Le divinità degli antenati nel Culto Romano

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Il culto per i morti è -nelle scienze umane- tra i più interessanti essendo il più antico e quello che ci lascerebbe intravedere da dove si origina la cultura (e quindi la civiltà). È quel momento in cui -vedremo a breve quando- l’essere umano introduce nella propria natura delle azioni che lo renderanno differente dagli animali in modo inequivocabile. In altre parole ci aiuta a capire quando, esattamente, l’essere umano smette di essere un semplice animale per trasformarsi in qualcosa di più.
La più antica evidenza di un comportamento religioso pervenutaci dalle origini della cultura umana è quella delle sepolture con corredo, indice di una forma di «percezione di un “totalmente Altro”; ciò ha come conseguenza un’esperienza del sacro che a sua volta dà luogo a un comportamento sui generis[1].
Ovvero la necessità di compiere un’azione di rispetto nei confronti di un altro individuo, che da un punto di vista strettamente materialista non sarebbe necessaria, trasmette un messaggio simbolico che l’officiante del rito intende manifestare al di là di ogni bisogno materiale.

Va però notato che forme di devozione verso i defunti le troviamo anche in altri animali.
I c.d. “animali culturali” sono quegli animali che trasmettono l’esperienza adattiva non solo tramite i geni, ma anche attraverso la trasmissione delle esperienze apprese. Il meccanismo culturale è vincente dal punto di vista dell’adattamento in quanto permette di apprendere nozioni, e mutare certi comportamenti, in un tempo molto più breve rispetto all’evoluzione.
È interessante notare che tra questi animali sono presenti comportamenti rituali nei confronti del defunto apparentemente simili a quelli umani.  Gli elefanti, ad esempio, al momento della morte di un membro del branco coprono il defunto con rami, terra, e rimangono nei pressi del corpo anche 4-5 giorni, allontanandosi solo per mangiare e bere. Quando il branco ha necessità di spostarsi il luogo della sepoltura diventa tappa stabile degli spostamenti, andando così a riproporsi un modello rituale. Le scimmie, al momento della morte di un membro del branco, iniziano a cercarlo. I Gorilla utilizzano richiami che partono da un individuo, e poi si propagano a tutto il branco.
Un comportamento simile è stato riscontrato anche nei lupi, dove i familiari del defunto iniziano a ricercarlo attraversando anche svariati chilometri. Le ghiandaie occidentali quando si imbattono in un’altra ghiandaia morta interrompono la ricerca del cibo, e iniziano a volteggiare sull’area emettendo un forte stridio. A questo suono altre ghiandaie si avvicinano imitando la prima. Questo comportamento dura mezzora, poi per uno o due giorni nessuna ghiandaia frequenta più l’area.
I corvi, quando un loro vicino muore, gli si avvicinano iniziando a saltellargli intorno, dopo un po’ si allontanano uno ad uno per prendere fili d’erba e rametti lasciandoli sopra al corpo.

Il comportamento umano è naturalmente più complesso, e questo è chiaramente visibile dal materiale presente nelle sepolture detti i corredi funerari. Il corredo esprime una volontà di creare un simbolo, un significato. In vita una certa definizione di cultura ce l’abbiamo con la comparsa dei primi ornamenti (circa 110.000 anni fa)[2], che servono a sottolineare uno status, a decorare il portatore, e quindi identificano il singolo all’interno di un contesto sociale, ed egli si identifica e si preoccupa del suo apparire all’interno del gruppo (ragione per la quale si adorna di gioielli più o meno semplici). Questi ultimi si distinguono dai manufatti che hanno un fine pratico, come certi strumenti, e che sono ben più antichi (i primi strumenti compaiono 3,3milioni di anni fa, prima della comparsa del Sapiens)[3]. Quando la necessità di sottolineare uno status si afferma come modello culturale viene spontaneo, come forma di rispetto verso il defunto, di riportarlo anche nell’aldilà sottolineando la distinzione del defunto da altri individui del gruppo. Alla luce di queste considerazioni non stupirà sapere che le più antiche sepolture con corredo risalgono anch’esse a 100.000 anni fa[4]. Va tuttavia sottolineato che, in generale, l’origine della religione è ben più antica. Già nel paleolitico medio (300.000-40.000 anni fa) abbiamo sepolture con corredi composti da strumenti (ma non da elementi decorativi) oltre ad evidenze di forme embrionali di totemismo e di culti connessi agli animali.

