Il conflitto tra gli ordini e la gens Decia

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Atti della conferenza “Da Plebei a Patrizi, vite dei Deci” tenuta il 29/07/18 in occasione della rievocazione Sentinum: Battaglia delle Nazioni.

 

Lo scopo di questo testo vuole essere quello di addentrarsi nel conflitto tra Patrizi e Plebei, cercando di narrate in parallelo due storie: una è quella canonica di come si è evoluto lo Stato Romano a partire dalla cacciata dei Tarquini fino alla fine del conflitto tra Patrizi e Plebei; l’altra, il sorgere di una gens Plebea le sue lotte, il suo culmine, fino alla sua sparizione.
Siamo nei primi anni della Res Publica, fino al 509ac, Roma era governata da una monarchia, nata come elettiva e poi trasformatasi (con i Re Etruschi), in ereditaria. Cacciata la tirannide dell’ultimo Re di Roma, Tarquinio il Superbo, il popolo romano prese il potere, e riorganizzò il sistema di governo.
Il principio fondante di questa nuova organizzazione era un patto tra gli uomini e gli Dei che vietava il ritorno dei Re a Roma[1]. Inoltre la guida sarebbe andata a coloro i quali acquisivano dignitas, che derivava dalla ricchezza, dal valore militare e dal prestigio familiare [2] (e gentilizio). Tuttavia non ci volle molto prima che i Patrizi aggiungessero che la dignitas (questo prestigio citato) era un diritto ereditario, e pertanto soltanto loro potevano ricoprire la massima carica, che era il Consolato.
La differenza fondamentale con la monarchia era data dalla collegialità e l’annualità delle cariche:

– I Consoli erano due, sostituivano il Re in quasi tutte le questioni sacre e profane, inizialmente avevano il nome di praetores (coloro i quali marciano in testa all’esercito), avevano 12 littori che portavano un fascio di verghe con una scure tramite la quale effettuavano le sentenze emesse dai Consoli, inoltre potevano mobilitare due legioni di 3000 fanti e 300 cavalieri;
– I Questori, coadiuvavano i Consoli nell’esercizio della giustizia, e gestivano l’aerarium (il denaro pubblico);
– Il Magister Populi veniva nominato in situazioni di crisi, aveva un potere assoluto della durata di 6 mesi, e nominava un secondo in comando detto Magister Equitum. La carica prenderà poi il nome strettamente latino di Dictator;
– il Senato, che sostituiva il consiglio del re, composto da 300membri distinti in Patres e Conscripti, la cui composizione era scelta dai Consoli (come avveniva al tempo dei Re con il proprio consiglio), anche se per usanza venivano aggiunti gli ex magistrati, forti della loro esperienza;
– il Rex Sacrorum che assumeva le funzioni sacre del Re che non vennero raccolte dai Consoli.
I primi Consoli della Repubblica furono Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto, entrambi patrizi, che furono i due grandi protagonisti della rivolta antimonarchica.
I consoli venivano eletti dai comizi centuriati, cioè il popolo organizzato secondo centurie, cioè secondo ordine militare (infatti populus voleva dire anche “esercito”).

Poiché il Senato era impoverito a causa delle proscrizioni dei Tarquini, fin dal 509ac incluse anche persone dell’ordine equestre (gli Equites) nel totale dei 300 senatori distinguendo quindi i Patres (gli originari ed i loro eredi) dai Conscripti (quelli recentemente integrati, compresi plebei).
Tanto fu importante la nascita della Repubblica che i romani presero a contare il tempo da quel 509ac, utilizzando il nuovo sistema di datazione detto regibus exactis (dalla cacciata dei Re), utilizzando come enumerazione i nomi dei Consoli.

Lo scontro con i Tarquini continuò fino al 496ac (anno della morte di Sesto Tarquinio), e lì iniziò -secondo la tradizione- [3] l’oppressione dei plebei. Ed in effetti si trovano nomi di gentes plebee nella monarchia latino-sabina (Numa Pompilio), così anche le ricostruzioni annalistiche citano degli pseudo-patrizi anche nei primi anni del Consolato (509,504,503) [4], oltre ai già citati plebei al Senato [5]. Infatti il patriziato dopo una prima apertura alla plebe iniziò a compiere dei soprusi contro di essa, impedendogli di partecipare alla vita pubblica della Città, opprimendola con pratiche come la schiavitù per debiti (nexum), e tenendola all’oscuro delle procedure legali che in quel periodo erano orali ed appannaggio della classe dirigente (tramite i Pontefici).

