. Ho descritto il rito, mi resta ora da spiegarne l’origine. Sono
esitante nel proseguire, le molte spiegazioni mi rendono incerto. La forza del
fuoco purifica tutto e spurga il metallo della sua impurità: è per questo che
esso purifica il gregge con il suo pastore? Oppure perché ci sono due diverse
divinità, l’acqua e il fuoco, che formano gli opposti elementi di tutte le cose
e che i nostri padri vollero riunire, ritenendo utile mettere il corpo a
contatto con le fiamme e con l’acqua corrente? Oppure questi elementi sono
tenuti in gran conto per il fatto che da essi nasce la vita [motivo
empedocleo],che da essi l’esule è escluso [nella formula rituale della condanna
all’esilio si escludeva l’esiliato dall’acqua e dal fuoco: aqua et igni
interdicere],che con essi la sposa diventa tale [alla sposa, nel momento in cui
entrava nella dimora del marito, erano offerti ritualmente l’acqua ed il fuoco]?Alcuni
ritengono, ma è un’opinione che mi pare poco credibile, che il rito ricordi Fetonte
e il diluvio di Deucalione. Altri sostengono che i pastori, sfregando le pietre
fra loro, ottenessero all’improvviso scintille [immagine corrente della
scoperta del fuoco; Virgilio, Georgiche I 135]: la prima si perse, ma la seconda dette fuoco alla paglia. E’ questa la
ragione del fuoco acceso in occasione delle Parilie? Oppure quest’uso venne
invece introdotto dal pio Enea, che nel momento della sconfitta si vide offrire
dal fuoco la via della salvezza [Virgilio, Eneide II 632]?Ma
non è forse più verosimile che nel momento della fondazione di Roma, quando si
dovettero portare i Lari nella nuova sede e cambiare casa, dopo aver bruciato
le loro rozze abitazioni ed abbandonato le vecchie capanne, i pastori e il
bestiame siano stati costretti a saltare in mezzo alle fiamme [stessa
eziologia in Dionigi I 88]?Gesto che si ripete tuttora, Roma, nel
giorno della tua Fondazione [..] Si
sceglie il giorno adatto per tracciare con l’aratro il Solco delle mura:
mancava poco alla festa di Pale e fu quello il giorno scelto per dare inizio
all’impresa”.
3)
Scoli a Persio I 72: “Varrone dice: «l Palilia sono tanto privati
quanto pubblici: e presso i campagnoli c’è un tipo di gioco e di divertimento
che consiste nel saltare un grande fuoco fatto di fasci uniti a fieno e credono
di purificarsi con questi Palilia».” Festo
[POPULARIASACRA]: “Gli atti religiosi
popolari sono, come dice Labeone, quelli a cui tutti i cittadini partecipano e
che non sono riservati a particolari famiglie; tali sono le Fornacalia, le
Parilie, i Laralia..”
4)
I Fordicidia avevano luogo il 15 di
Aprile, e prendevano il nome dalle fordae
boves, ossia le vacche incinte che si offrivano a Tellus. Ognuna delle
trenta Curie di cui era suddivisa Roma sacrificava un capo, mentre il feto in
grembo veniva bruciato; le ceneri così conservate dalle Vestali venivano distribuite
per le purificazioni delle Palilia.
Le
origini ed il significato del rito verran trattati nell’articolo dedicato a
Tellus.
5)
Properzio, Elegiae IV 1, 20: “Per
nessuno ci fu la preoccupazione di cercare dei stranieri, poiché una folla sospesa
fremeva per il patrio rito, e col fieno acceso, celebrare le annuali Parilie,
come ora si rinnovano i riti lustrali col cavallo dalla coda mozza”.
Le corse in questione si tenevano al Circo Massimo a metà Ottobre, in onore di
Marte: il cavallo di destra della biga vincitrice veniva sacrificato,
presumibilmente dal Flamine di Marte, e la coda tagliata veniva portata alla
Regia, dove il sangue veniva raccolto dalle Vestali. Vi torneremo altrove.
7)
Festo [BURRANICA POTIO]: “Così si
chiama una miscela di vino cotto e latte, a causa del suo colore rossastro;
burrus,in effetti, significa rosso”.
8)
Scoli a Persio I 72:
“[Persio] dice Palilia, giorno sacro
chiamato così in onore della dea della pastorizia: in questo giorno i
campagnoli saltavano su fasci di fieno posti sul fuoco, e credevano di
purificarsi con questo rituale: perciò chiama i Palilia «fumosi».” Tibullo,
Elegiae II 5, 87: “..innaffiato di vino,
canterà il pastore le Palilie, che sono le sue feste: via allora, lupi,
allontanatevi dalle stalle. Dopo aver bevuto, secondo il rito, a mucchi di
stoppie leggere darà fuoco e d’un balzo attraverserà le fiamme consacrate. La
moglie gli darà figlioli, e il bimbo, aggrappandosi alle orecchie del padre,
non farà che strappargli baci; e non sarà di peso al nonno vegliare il piccolo
nipote, balbettare da vecchio col bambino.Allora
i giovani, resi gli onori al dio, si distenderanno sull’erba, dove leggera cade
l’ombra di un albero antico; e con le loro vesti drizzeranno una tenda,
cingendola di ghirlande, e anche la coppa sarà inghirlandata. Ciascuno
imbandirà le sue vivande, innalzando con zolle le mense festive e con zolle un
giaciglio. Qui un giovane, eccitato dal vino, maledirà la sua fanciulla, anche
se subito dopo vorrebbe che i suoi voti non avessero effetto: tornato in sé,
lui stesso, ch’era in collera con l’amica, piangerà e giurerà d’aver agito con
la mente annebbiata”.
9)
Properzio, IV 4, 73-80: “Per la città era un giorno di festa (i padri
lo chiamarono Parilia), e questo giorno iniziò a essere il primo per le mura:
furono annuali i banchetti di pastori, lo svago in città, quando i piatti di
campagna sono pieni di ghiottonerie e sugli sparsi mucchi di fieno in fiamme la
folla ubriaca salta con i piedi luridi. Romolo stabilì che i turni di guardia
diventassero riposo e che gli accampamenti, cessato il suono della tromba,
tacessero”.