Come si può vedere l’origine di forme di culto verso i morti è molto antica. Al momento della fondazione di Roma la venerazione verso i morti è ampiamente attestata con urnette funerarie a capanna, ed il culto verso i defunti tramite una serie di divinità che adesso andremo ad analizzare.

Nella Tradizione Romana le divinità familiari principali sono Lari e Mani, cui si aggiungono Lemuri e -sul piano domestico- i Penati. Queste divinità si inseriscono in un complesso organico di credenze che erano centrali nella pratica religiosa del Romano. Dalle dimore dei ricchi patrizi, alle insule dei poveri plebei, fino alle bucoliche ville, ovunque nel mondo romano troviamo edicole dedicate al culto degli antenati chiamate Larari. In queste edicole si compivano riti, offerte di incensi e si accendevano lucerne per onorare i defunti. Questi defunti tuttavia non erano tutti uguali, ma a seconda delle caratteristiche del caro estinto venivano incasellati in un particolare modello di divinità. Modello che spesso ritroviamo non solo nel Culto Privato (del quale ci occupiamo in questo breve scritto), ma anche in quello Pubblico. Ci accingiamo quindi ad analizzare questi modelli, le loro funzioni, le loro origini sia storiche che religiose. Tuttavia è necessario premettere che l’esatta definizione di queste divinità non è sempre facile, a causa dell’evoluzione del significato durante la storia romana e delle diverse interpretazione date dai vari autori, ma vediamo caso per caso.

I Lari

I Lari sono divinità propizie alla famiglia raffigurati come dei geni alati, abitano la casa ma possono esser trasportati altrove o abbandonarla. L’origine di queste divinità è quasi certamente etrusca, tuttavia l’unica notizia a riguardo proviene da Marziano Capella[5] che, a proposito della divisione del cielo etrusco, riferisce che occupano quattro regioni centrali: i Lari (regione 1), i Lari Militari (regione 2), i Lari Celesti (regione 4) e i Lari omnium cunctalis (regione 10), ma non abbiamo notizie di un culto privato del Lari in Etruria. Forse l’origine del culto privato del Lari romani va ricercato nella dea etrusca Lasa, uno “spirito” che compare in moltissimi specchi etruschi, sola o multipla, che ricopriva un ruolo di guardiana nell’ambito domestico, oltre ad altre differenze minori legate all’iconografia.[6] I Lari romani compaiono anche loro in una versione pubblica: Lares Compitales, Viales, Quadrivi, Vicorum, Permarini, Alites, Rurales, Militaris, Grundiles.

 A livello etimologico il termine Lares deriva dal latino arcaico Lases mutato a causa del rotacismo già riconosciuto in antichità[7], derivato a sua volta dall’indoeuropeo *las- che significa “bramare”, “desiderare”, “essere avido” (sans. Lasati “bramare”; gr. λιλαίομαι “bramare”, “aver desiderato”; airl. lainn, “avido”, got. lustus, “lascivia”)[8] in riferimento al desiderio rivolto verso il Lare stesso[9].
Indubbiamente il culto dei Lari nasce in ambiente domestico per poi venir trasmesso a quello pubblico, come accadde per molte altre divinità al momento della formazione della Religione Romana, essendo il culto pubblico nato dall’unione dei culti privati delle prime gentes.
Cicerone riferisce l’importanza del culto dei Lari a livello domestico: «Nè deve essere rifiutato quel culto dei Lari, posto in vista del fondo o della casa di campagna, che è stato dagli antenati tramandato così per i padroni come per i servi. L’ osservare poi i riti della famiglia e dei maggiori significa custodire la religione, quasi che fosse tramandata dagli Dèi (poiché l’antichità è quella che più si avvicina agli Dèi).»[10]

La più antica attestazione del culto dei Lari si trova nel canto dei fratelli Arvali, che riportano “enos lases iuvate” (Lari aiutateci), un canto apotropaico finalizzato alla difesa dei campi. Abbiamo già detto che il termine Lases si è evoluto in Lares. In questa evoluzione linguistica intravediamo un apporto etrusco alla religiosità romana. Tra i numerosi specchi rinvenuti in contesto etrusco compaiono dei Geni alati riportanti il nome di Lase. Inoltre Larnϴ è l’equivalente etrusco del latino Larundo paragonabile alla romana Larunda o Lara madre dei Lari, identificata anche con Acca Larentia (venerata alla festa dei Larentalia del 23 Dicembre). Tuttavia la complessità del culto dei Lari in Roma non può essere ridotta ad una semplice importazione dal mondo etrusco, ritengo quindi più probabile l’esistenza di un substrato italico comune.

Cerchiamo adesso di meglio comprendere la natura dei Lari. Arnobio[11] riferendo l’opinione di Varrone, definisce i Lari come delle specie di Genii e anime di persone defunte, infatti la madre dei Lari è soprannominata Mania (come i Mani sono gli spiriti dei defunti dei quali tratteremo a breve).
A legare i Lari ai defunti è anche Festo[12] precisando anche ai Compitalia, per risparmiare i vivi dai Lari (residuo di un sacrificio umano)[13], si appendevano fantocci di lana a rappresentazione degli abitanti della casa. Apuleio[14] dichiara che i Lari Familiari sono gli spiriti dei defunti che sono morti serenamente e perciò divengono positivi per la famiglia. Marziano Capella[15] riferisce che le anime degli uomini virtuosi diventano Geni tutelari della casa e che sono chiamati Lases o Lares.
Sebbene quindi i Lari si configurino come divinità benevoli, apparentemente non infere, la tradizione ci riporta che Lara, la Madre dei Lari dall’aspetto infero, al tempo di Tarquinio il Superbo riceveva dei fanciulli in sacrificio per il benessere della famiglia[16]. Una storia simile è narrata da Festo[17] che riporta l’uso di appendere delle bambole di lana agli incroci durante la festa dei Compitalia affinché i Lari lasciassero in pace le anime degli uomini: trattasi evidentemente di un sacrificio sostitutivo.[18] Va anche detto che ai Lari si offriva un porco in caso di incubi, o di apparizioni di antenati morti.[19] Tutte queste informazioni tramandateci ci aiutano ad identificare la natura infera ma benevola dei Lari, ma non la loro origine. A tal proposito Servio[20] ci informa che in origine i defunti venissero seppelliti dentro all’abitazione. Questa notizia ci viene confermata tanto dai resti archeologici (sia per l’ambiente domestico che per l’interno dell’abitato)[21], quanto dalle leggi delle XII tavole che ne vietarono la pratica spostando le sepolture all’esterno dell’abitato. Il fatto poi che i Lari venissero venerati anche in campagna presso i crocicchi è forse legato ad un’antica presenza di tombe, tanto che il termine lar veniva usato anche come titolo onorifico di “potente”.[22] Perciò all’origine del culto dei Lari vi è un riconoscimento di un defunto potente, il cui “spirito” è sopravvissuto e persiste all’interno della casa. Questo aspetto di potenza è visibile anche nel mito della nascita di Servio Tullio, la cui madre venne resa pregna da un pene uscito dal focolare domestico, che era proprio il Lare. I Lari infatti si occupano di progredire la specie, di difendere il nome ed il tetto, e portano avanti la gens. Il Lare è anche quella divinità che dice “Ego Lar sum familiaris ex hac familia / unde exeuntem me aspexistis. Hanc domum / Iam multos annos est cum possiedo et colo / Patri auoque iam huius qui nunc hic habet”[23], che domina, possiede e cura la casa, perciò ne garantisce la sicurezza, favorisce la prosperità e la felicità dei suoi abitanti. Essendo il lare immortale, come ogni divinità, ed occupando in forma divina il ruolo del Pater Familias (proprietario della casa), risulta un eterno possessore dell’abitazione, che osserva come le generazioni si susseguono nella sua domus. In questo ruolo, che assume anche un carattere affettivo, il Lare è partecipe di tutte le vicende della famiglia, si trova quindi a curare e a proteggere tutti gli abitanti della casa (compresi gli schiavi).[24]

I Mani[25]