10)
Vedi tra gli altri Catone, De Agri Coltura 95: “Perché le viti non abbiano i bruchi: piglia
della morchia, purificala, mettine due congi [6,4l] in un vaso di rame, falla bollire a fuoco lento, agitandola spesso con
un bastoncello, finché non sia densa come il miele. Prendi poi un terziario [1hg] di bitume e un quartario di zolfo [70g]; pestali separatamente in un mortaio; poi
versa queste polveri minutissime nella morchia calda e continua a mescolare e
fa’ cuocere all’aria aperta; perché se la cuoci in un luogo chiuso, quando ci
metti il bitume e lo zolfo s’infiammano. Quando questo miscuglio sarà denso
come il vischio, lascia raffreddare e ungine il ceppo e i rami della vite. Il
bruco non comparirà”. Questo trattamento verrà poi citato
da Plinio XVII 264: “Similmente, perché nella vite non si formino
i bruchi, prescrive di cuocere due congi di morchia fino a che si assuma la
consistenza del miele, poi di cuocerla di nuovo con un terzo di bitume e un
quarto di zolfo, all’aria aperta, perché al chiuso si incendierebbe. Dice di
ungere con questo preparato le viti intorno alla base e sotto le «ascelle», così non nasceranno bruchi. Certi
si contentano di esporre le viti ai suffumigi di questa mistura approfittando
di un vento favorevole, per tre giorni di seguito”.
Trattazione sistematica si ha invece in XXXV
174 (e seguire): “Tra gli altri generi di terra, certo di
estremo interesse è la natura dello zolfo che esercita un grande potere su
moltissime altre sostanze [..] Lo
zolfo ha la proprietà di riscaldare, di cuocere, ma riduce anche gli ascessi
nei corpi, per cui mescola agli impiastri e ai cataplasmi emolienti atti al
caso. Anche in caso di dolore ai reni e di lombaggini giova incredibilmente se
posto sulla zona dolente con grasso. Guarisce i licheni del volto e le
dermatiti scagliose se applicato con la resina di terebinto [..] fa bene anche agli asmatici se lo succhiano
e a quanti tossiscono espellendo pus; cura le punture degli scorpioni. Lo zolfo
vivo mescolato al nitro e pestato nell’aceto, se spalmato, elimina le macchie
della vitiligine, come pure i lendini [..] Anche nei riti religiosi viene usato per purificare le case con il suo
fumo”. Sulle virtù, anche lustrali, dello zolfo concordano le fonti greche,
sia quelle propriamente mediche e farmacologiche (come Dioscoride), sia quelle
naturalistiche (come Teofrasto) e letterarie. Celebre l’utilizzo di Odisseo
subito dopo la strage dei pretendenti. Omero,
Odissea XXII 479: ..l’opera era compiuta. Allora egli disse alla
cara nutrice Eurìclea: «Portami
zolfo, balia, rimedio dei mali, portami fuoco, perché la sala purifichi [..] E gli rispose la cara nutrice Eurìclea: «Sì, questo creatura mia tu l’hai
detto a proposito. Però anche tunica e manto porterò, buone vesti, che così tu
non stia, coperto l’ampie spalle di stracci, qui nella sala: vergogna, sarebbe.» Ma rispondendo disse l’accorto
Odisseo: «Fuoco
prima di tutto mi si porti in sala».
Rispose così, non fu sorda la cara nutrice Eurìclea, e portò fuoco e zolfo, e
Odisseo purificò tutto bene, sala, soffitto e cortile”.
11)
Virgilio, Georgicon III 414: “Impara a
bruciar nelle stalle odorifero cedro, snida i serpenti insidiosi con suffumigi
di galbano. Sotto non smosse lettiere, spesso, fuggendo la luce si nasconde la
vipera dal mortifero morso, o la biscia che ama le case“. Columella, De Re Rustica VII 4, 6:
“E bisogna liberare le stalle non solo
dal fango e dal letame, ma anche dai serpenti nocivi [..] Ma perché non sia necessario fare questo
con proprio pericolo, brucia spesso dei capelli di donna o delle corna di
cervo, i cui odori sono efficaci a impedir che quella peste si annidi nelle
stalle”.
12)
Varrone, De l.l. VI 15: “Palilia è
termine che deriva da Pales, perché si tratta di una festività in suo onore..”
13)
Festo [PALES]: “E’ il nome della Dea
dei pastori e le sue feste si chiamano Palilia; oppure, come altri ritengono,
furono chiamati Parilia perché furono fatti sacrifici a questa divinità per la
nascita del bestiame”. Dionigi di
Alicarnasso, Antichità Romane I 88:
“In questo giorno, che arriva all’inizio
della Primavera, i contadini e i mandriani offrono un sacrificio di
ringraziamento per l’aumento del loro bestiame”.
14)
Varrone, De Re RusticaII 2, 2: “Ebbene io parlerò del bestiame primitivo. Tu infatti dici che fra gli
animali selvatici le pecore furono le prime ad essere catturate e addomesticate
dagli uomini”. Plinio 187: “Molto dobbiamo anche al bestiame minuto, sia
per quanto riguarda i sacrifici agli Dèi, sia per l’utilizzazione della loro
lana. Come i buoi procurano nutrimento all’uomo, così siamo debitori a questi
animali del vestito che ci protegge”.
Columella, De Re Rustica VII 2:
“Le pecore tengono il secondo posto,
subito dopo gli armenti di bestiame grosso; ma se si guarda all’utile
dovrebbero tenere il primo. Esse ci offrono la miglior protezione contro il
freddo e sono la fonte più ricca di indumenti per il nostro corpo. E non basta:
con l’abbondanza del latte e del cacio saziano la gente di campagna e ornano di
piacevoli e svariate vivande anche le delicate mense dei ricchi. Forniscono
totalmente il vitto ad alcune tribù, che non conoscono il frumento..”
15)
Varrone, De Re Rustica II 1 18: “Per gli ovini il periodo adatto si ritiene il tempo che va dal tramonto di Arturo [metà Maggio] sino a quello dell’Aquila”[seconda metà Luglio] 19: “Una seconda cosa da osservare, sul punto della figliatura, è che alcune bestie partoriscono dentro un periodo di tempo, altre dentro un altro. Le cavalle, infatti, portano 12 mesi, le vacche 10, le pecore e le capre 5, le scrofe 4”. II 2, 13: “Il tempo migliore per l’accoppiamento è quello che va dal tramonto di Arturo a quello dell’Aquila, perché gli agnelli concepiti dopo vengono supiccoli e deboli. La pecora porta 150 giorni, perciò partorisce sulla fine
d’autunno, quando la temperatura è mite e le prime piogge fanno crescere le
prime erbe”. Plinio 187: “Per tutti il periodo di calore va dal
tramonto di Arturo, cioè da tre giorni prima delle Idi di Maggio [il 13],al
tramonto dell’Aquila, cioè 10 giorni prima delle Calende di Agosto [23
Luglio]. La gestazione dura 150 giorni;
gli esemplari concepiti dopo questo termine sono deboli. Gli antichi chiamavano
cordi gli agnelli nati dopo quel periodo [cordus è aggettivo usato per
indicare ciò che giunge tardi a maturazione, sia in ambito animale che
vegetale]. Molti preferiscono gli agnelli
nati in Inverno a quelli nati in Primavera, perché è più importante che siano
robusti prima del Solstizio d’Estate che prima del Solstizio d’Inverno; pensano
inoltre che è utile che nasca in Inverno solo questo animale”.
16)
Varrone, De Re Rustica II 3, 8: “Per quanto riguarda la figliatura, sul finir
dell’autunno si allontanano dal gregge che è nei campi i caproni e si chiudono
nelle stalle, come è stato detto per gli arieti. La capra che ha concepito
partorisce dopo 4 mesi in Primavera”. Columella,
De Re Rustica VII 6, 6: “Consiglio
di scegliere quale tempo dell’accoppiamento l’autunno, avanti il mese di
Dicembre, perché i capretti vengano alla luce all’avvicinarsi della Primavera,
quando su tutte le macchie sbocciano le gemme e le selve germogliano di fronde
nuove”. Plinio VIII 200: “Concepiscono nel mese di Novembre, in modo
da partorire di Marzo, quando i cespugli stanno germogliando”.
17)
Columella, De Re Rustica VI 24: “Per lo
più bisogna portare le femmine al maschio nel mese di Luglio, perché partoriscano
in Primavera, quando già i pascoli sono ricresciuti, i vitellini concepiti
d’Estate. Infatti portano il ventre pieno per dieci mesi e d’altra parte non si
sottopongono al maschio per comando del bovaro, ma solo quando ne hanno voglia.
Ora il desiderio naturale coincide appunto col tempo detto, perché in piena
euforia per l’abbondante pascolo primaverile, cercano l’accoppiamento”.
L’accoppiamento dei bovini secondo altri autori dovrebbe invece avvenire a
partire da Gennaio. Varrone, De Re Rustica VI 5, 13: “Il tempo più adatto per concepire è quello che va dal sorgere della
costellazione del Delfino sino a 40 giorni dopo o anche più. Le vacche,
infatti, che hanno concepito in questo periodo si trovano a partorire in una
stagione mitissima, ché le vacche portano 10 mesi”. Plinio
VIII 177: “Il periodo
del coito comincia quando sorge la Costellazione del Delfino, cioè la vigilia
delle Nonae di Gennaio, e dura trenta giorni; alcune vacche vanno in calore
anche in Autunno, ma quei popoli che vivono di latte distribuiscono il periodo
in modo da poter fruire tutto l’anno di questo alimento”.
18)
Varrone, De Re Rustica I 28, 2:“Infatti, come per i suini si ritiene che il
periodo adatto sia quello che va dall’inizio dello spirar del Favonio sino all’Equinozio
di Primavera” 4, 7: “Per
la riproduzione i verri vanno isolati due mesi prima dell’accoppiamento. Il
tempo migliore per la monta è quello che va dall’inizio dello spirar del
Favonio sino all’equinozio di primavera 4 , così che i parti avvengano
d’estate. La scrofa infatti porta 4 mesi e partorisce in una stagione in cui la
terra abbonda di pascoli. Non si debbono far accoppiare le scrofe minori di 1
anno; meglio aspettare 20 mesi, in modo che partoriscano di 2 anni”.
Columella, De Re Rustica VII 9: “Può[la scrofa] già concepire bene quando ha
un anno, ma deve essere fecondata nel mese di Febbraio in modo che, dopo
quattro mesi di gravidanza, al quinto partorisca, quando già le erbe hanno una
certa consistenza e così i porcellini godano di un latte ben maturo e forte, e
quando saranno svezzati si pascano di stoppie e di semi che cadono dai baccelli”.
Plinio VIII 205: “Il periodo di calore del suino va dal
levarsi del vento Favonio [a Febbraio] fino
all’Equinozio di Primavera”.
19) Varrone, De Re Rustica II 6, 4:“Si accoppiano prima del solstizio estivo, sì che le femmine partoriscano nel medesimo periodo dell’anno successivo: esse figliano 12 mesi dopo il concepimento”. Plinio VIII 163: “In questa specie animale le femmine hanno una gestazione che dura undici mesi, al dodicesimo danno alla luce i piccoli. L’accoppiamento avviene durante l’Equinozio di Primavera”. Columella, De Re Rustica VI 27: “I cavalli della razza volgare si lasciano pascolare insieme maschi e femmine e non si stabiliscono epoche fisse per la monta. Alle cavalle generose invece si congiungono i maschi nell’epoca dell’Equinozio di Primavera, perché possano partorire il puledro circa nella stessa stagione in cui l’hanno concepito, passato un anno, e nutrirlo senza tanta fatica, essendo i campi già floridi ed erbosi; infatti esse partoriscono nel dodicesimo mese. Dunque bisogna far di tutto perché proprio in questa stagione si permettano i congiungimenti alle femmine e ai maschi in amore; se lo impedissimo, essi verrebbero stimolati da voglie furiose, tanto che si è dato il nome di ippomane a un veleno che accende nei mortali un desiderio simile alla voglia acuta dei cavalli. E’ certo che in alcune regioni le cavalle arrivano a tale grado di desiderio, che anche non avendo maschio, figurandosi con assidua ed eccessiva cupidità il piacere venereo, concepiscono dal vento, come gli uccelli da cortile.” Il tema di Favonio/Zefiro fecondatore è assai comune nella letteratura.