 Manes è il termine che più spesso compare nelle fonti per indicare i familiari defunti. Il termine Manes veniva interpretato dagli eruditi romani come “gli Dèi buoni” per via dei termini manus (bravo/buono) e del suo contrario immanis (mostruoso/cattivo). Il termine deriva forse dalla radice indoeuropea *men- “avere in mente, ricordare” (come ved. mantra “consiglio orazione, inno” e manyati “onorare, rispettare”) da cui deriva anche il termine latino manĭa, “follia”. Un secondo significato della radice indoeuropea di *men- è anche “rimanere, aspettare” dal quale deriva il verbo latino maneō, “rimanere, restare”. Da queste due radici si può concludere che etimologicamente i manes sono il ricordo, ciò che rimane del defunto.
Mani è un termine che ha preso sempre maggior piede in età Imperiale, ma la cui vetustità è attestata dalle fonti stesse, e che tuttavia concorre per anzianità al termine divi parentes citata dalle fonti scritte[26]. Il termine Mani compare sempre al plurale, anche quando si tratta di un solo individuo. Sugli altari dedicati ad un defunto (non necessariamente importante) compare la dicitura diis manibus[27] (agli Dèi Mani) spesso accompagnato dal nome del defunto. A volte Manes era utilizzato anche per indicare generalmente i morti, che -in questo caso- possono avere anche una funzione pubblica, è questo il caso del rito della devotio di Decio Mure durante la quale vengono invocati insieme ad altre divinità[28].

I Lemuri

I Mani compaiono anche nel rito che Ovidio[29] cita in merito alla festa dei Lemuria[30]. Secondo l’autore di età augustea il nome della festa deriverebbe da Remoria, festa introdotta da Romolo per placare il “fantasma” di Remo che lo perseguitava. In quest’occasione il paterfamilias memore dell’antico rito, a mezzanotte si sarebbe dovuto alzare dal letto e compiere diverse azioni rituali, il rito terminava dichiarando a voce alta “Manes exite paterni!”. Questa formula rituale ha generato un po’ di confusione tra gli storici delle religioni poiché i Lemuria dovrebbero, ed in effetti sono, sacri ai Lemures che sono un’altra categoria di divinità dei defunti. I Lemuri sono i morti anzitempo e per questo motivo risultano essere terribili[31]. È ora necessario confrontare i Lemuria con un’altra festa dei morti, quella dei Parentalia (festeggiati a Febbraio) sacri ai Mani o ai diis Parentes. Entrambe sono feste dei morti, ma quella dei Parentali è una festa che rispetta l’ordine naturale delle cose, infatti sono i vivi che vanno a trovare i morti presso le loro tombe, invece ai Lemuria sono i morti che vanno a trovare i vivi compiendo un’azione “empia” e perciò vanno scacciati. Per altro nel rito dei Lemuria è uso fare il gesto della “mano fica” finalizzato ad impedire ai Lemuri di pararsi davanti all’officiante, evitando che quest’ombra gli appaia facendolo impazzire, tanto che è prescritto di non voltarsi per tutta la durata del rito. Mi sembra quindi evidente che Ovidio confonde la figura del Mane e quella del Lemure. Se i Manes sono quindi i morti “generici”, i Lemuri sono i morti prematuri che per questo motivo tendono a perseguitare i vivi.

Le Larve

Un prima proposta di definizione di larva ci viene data da Apuleio <l’anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, Lemuri o Larve se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione>[32], pur permettendoci di incasellare genericamente il concetto di Larva, non ci permette di definirlo bene. Le Larve erano rappresentate come vegliardi di severo volto, con barba lunga, capelli corti, e che portavano sulla mano un gufo, augello di cattivo augurio[33], poiché erano coloro che morivano di morte violenta (come riportato da Svetonio in merito alle apparizioni del defunto Caligola). Perché si specifica che le Larve si generano a seguito di una morte violenta? Per via della natura stessa di quella morte: l’impreparazione e presumibilmente la paura. Perciò possiamo ipotizzare che le Larve siano una “solidificazione” di una espressione emotiva fortissima legata alla morte violenta (o più in generale ad una morte non accettata), tanto da generare questa specie di “fantasma” che perseguita i luoghi in ogni momento, al contrario dei Lemuri che come abbiamo visto appaiono solo ai Lemuria.
Di particolare interesse, che forse ci può essere utile per meglio identificare le Larvae è un’annotazione medica antica. Le Larve potevano penetrare all’interno degli uomini facendoli diventare dei larvati degli ossessionati (larvatus ovvero colui che è sotto una larva, il larvato, significa ossesso o stregato)[34], in un certo senso dei posseduti, che si comportano come pazzi furiosi. Tuttavia non è facile da diagnosticare poiché ha sintomi molto simili al cerritus (il posseduto da Cerere) e dal lymphatus (il posseduto dalle ninfe)[35].