20)
Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane I 88: “Dopo di ciò [Romolo], avendo comandato che i fuochi fossero accesi
prima delle tende, fece uscire la gente e saltò sopra le fiamme per espiare la
loro colpa. Quando ritenne che tutto era stato svolto in modo accettabile per
gli Dèi, chiamò tutto il popolo nel luogo designato [..] Questo giorno è celebrato ogni anno dai
Romani fino ad oggi, come una delle loro festività più grandi, e lo chiamano
Parilia [..] Ma se avessero celebrato
questo giorno già in tempi più antichi quale occasione di gioia, e per tale
motivo lo consideravano il più adatto per la Fondazione della Città o se,
proprio in quanto segnò l’inizio della sua costruzione, lo consacrarono
ritenendo di onorare in esso le divinità che son propizie ai pastori, non posso
dirlo con certezza”.
21)
Plutarco, Romolo 12: “E’ concordemente accettato che la fondazione della città avvenne l’undicesimo giorno prima delle Calende di Maggio [il 21 Aprile]. E questo giorno festeggiano i Romani, chiamandolo il Natale della loro patria. Da principio, come dicono, nessun animale sacrificavano in questa solennità, ma pensavano di dovere conservare pura e senza spargimento di sangue la festa commemorativa della nascita della loro patria. Ma anche prima della fondazione della città essi avevano in quello stesso giorno una festa pastorale, che
chiamavano «Parilia».” Plinio XIV 88:
“Che Romolo libasse col latte, non col vino, è provato dalle cerimonie religiose che istituì, i cui riti permangono
tuttora. Una legge del re Numa, suo successore, dice «non
cospargere di vino il rogo». Nessuno può dubitare che questo divieto fosse una conseguenza della scarsezza di materia prima”.
22)
Columella, De Re Rustica VI 3: “La
paglia migliore è quella di miglio, poi quella d’orzo e al terzo posto quella
di frumento”. VI 24, 5: “..al
vitellino si danno polentine di miglio tostato e macinato, misto a latte”.
23)
“PALIBUS II” (vedi foto).
24)
George Dumèzil, La Religione Romana Arcaica, pp.
334-335.
25)
Columella, De Re Rustica VII 3, 11:
“Sul tempo della monta, fra gli autori
agricoli c’è accordo quasi totale che sia il principio della Primavera, alla
festa di Pale, se si tratta di pecore appena giunte all’età feconda; il mese di
Luglio per quelle che hanno già partorito. Ma la prima epoca è senza dubbio
preferibile, perché così si ottiene che la vendemmia tenga dietro alla mietitura
e che dopo la raccolta dell’uva segua la nascita degli agnelli; e questi ultimi
si possono saziare dei pascoli di tutto l’Autunno e prendono forza prima del
freddo e della povertà di cibo invernale. Celso ha ragione quando afferma che
l’agnello nato d’autunno è migliore di quello nato di Primavera, perché è cosa
più utile che raggiunga una certa robustezza prima del Solstizio d’Estate
piuttosto che prima del Solstizio d’Inverno; del resto, essi soli fra tutti gli
animali possono nascere d’Inverno senza danno”.
26)
Agostino, De Civ. D. IV 24: “Ma quando non
avevano fra mano il nome degli dèi, denominavano gli dèi dal nome delle cose
che, a loro giudizio, erano accordate dagli dèi stessi. Pertanto aggiungevano
dei suffissi alle parole, come da bellum (guerra) Bellona e non Bello, dalle
cune Cunina e non Cuna, da segetes (messi) Segezia e non Segete, dai pomi
Pomona e non Pomo, dai bovi Bovona e non Bove”.
27) Arnobio,
Adversus Gentes III 40: “Lui stesso [Nigidio Figulo] ancora, nel suo sedicesimo libro, seguendo
l’insegnamento etrusco, indica che ci sono quattro tipi di Penati; e che uno di
questi appartiene a Giove, un altro a Nettuno, il terzo alle ombre sottostanti,
il quarto agli uomini mortali, facendo alcune asserzioni inintelligibili. Anche
Caesius stesso, in seguito a ciò, ritiene che siano Fortuna e Cerere, il Genio
di Giove e Pale, ma non la divinità femminile comunemente ritenuta, ma un
ministro maschile di Giove”. Vedi anche Servio, Ad Georg. III 1
e Martianus Capella, Philologiae I 50.
28)
Ennio, Annales II 68: “Egli medesimo
istituì il flamine Vulturnale, il Palatuale, il Furinale e il Florale, il
Falacre e il Pomonale”. Varrone,
De l.l. VII 45: “Ennio dice che Numa Pompilio istituì anche i
Flàmini, ciascuno dei quali indicato con un nome desunto da una particolare
divinità. Ora in alcuni è evidente l’etimo di questo nome; è evidente per
esempio perché uno sia chiamato Marziale e un altro Quirinale. Ma vi sono altri
nomi di flàmini la cui etimologia è ignota, come la maggior parte di quelli
contenuti nei seguenti versi: questo stesso istituì il flamine Volturnale, il
Palatuale, il Furrinale, il Florale, il Falacre e il Pomonale. Questi titoli
sono oscuri. L’origine va connessa con Volturno, con la dea Palatua, con
Furrina, con Flora, col padre Falacro, con Pomona”. [PALATUALIS FLAMEN]: “Sacerdote
istituito per fare sacrifici in onore della dea Palatua, considerata come la
patrona del Palatino”.