Gli Dèi Parenti

I Diis Parentes dei quali abbiamo accennato nel paragrafo sui Mani si notano subito per il fatto che compaiono sempre con la dicitura divi, esempi ne troviamo nella tarda repubblica ed in quella imperiale, ad esempio il Divo Giulio, il Divo Augusto. Perciò indica la divinizzazione dei parentes (i genitori), cosa che evidentemente non riguarda i Mani o i Lemuri, che devono appartenere ad un “piano più basso” dell’esistenza posto tra quello della materia e quello divino. Anch’essi compaiono sempre al plurale, ma a differenza dei Mani viene messo maggiormente in evidenza l’aspetto parentale, degli antenati. La differenza è semplice oltre alla natura divina: se tutti i morti sono Mani, non tutti i Mani sono parenti (parentes). Per loro vi era la festa dei Parentalia[36] dal 13 al 21 Febbraio, durante la quale i vivi andavano a trovare le tombe degli antenati defunti. Il termine parentare si riferisce più precisamente a due azioni rituali: quella dei Parentalia compiuta dai pii romani, e quella che il Flamine di Quirino compiva sulla tomba di Acca Larenzia il 23/12 come sacrificio. La parentatio del Flamine di Quirino (cioè del Romolo divinizzato) presso la tomba di Acca Larenzia si lega ad un vincolo di parentela, in quanto lei è madre adottiva di Romolo. Ma questo vincolo viene a riproporsi con le Vestali durante i Parentalia, essendo che esse sono sotto la tutela del Pontefice Massimo, cioè colui che ha come sede ufficiale la Reggia, e quindi possiede simbolicamente un’eredità regale (solo simbolicamente perché il vero “re” è il Rex Sacrorum), cioè direttamente da Romolo. Una nota di colore ci viene fornita sempre dalle fonti[37] che ci narrano che nel periodo di scontro tra gli Ordini accadde che ci si dimenticò di questa festa. Ma i fantasmi degli avi apparvero, con ululati tremendi per le stradi, e morti improvvise, perciò si accorse ai tumuli degli per placarli. E così cessarono questi prodigi. Perciò anche gli Dèi Parenti possono divenire terribili se non onorati. L’ultimo giorno della festa era chiamato Feralia, durante la quale una vecchia circondata di fanciulle sacrificava una capra a Tacita Mater Larum. Per tutto il resto della festività è vietato sposarsi e compiere sacrifici[38] se non un semplice banchetto preparato per i Parentes. La festa si conclude definitivamente il 22 Febbraio, con la Caristia, nota anche come cara cognatio, durante la quale ci si incontrava tra parenti per festeggiare coloro i quali erano ancora in vita.

La presenza di Tacita Mater Larum e il rito pubblico presso la tomba di Acca Larenzia di dicembre alimentano il rischio di identificare i Lari e gli Dèi Parenti con la medesima entità. Infatti perché sacrificare alla madre dei Lari nel periodo delle feste degli Dèi Parenti? E perché chiamare il rito per Acca Larenzia fatto durante i Larentalia (festa dei Lari), con lo stesso nome dell’azione parentale che i cittadini compiono ai Parentalia? E ancora: altri nomi di Acca Larenzia sono Lala o Lara (o Larunda) termini che richiamano i Lari, oppure Mania o Muta richiamando i Mani ed i defunti (i muti, i silenziosi). Potremmo quindi dire che, nella visione mitica e religiosa romana, Acca Larenzia non è solo la madre di Romolo e Remo, ma la madre di tutte le divinità dei defunti, a prescindere dalla loro bontà. Tuttavia ella non è madre biologica di Romolo e Remo ma madre adottiva, che li cura, li cresce e se ne occupa; possiamo immaginare che questo modello si possa spostare anche sulla figura degli altri defunti. Perciò “Acca Larentia Tacita Mater Larum Muta Lala Lara Larunda” sia madre adottiva di tutti i defunti, accogliendoli e curandoli nell’aldilà, configurandosi quindi come una divinità infera che non si cura del destino che spetta ai vari morti, buoni o cattivi che siano stati in vita[39], ma comunemente se ne occupa come fece con i Lari di Roma: Romolo e Remo[40].
A mio modesto parere la questione potrebbe risolversi considerando i Diis Parentes non come un’entità vera e propria, ma come un termine ombrello che indichi tutte le divinità familiari legate ai defunti, compresi quei Mani di parenti più o meno lontani.

I Penati

Insieme ai Lari sono sempre presenti, nel culto domestico, anche i Penati. Il termine Penates deriva da penus[41] che è la dispensa, il luogo dove si conservano le provviste; la radice *pen-, “dar da mangiare” (gr. πάνια “cibo saziante”; lit. (e) penéti “nutrire”) si collega anche ai termini latini penes “nelle mani di”, penitus “interno, profondo” e penetro “mettere dentro” che vanno a collegarsi ancora col luogo più intimo della casa, quello più interno e sicuro: il penus (dispensa).
Il suffisso -ates veniva utilizzato per evidenziare l’appartenenza, la provenienza o per formare il gruppo etnico. Perciò, dal punto di vista etimologico, i Penati sono quelle divinità che provengono dalla dispensa. I Penati compaiono sempre al plurale, e mai al singolare (come invece accade per i Lari), indice che si tratta sempre e comunque di una pluralità che purtroppo è impossibile da determinare numericamente. Servio li definisce come omnes dii qui domi coluntur[42] (tutti gli Dèi che vengono venerati nella casa), questa concezione diluita (a seguito dell’influenza greca ed orientale)[43] ha determinato che alcune divinità del Culto Pubblico ottenessero la qualità speciale di “penates” su iniziativa del paterfamilias. A parte le fonti scritte[44] abbiamo anche i larari di Pompei dove raffigurazioni di divinità maggiori compaiono nel culto domestico come “penati” (secondo l’accezione Serviana)[45]. In origine il termine Penates doveva essere specifico di alcune divinità, ma col passare dei secoli e la dissoluzione dell’identità romano/italica divenne un termine generico.
Abbiamo detto che il compito dei Penati era quello di proteggere la famiglia come estensione concettuale della dispensa, ma alcuni autori hanno proposto una seconda interpretazione. A. De Marchi, e più recentemente D. Orr, propongono che i Penati non proteggessero il cibo in sé (compito assegnato ad altri Dèi), quanto il luogo nel quale sono conservate.
Al contrario dei Lari, i Penati proteggono solo gli uomini liberi (e non gli schiavi), perciò si occupano -in sostanza- soltanto il paterfamilias ed i suoi familiari, gli schiavi possono -al massimo- compiere riti supportando il paterfamilias come accade nei riti pubblici.

Il Genio

L’etimologia risulta difficile fin dall’antichità, e sembrerebbe derivare da gen- oppure gig- ricollegabili rispettivamente ai verbi geno e gigno, entrambi dal significato di “generare”. La radice indoeuropea *ģenH, da cui deriva Genius conferma il verbo latino nel significato di “procreare”, “generare”, “far nascere”, da cui infatti derivano anche numerosi termini parentali o legati alla nascita: geno (generare), genus (nascita), genitor (genitore), genitalis (genitale), genimen (progenie), naturalmente anche Genius e altri[46]. Il problema nasce dal fatto che non è chiaro se è utilizzato col significato di “colui che genera” oppure “colui che viene generato”.
Varrone, citato da Agostino[47] ritiene che il significato sia attivo, perciò è il potere generatore di tutte le cose: deus est qui praepositus est ac vim habet omnium rerum gignendarum (è il dio che sovraintende e ha il potere della generazione di tutte le cose). Al contrario Censorio[48] lo definisce come il dio che ha sotto tutela chiunque sia nato e viene generato. Wissowa, Ernout e Meillet condividono la prima posizione che vede il Genius come generatore, anche perché è tipicamente maschile a confronto della Iuna che invece è tipicamente femminile[49].
Nei larari i Geni vengono rappresentati come serpenti, e in alcune sepolture compaiono anche come serpenti alati. Il serpente è un animale dall’ampio significato: è generatore, ma anche saggio e sapiente, è un animale ctonio ma legato a divinità sùpere, e a seconda del contesto assume variamente un significato positivo o negativo.
Il Genio tuttavia esiste anche come divinità del luogo, il Genius Loci, e in alcune epigrafi compare anche il Genio di una divinità[50], come se uomini, luoghi e Dèi avessero ognuno un proprio dio “generatore”. La questione risulta davvero complessa, soprattutto per quel che concerne gli Dèi, in quanto questo concetto di Genio andrebbe a confondersi con quello di Numen.
Il Genio riguardava tutto, abbiamo epigrafi che ricordano il Genio di una Decuria, di una Centuria o di una Legione, di una classe di lavoratori, di una colonia, di una Curia, un municipio, ma anche il Genio del Popolo Romano, il Genio del Senato e quello dell’ordine Equestre. In ogni caso a livello domestico il culto del Genio che contava maggiormente era quello del paterfamilias.