29)
Festo [SEPTIMONTIUM]: “E’, come
racconta Antistio Labeone, la festività dei colli raggruppati nel nome:
Palatino, dove si celebra un sacrificio detto Palatuar..”
30)
Varrone, De l.l. V 8, 54: “Donde derivi il nome di Veliae ho appreso parecchie spiegazioni, tra
cui quella che ivi i pastori del Palatino, prima che fosse scoperta la
tosatura, solevano vellere [strappare]
la lana dalle pecore, da cui deriva il termine vellera [velli]”. Festo [PALATIUM]: “Questo monte di
Roma era così chiamato o perché gli armenti che vi pascolavano erano soliti
belare, o perché il bestiame andava a vagare lì..” Tuttavia “belare”, di
origine onomatopeica, si scrive con la “b”
Varrone, De Re Rustica II 1, 6-7: “..capre e le pecore. Con loro termine, infatti, i Greci le chiamarono mela. Né molto diversamente noi con la stessa
parola, ma col cambiamento di una lettera (esse fanno, evidentemente, beeh! non meeh!) chiamano baelare
l’emissione della voce fatta dalle pecore, da cui poi è venuto balare, con la caduta di una lettera, come avviene
in molti casi”.
31)
Tibullo, ElegiaeII 5, 80: “Della città eterna, che mai al suo fianco Remo avrebbe abitato, Romolo
non aveva ancora tracciato le mura; sui pendii erbosi del Palatino pascolavano
allora le giovenche e sull’acropoli di Giove sorgevano basse capanne; scolpiti
in legno con un rustico scalpello, Pan umido di latte e Pale si riparavano
all’ombra di un elce; voto di un pastore errante, da un albero pendeva una
zampogna armonica, consacrata al dio delle selve, una zampogna formata da una
fila di canne via via decrescenti, ché alla piú corta ognuna è unita con la
cera. E là dove si stende la regione del Velabro, una barca minuscola, battendole
coi remi, per acque basse se ne andava. Con questa una fanciulla, per donare
piacere al ricco signore del gregge, venne portata a quel giovane in un giorno
di festa e con lei tornarono i doni di quella campagna feconda, il cacio e il
bianco agnello di una pecora color di neve..”.
32)
Floro, Epitome I 15: “Dopo i Piceni
furono conquistati i Salentini e la capitale di quella regione, Brindisi, dal
celebre porto, sotto la guida di Marco Attilio. In tale guerra la dea Pale,
sacra ai pastori, reclamò un tempio come prezzo della vittoria”.
33)
Marziale, Epigrammaton XIV 127: “Questo
tessuto di Canosa, del tutto somigliante a un torbido vino melato, sarà un dono
per te. Sii lieto: non invecchierà presto”; 129, titulo: “Tessuti Rossi di Canosa” 155: “La Puglia è famosa per le sue lane di prima qualità, Parma per quelle
di seconda qualità: le lane di terza qualità fanno onore ad Aitino”. Columella, De Re Rustica VII 2: “Quanto
alla razza, da noi erano stimate le pecore calabresi, apule e di Mileto, e sopra
tutte le tarantine”. Plinio VIII 189:
“Lana molto celebre è quella di Puglia e
il tipo che in Italia viene chiamato lana greca ed altrove lana italica; al
terzo posto viene quella prodotta dalle pecore di Mileto. Le pecore della
Puglia hanno il pelo corto e sono famose solo per la produzione di mantelli;
quelle dei dintorni di Taranto e Canosa hanno la massima notorietà [..] Canosa produce lana fulva, Taranto quella di
colore scuro particolare”. Orazio,
Carmina II 6, 10: “..io mi avvierò verso il
fiume Galeso [presso Taranto],diletto alle lanute greggi, e verso le
campagne, su cui regnò lo spartano Falanto. Quel cantuccio a me sorride sopra
ogni altro della terra”. III15: “..a te conviene filar le lane, tosate presso la rinomata Lucera, non la
cetra, né il fiore vermiglio della rosa, né le anfore, che tu tracanni, vecchia
qual sei, sino all’ultima stilla”. Persio,
Saturae II 62: “A che giova introdurre le nostre usanze nei templi, e trasferire agli
Dèi i piaceri della nostra carne scellerata? Essa ha corrotto l’olio diluendovi
per sé la cannella, essa ha bollito la lana calabra nella deturpante porpora..”
34)
L’evocatio è un rito consistente nel
“chiamare a sé” una divinità altrui, magari nel mezzo di un assedio, portandola
dalla propria parte e lasciando così i nemici senza protezione divina (o
addirittura volgendola contro di loro). In cambio le si offrivano templi, culti
e onori più grandi a Roma; è il caso ad esempio dell’Uni di Veio o della Tanit
di Cartagine, poi identificate con Giunone. Solo chi deteneva l’Imperium, ossia un dittatore o un
console, poteva evocare divinità. A questo rito dedicheremo una trattazione a
parte.
35)
Orazio, Epodoi I 27: “..perché il mio
bestiame, prima della grande caldura, cambi le praterie dell’Apulia con quelle
della Lucania”. Varrone, De Re Rustica II praef. 6: “..anche io ebbi grandi allevamenti, di pecore
in Puglia e di cavalli nel Reatino”; 1,
16: “Né i medesimi luoghi sono per tutte le bestie adatti al pascolo d’inverno
e d’estate. Pertanto le greggi di pecore dalla Puglia vengono spinte lontano
nel Sannio a passar l’Estate”. 2,
9: “Sogliono infatti le greggi pascolare in luoghi lontani e per larga
estensione, in zone poste in direzione diverse, sicché spesso i pascoli
invernali distano molte miglia da quelli estivi. – Lo so bene io – dissi – ché
le mie greggi, le quali passavano l’estate sui monti del Reatino, svernavano in
Puglia. Fra queste due regioni, come due cesti tenuti insieme da un giogo,
corrono pubblici tratturi che uniscono le due lontane zone di pascolo”.