 

Conclusioni
Il panorama delle divinità familiari nel mondo romano è ampio e confuso. Ogni aspetto della vita del romano prevedeva una divinità, e questo si riflette anche nella venerazione degli antenati.
Talune divinità si riferiscono a singoli individui, in alcuni casi positivi per la famiglia, in altri negativi, in altri ancora neutri. Talune entità non sono propriamente divine, pur appartenendo al piano dell’immateriale, e vengono scacciate con rituali che vanno a ripetersi annualmente, oppure in caso di sintomi come si fa con una malattia. Altri non sono connessi a nessun individuo in particolare, ma sono semplicemente divinità connesse alla famiglia: solido fulcro e chiave di volta della società Romana.
Un’interessante considerazione ci viene data da Apuleio[51] (vissuto nel IIsec dc), che nella sua divisione ci dà alcuni indizi sulla costituzione dell’essere umano. Per Apuleio il Genio è il daimon personale, cioè la parte più propriamente divina, infatti dichiara che trattasi dell’anima però immortale. Questo particolare dell’immortalità viene meglio spiegata poco dopo, quando dice che l’anima vera e propria (quindi quella mortale) è il Lemure che, se si è comportato bene, ha il compito di vegliare sui discendenti e chiamasi Lare. Se invece il defunto si è comportato male nella sua vita ed ha compito dei misfatti, la sua anima è condannata a vagare senza dimora ed errare in balìa del caso, come in esilio, vano spauracchio per gli uomini buoni ma flagello per i malvagi. Sembra di vedere in questo destino una sorta di fine riconciliatore, come se i misfatti compiuti in terra si debbano espiare perseguitando altri malvagi; mentre più felice destino è quello non di danneggiare i malvagi (nei quali si sarebbe costretti ad essere immersi in una lotta continua), bensì a curare ed aiutare i familiari ancora in vita, garantendosi un posto nel luogo più felice della casa (il Larario) ed divenendo eternamente oggetto di offerte, sacrifici e venerazioni. Non per nulla i Lari vengono raffigurati sempre danzanti!

Tuttavia ogni tentativo di schematizzazione, o definire con valore assoluto le divinità familiari della Religione Romana è impossibile, se non con inutili semplificazioni del tipo “divinità buon”cattiva”. E qualunque definizione troverebbe sempre una fonte in contraddizione, anche per l’evoluzione del significato che hanno avuto le varie divinità negli oltre mille anni di storia religiosa romana.
Certo non aspiravamo a risolvere in queste poche pagine un problema che occupa le scienze umane da secoli, tuttavia speriamo di aver dato un quadro d’insieme utile ai nostri lettori proponendo una visione organica delle divinità venerate nel contesto familiare, e ripromettendoci di approfondirle singolarmente in futuro.

 

Emanuele Viotti

 

NOTE:

[1] Julien Ries. “Le origini, le religioni”. Milano, Jaca Book, 1992

[2] Nick Barton e Abdeljalil Bouzouggar, 2009

[3] Chris Lepre e Sonia Harmand, 2012

[4] Uniquely Human: The Evolution of Speech, Thought, and Selfless Behavior

Di Philip Lieberman

[5] De nuptiis Mercurii et Philologiae I,45-61

[6] ThesCRA, VIII, pag 27

[7] Varr., de l. lat., VI, 1,2; Quint. Inst. I, 4,13

[8] G. Tokarski, “Dizionario indoeuropeo della lingua latina”, LAS – Roma, 2016

[9] Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, F. Bonomi

[10] Cicerone, de leg. II, 11

[11] In Arnobio, III,41

[12] Festo, Pilae e Lanae Effigies

[13] Anche in Macrobio, Saturnalia, I,7,34

[14] De deo Socr. 15

[15] De nup. II,40

[16] Macr. Saturn, I, 7,34

[17] Lanae Effigies

[18] Altre esempi di sacrifici umani ai lari, ed i relativi sacrifici sostitutivi li abbiamo già trattati nell’articolo “I sacrifici umani in Roma antica” di E. Viotti, Ad Maiora Vertite, 2019

[19] Aen. V, 744, e a.

[20] Ad Aen, V, 64

[21] Per le sepolture infantili S. Modica, “Sepolture infantili nel Lazio protostorico”; per gli adulti A. Carandini, “la nascita di Roma”

[22] Silvano Lari agresti e il dio Medauro lar populi CIL VI.646-VIII. 2581, ma anche lo stesso Lars Porsenna

[23] Plauto, Aul., 2-5, “Io sono il Lare familiare di questa di questa casa da cui mi avete visto uscire. Questa casa, che da molti anni possiedo e abito, sin da quando ci vivevano il padre e l’avo dell’attuale padrone” libera traduzione dell’autore

[24] Cicerone, de leg. II,27 “Identica giustificazione hanno nelle campagne i boschi sacri. Né si deve ripudiare il culto tramandato dagli antenati tanto per i padroni quanto per i servi, quello dei Lari, la cui sede sta di fronte alla villa e al podere. Quindi osservare i riti della famiglia e degli antenati significa questo, conservare un culto quasi tramandato dagli stessi dèi, perché gli antichi vengono a trovarsi assai vicino agli Dèi.”

[25] Invitiamo a leggere sullo stesso argomento E. Righetto, “Gli Dèi Mani”, Ad Maiora Vertite, 2018

[26] La considerazione è di G. Dumezil, “La religione romana arcaica”, ed. BUR 2007, pag. 321, citando come fonte una lex regia riportata da Festo p.338 L².

[27] Spesso compare anche con gli acronimi D.M. o D.M.S. diis manibus sacrum

[28] E. Viotti, “La devotio di Decio Mure”, Ad Maiora Vertite, 2016

[29] Fasti, V, 450ss

[30] Questo rito è stato da noi approfondito in E.Viotti, “ Rito Romano XVIII: Lemuria 9-11-13 maggio”, Ad Maiora Vertite, 2019

[31] Pomponio Porfirione, ad Hor. Epist. 2, 2, 209.

[32] Citato in Agostino, Città di dio, IX,11

[33] Servius, Virg. Eneid. 5

[34] Plauto, Men. 890

[35] G. Dumezil, “La religione romana arcaica”, ed. BUR 2007, p. 323

[36] Per approfondire E. Viotti, “Parentalia 13-21 Febbraio”, Ad Maiora Vertite, 2019

[37] Ovidio, Fasti II,195 e Livio 2,48-50

[38] Lido, Mens. 4.29 e Ovidio, Fasti, II,533

[39] Vedi Conclusioni

[40] Remo prima divenuto Lemure persecutore e poi riconciliatosi con il fratello divenne Lare. R. Del Ponte, “E nos Lases iuuate. I Lari nel sistema spazio-temporale romano”, XII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Città ed Ecumene. I luoghi dell’universalismo, da Roma a Costantinopoli a Mosca», Roma, 2002

[41] Cic. Nat. II,68

[42] Aen. II,514

[43] ThesCRA, VIII, pag 35

[44] Ad es. Petr. Sat. 29

[45] Mercurio, Giove, Minerva, Venere, Fortuna, Vesta, Bacco, Arpocrate, Venere Pompeiana, Amor, Iside, Iside-Fortuna, Cerere, Diana, Sarnus, Vulcano, Apollo, Esculapio, Anubi, Nettuno, Luna, Luno, Marte, Vittoria, Giunone, Priapo, Pan, Hygieia, Persefone, Epona, Osiride, Serapide, Horus (G.K.Boyce), che come si vede sono divinità non solo romane ma anche greche, galliche ed egizie.

[46] Per la lista completa G. Tokarski, “Dizionario indoeuropeo della lingua latina”, LAS ROMA, 2016

[47] Civ. VII,13

[48] Cens. 3

[49] In molti articoli abbiamo più volte sottolineato che nella visione religiosa romana l’uomo possiede il potere generativo sul quale poi la donna fornisce la forma

[50] Es. Genius Numini Priapi in CIL XIV, 03565 (1), o il Genio Iovii CIL 06, 00255 (1)

[51] De Deo Socratis, XV

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