Varrone, De Re Rustica II 2, 18: “..le quali per la bontà della lana, come si usa a Taranto e in Attica, si
coprono con pelli, affinché non si sporchi la lana”; II 9, 6: “Nella vendita erano compresi i cani, ma non
i pastori, con l’intesa però che questi dovessero condurre le pecore sino ai
boschi di Metaponto e al mercato di Eraclea”. III 17, 9: “Sembrava infatti che per il caldo avesse
fatto passare i suoi amici pesci in luoghi più freschi, come sogliono fare i
pastori della Puglia che attraverso sentieri conducono il gregge sui monti
della Sabina”.
36)
Andrea Carandini, La Leggenda di Roma I, pag. 422 (con riferimenti).
37)
Festo [FALERI]: “Nome della città
che sembra provenire da Fal”. [FALAE]:
“Alcune opere di fortificazione, per via
della loro elevazione, son denominate Falandum, che in lingua etrusca significa cielo”.
39)
Ennio, Annales II 68: “Egli medesimo
istituì il flamine Vulturnale, il Palatuale, il Furinale e il Florale, il
Falacre e il Pomonale”. Varrone,
De l.l. VII 45: “Ennio dice che Numa Pompilio istituì anche i
Flàmini, ciascuno dei quali indicato con un nome desunto da una particolare
divinità. Ora in alcuni è evidente l’etimo di questo nome; è evidente per
esempio perché uno sia chiamato Marziale e un altro Quirinale. Ma vi sono altri
nomi di flàmini la cui etimologia è ignota, come la maggior parte di quelli
contenuti nei seguenti versi: questo stesso istituì il flamine Volturnale, il
Palatuale, il Furrinale, il Florale, il Falacre e il Pomonale. Questi titoli
sono oscuri. L’origine va connessa con Volturno, con la dea Palatua, con
Furrina, con Flora, col padre Falacro, con Pomona”. [PALATUALIS FLAMEN]: “Sacerdote
istituito per fare sacrifici in onore della dea Palatua, considerata come la
patrona del Palatino”.
40)
[FALARICA]: “Una sorta di proiettile, usato da coloro che combattono dall’alto di
certe opere innalzate dalle mani degli uomini, chiamate falae”.
41)
Aulo Gellio XIII 23, 4: “Te,
Anna e Peranna, Panda Cela, te, o Pale, Neriene e Minerva, Fortuna e Cerere”.
Il frammento di Varrone è il 506. Gerard Radke, in Nerio. Beobachtungen zu einem Götternamen pp. 191-198, ha proposto l’emendamento
“Panda te calo Pales” (invoco te,
Panda Pale).
42)
Varrone, De Re Rustica I 50, 3: “La paglia invece che rimane attaccata alla
spiga viene portata in ceste sull’aia, dove viene da quella staccata in luogo
aperto, palesemente [palam]. Da
questo fatto può derivare il nome palea [paglia]”. Palea [paglia] è
accostato a palam solo per la somiglianza di suono, ma si tratta di due parole
di origine del tutto diversa. I 52, 2: “Così
avviene che la parte più leggera, che si chiama acus e palea [pula] è vagliata e
gettata fuori dell’aia, mentre il frumento, che è pesante, arriva puro nelle
ceste”.
43)
Fasti Esquilini, CIL I2 pp. 210-211: “AN[NUS
PASTORICI]”. Fasti Praenestini p.
236: “PAR[ILIA]: principio an[nipastoricii]”.
Le Palilia son qui iscritte in qualità di capodanno pastorale. Vedi anche
l’immagine sopra, Menologia Rustica:
“OVIS LVSTRANTVR”.
44)
Virgilio, Bucoliche V 35: “Rapito tu
dai fati, Pale stessa i campi lasciò”. Come prefazione al trattato
sull’allevamento in Virgilio e Columella. Georgiche
III: “Te pure, grande Pale, e te [Apollo] canteremo, indimenticabile pastore dell’Anfriso”;
294: “È l’ora, veneranda Pale, è l’ora di declamare a gran voce”. Columella, De Re Rustica X 1: “Pur de’
giardini l’arte ti voglio, o Silvino, insegnare quell’arte che un tempo,
rinchiuso nel breve giro del carme, cantate le messi feconde e il dono di
Bacco, il buon vino, e te veneranda Pale, e il miele rugiada celeste..”
45) Varrone, De l.l. V 10, 74: “Con qualche piccola modificazione provengono
dai Sabini anche i seguenti nomi: Pale, Vesta, Salute, Fortuna, Fonte, Fede..”
47)
Varrone, De Lingua Latina V 19, 95:
“Vitulus [vitello] è detto così dal fatto che anticamente in
greco si chiamava italós”. De Re
Rustica VI 5, 3: “..nell’allevamento del bestiame il bue rappresenta
necessariamente un animale di grandissima importanza, specialmente in Italia,
che si crede tragga il suo nome da quello dei buoi. Nell’antica Magna Grecia,
infatti, come scrive Timeo, i tori si chiamavano itali: dal loro numero e dalla
loro bellezza e dalla produzione dei vitelli chiamarono Italia quella regione.
Altri hanno scritto che questo nome deriva dal fatto che Ercole inseguì dalla
Sicilia sino là un famoso toro chiamato italus”. Timeo fu uno storico greco
nativo di Tauromenium del III see.
a.e.v; scrisse una storia della Sicilia, di cui ci rimangono solo frammenti. Il
toro a cui si allude nei versi finali è uno dei capi di bestiame sottratti da
Ercole a Gerione. Vedi anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Etimologia_del_nome_Italia
48)
Varrone, De Re Rustica II 1, 7-10:
“Che se presso gli antichi non fosse
stato tenuto in gran pregio il bestiame, gli astronomi nel descrivere il cielo
stellato non avrebbero chiamato le costellazioni con nomi di animali. Il che
non solo non esitarono a fare, ma molti nella enumerazione dei XII segni dello
Zodiaco partono proprio da questi nomi, cioè dall’Ariete e dal Toro,
preferendoli a quelli di Apollo e di Ercole. Questi due dèi, infatti, vengono
dopo, ma sotto il nome di Gemelli. Né ritennero sufficiente che i nomi di
animali prendessero un sesto di quelli delle XII costellazioni, ma vi
aggiunsero, perché ne possedessero un quarto, il Capricorno. Inoltre dagli
animali domestici trassero i nomi della Capra, dei Capretti, dei Cani [Col
nome Cane si hanno due costellazioni: Cane maggiore, in cui spicca Sirio, e
Cane minore, la cui stella più splendente è Procione, “Antecanis”]. Del pari non vi sono tratti di terra e di
mare designati coi nomi di quelli? Di mare, poiché il nome Egeo deriva da
«capre» [αῖγες áighes, aeges] e poi
chiamarono Tauro un monte in Siria, un altro in Sabina, Canterio [ϰανϑἡλιος,
canthélios ossia “animale da soma”] e
Bosforo chiamarono le due rive dello stretto, il Bosforo Tracio e quello
Cimmerio [βóσπоρоς, bósporos, ossia “guado del bue”], e non chiamarono col nome di animali molte
località terrestri, come in Grecia la città di Hippion Argos [cioè,
“allevatrice di cavalli]? Infine il nome
d’Italia non deriva da vituli [vitelli],come scrive Pisone? Chi può negare, per
vero, che il popolo romano discenda da pastori? Chi ignora che Faustolo, l’aio
che allevò Romolo e Remo, era un pastore? E il fatto che essi fondarono la
città proprio il giorno delle Parilie non sarà una prova che loro stessi erano
dei pastori? Alla stessa conclusione si può giungere partendo dai seguenti
fatti: 1) ancora oggi – secondo una antica – usanza – s’infliggono multe di
buoi e di pecore; 2) le monete di più antico conio sono contrassegnate da
figure di animali; 3) quando fu fondata la città, il punto delle mura e delle
porte fu segnato dall’aratro a cui erano aggiogati un toro e una vacca; 4)
quando il popolo romano compie il rito purificatorio dei suovitaurilia vengono
condotti in processione un verre, un ariete e un toro; 5) noi portiamo molti
nomi gentilizi desunti da ambedue i tipi di bestiame, quello grosso e quello
minuto (da quello minuto abbiamo Porcio, Ovinio, Caprilio; così da quello
grosso abbiamo Equizio, Taurio, Asinio): la stessa cosa provano i cognomi, in
quanto diciamo per esempio gli Anni Caprae, gli Statili Tauri, i Pomponi
Vituli, e così molti altri cognomi desunti da nomi di animali”.
49) Plutarco, Quaestiones Romanae 31: “Nei
riti nuziali si canta il notissimo Talasio. Perché? Forse per derivazione da
talasiva [filatura]. Infattichiamano talasus il tavlaro [cesto per
la lana],e quando conducono a casa la sposa stendono un vello; essa porta una
conocchia e il fuso, e adorna con trecce di lana la porta del marito”.
Lucano,
Pharsalia II 355: “..benchè il tempo non si adatti a nozze, già
il destino chiamando alla guerra, gli piace tuttavia stringere soltanto il
vincolo legale senza alcuna pompa vana, ammettendo alla sacra cerimonia
testimoni gli Dèi. Non pendono serti festivi sull’inghirlandata soglia, non si
distende fra i due cardini la candida benda..” Festo [TALASSIONEM]: “Varrone sostiene che nelle cerimonie nuziali
vi appare il simbolo del lavoro della lana. Infatti si chiamava talassio un cesto altrimenti chiamato calathus, peculiare dell’arte di lavorare la lana”.
50)
Plinio VIII 191: “Tutte le lane non ancora purgate hanno
proprietà medicamentose”. Tra gli autori che si sono occupati di lana si
possono citare Sestio Nigro, Dioscoride, Celso, Marcello, Sereno, Pseudo Prisciano, Sesto
Placito. Per esigenze di spazio riporteremo qui il “solo” Plinio. XXIX 29 sgg: “Cominceremo dai rimedi universalmente riconosciuti [..] Gli antichi Romani attribuivano alla lana un
valore anche superstizioso e prescrivevano alle spose novelle di toccare con
essa gli stipiti delle porte delle loro case. A parte l’uso religioso e la
protezione dal freddo, la lana non sgrassata fornisce parecchi rimedi intrisa
di olio e vino o aceto, secondo che sulle varie parti del corpo si richieda un
effetto emoliente o irritante, astringente o rilassante, in applicazione sulle
membra lussate e i tendini dolenti, umettandola frequentemente. Alcuni, per le
lussazioni, vi mescolano anche il sale; altri insieme alla lana mettono la ruta
pestata e il grasso, anche su contusioni e edemi. Si dice anche che la lana
renda più gradevole l’alito strofinata sui denti e le gengive in impasto col
miele. Giova poi in suffumigi negli attacchi di delirio. Arresta l’epistassi,
introdotta nelle narici con l’olio rosato e, con altro procedimento, in tamponi
auricolari molto spessi. Inoltre si stende sulle ulcere croniche in impasto col
miele. Guarisce le ferite imbevuta nel vino o nell’aceto o nell’acqua fredda e
nell’olio e poi strizzata. La lana d’ariete lavata a freddo macerata nell’olio,
usata nelle malattie delle donne, calma l’infiammazione dell’utero e, nel
prolasso, adoperata in suffumigi, lo fa rientrare nella sua sede. La lana non
sgrassata distesa sul ventre e applicata in pessari estrae i feti morti;
arresta pure le emorragie uterine. Si tamponano con essa le ferite prodotte dal
morso di cane rabbioso, poi la si stacca dopo sette giorni. Intrisa di acqua
fredda guarisce la pipite. La stessa impregnata di un miscuglio bollente di
nitro, zolfo, olio, aceto, pece liquida, applicata più calda che si può due
volte al giorno, è un sedativo delle lombaggini. La lana di ariete non
sgrassata fasciata stretta intorno alle articolazioni delle estremità arresta
pure le emorragie [..] Applicano la lana
non sgrassata anche sopra le escoriazioni, le battiture, i lividi, le
contusioni, le ammaccature, le lacerazioni, le lesioni traumatiche da caduta,
sulla testa nel mal di capo e su altre parti dolenti; sullo stomaco, nella
gastrite, imbevuta di aceto e olio rosato. La sua cenere si spalma sulle
escoriazioni, sulle ferite, sulle bruciature. Si aggiunge anche ai preparati
oftalmici, come pure si introduce nelle fistole e negli orecchi invasi dal pus.
Per questo scopo tosano la lana, altri la strappano e, dopo averne tagliato le
punte, la seccano, la cardano, la ripongono in un recipiente di argilla non
cotto, poi la cospargono di miele e la bruciano. Altri, dopo aver disteso sotto
la lana uno strato di schegge di legno di pino e altri strati poi uno sopra
l’altro, la spruzzano di olio e le danno fuoco, quindi stropicciano la cenere
con la mano dentro a vaschette in cui han versato acqua, e la lasciano
sedimentare; ripetono più volte questa operazione cambiano l’acqua, finchè
all’assaggio la cenere non risulti lievemente astringente senza però pizzicare
la lingua. A questo punto ripongono la sostanza. Essa ha effetto risolvente ed
è un ottimo depurativo delle palpebre. Anche lo sporco incorporato nel grasso
degli ovini e il sudore del cavo femorale ed ascellare aderenti alla lana –
materia chiamata esipo – hanno svariatissimi impieghi. Eccelle l’untume che si
produce nei capi dell’Attica. Lo si prepara in parecchie maniere, ma il più
pregiato si ottiene raccogliendo prima la lana strappata di recente in quelle
regioni, o tutta la massa di sporco ancora piena di unto, facendo bollire
leggermente la materia in un recipiente di bronzo, a fuoco lento, lasciando
raffreddare poi raccogliendo il grasso che viene a galla in un recipiente di
terracotta e di nuovo mettendo a cuocere la sostanza primitiva. L’uno e l’altro grasso così ottenuto viene lavato
nell’acqua fredda, filtrando attraverso un panno di lino, e lasciato seccare al
Sole, finchè divenga bianchissimo e trasparente; a questo punto si ripone in un
vasetto di stagno. Per essere buona la sostanza deve mandare odore di rancido e
non liquefarsi se stropicciata con le mani bagnate, ma divenire bianca come la
biacca. L’esipo è utilissimo agli occhi contro le infiammazioni e le callosità
delle palpebre. Alcuni abbrustoliscono la massa su un coccio, fino a perdita
del grasso, giudicando che il prodotto così ottenuto sia più confacente per le
palpebre escoriate e indurite e per gli angoli degli occhi granulosi e
lacrimanti. L’esipo guarisce le piaghe non solo degli occhi, ma anche della
bocca e dei genitali, mescolato al grasso d’oca. Cura inoltre le infiammazioni
dell’utero, le ragadi anali e i condilomi in impasto con il meliloto ed il
burro. Passeremo in rassegna più avanti gli altri suoi usi. Anche lo sporco che
si trova sotto la coda, condensato in pillole, lasciato seccare da sé e poi
ridotto in polvere, strofinato sui denti ha su di essi un mirabile effetto,
anche quando tentennano; altrettanto sulle gengive, se colpite da lesioni
cancerose. Quanto poi alla lana depurata, o applicata da sola o medicata con
zolfo, allevia i dolori sordi, mentre la sua cenere guarisce le malattie dei
genitali, ed è tanta la sua efficacia che la si mette pure sopra le medicine.
Anzitutto è un rimedio per gli stessi ovini se non pascolano per inappetenza.
In effetti se si fa una legatura la più stretta possibile alla coda con la lana
ad essa strappata, subito riprendono a mangiare e dicono che il tratto di coda
al di là del nodo si necrotizza rapidamente. La lana si associa anche alle
uova, venendo applicata insieme ad esse sulla fronte, contro le lacrimazioni
degli occhi. Per questo impiego non c’è bisogno che la lana sia purgata con la
saponaria, e non occorre versare altro che il chiaro d’uovo e la polvere
d’incenso”.
51)
Servio, Ad Aen. XII 169: “I Feziali e
il Padre Patrato, attraverso i quali venivano ratificate le dichiarazioni di
guerra o gli accordi di pace, non facevano mai uso di vesti di lino; del resto
questa fibra è tanto estranea al cerimoniale romano che, quando si trova una
flaminica con la tunica di lana intessuta di fili di lino, si conviene che a
causa di quel fatto sia stato commesso un sacrilegio”. Aulo Gellio, Noctes Acticae
X 15: “Il flamine diale era tenuto a
numerose pratiche rituali, come pure a parecchi divieti rituali che abbiamo
visto registrati nei libri composti Sui sacerdoti pubblici nonché nel libro
primo di Fabio Pittore. Ecco quanto ricordiamo, in complesso, da tali fonti
[..] Stare all’aperto senza berretto non gli è permesso; al coperto può farlo,
da non molto tempo, per decisione dei pontefici, come testimonia Masurio
Sabino; così come, si dice, alcuni altri obblighi gli sono stati condonati e
gli si è fatto grazia di certuni riti [..] Non può togliersi la sottoveste se
non in luoghi coperti, per non essere nudo sotto il cielo, che sarebbe come
dire sotto gli occhi di Giove [..] Alle medesime pratiche rituali è tenuta in
linea di massima la moglie del flamine diale; ma dicono che essa ne osservi
anche per conto suo [..] E queste sono le parole di Marco Varrone sul flamine
diale, dal secondo libro delle Antichità divine: «Egli solo porta il galero
bianco: o perché è il sacerdote più importante o perché il galero dev’essere
confezionato con una vittima bianca sacrificata a Giove».”
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