Cosa significava tuttavia essere un Patrizio o un Plebeo in Roma?
I Patrizi erano i “veri romani”, cioè gli eredi di coloro i quali c’erano fin dal “primo giorno”, i Plebei invece erano i “secondi” coloro i quali erano arrivati dopo.
Questo già creava un divario nella mentalità romana dell’epoca la quale assumeva solo in parte le stesse caratteristiche della città stato. In Roma infatti esistono due metri di valutazione di una persona sul piano dei diritti e dei doveri:
– l’origine, e quindi se la familia era Patrizia o Plebea;
– il censo, cioè la ricchezza

Sulla questione del patriziato, formalmente le fonti ci dicono che non era possibile diventare, da plebei, patrizi. Tuttavia la comparsa di alcune famiglie patrizie prima inesistenti, o la trasformazione di notabili stranieri in patrizi, ci fa intendere il contrario.
La questione della ricchezza era un concetto molto vicino alla città-stato: più sei ricco e più hai interessi nella tutela della città, pertanto più alta è la tua classe, più sei tenuto a spendere per l’armamento ed in uomini da mandare a combattere, e più ottieni diritti politici.

Da un lato quindi abbiamo famiglie plebee che riescono a toccare le vette della magistratura romana scalando attraverso il proprio prestigio familiare e la propria ricchezza (per esempio i Valerii ed i Claudii), ed altre che invece rimaste povere finiscono per diventare clientes di altri plebei o di patrizi per ottenere la loro protezione, ma tuttavia assumendone il nome gentilizio (e quindi diventando parte di quella stessa famiglia allargata). Insieme a questo avveniva anche il contrario, famiglie Patrizie che pur avendo avuto tutti gli onori, decadono fino a scomparire, ed in alcuni casi a ridursi a plebee (es. gli Atilii). Addirittura si trovano Gentes i cui rami familiari sono in parte plebei ed in parte patrizi.

Per familia si intendeva l’insieme della proprietà del Pater Familias, compresi oggetti e animali oltre ai figli anche adottivi, la moglie, gli schiavi, i liberti, ed i clientes. Quindi diventare clientes di qualcun altro significava perdere in buona parte la propria autonomia (pur non essendo un limite coercitivo, i diritti civili esistevano anche all’epoca), ma poteva servire -ad esempio- a contrattare un pezzo di terreno pubblico, ottenuto in possessio precaria dallo Stato dal proprio patronus, da poter lavorare.

Poco dopo la fondazione della Repubblica tuttavia essa venne assediata dal Re Etrusco Porsenna (508/07ac), il quale tuttavia lasciò a Roma la propria nuova amministrazione, e di questo il Senato gli fu tanto grato da porvi una statua nel Foro. Le fonti appaiono discordanti nel dire se i romani continuarono a combattere dalla parte di Porsenna o se gli venne impedito di utilizzare il ferro se non in agricoltura [6]. Tuttavia il Re etrusco venne sconfitto ad Aricia (507/06) grazie all’intervento dei Greci di Cuma, presso i quali si era rifugiato Sesto Tarquinio.
Proseguirono le ostilità da parte di Roma contro i Latini, essendo in buoni rapporti con Porsenna l’una, ed alleati dei Tarquini gli altri. Il culmine delle ostilità si raggiunse con la battaglia del Lago Regillo (496).
Il primo Decio del quale abbiamo notizia è Marco Decio, il quale partecipò alla prima secessione della Plebe del 494ac.
Approfittando delle numerose guerre e della giovane repubblica infatti i Patrizi assunsero su di sé numerose cariche in modo esclusivo: dalle magistrature, ai sacerdozi, fino al Senato. Inoltre opprimevano la plebe facendo largo uso del nexum, ovvero della schiavitù per debiti, tramite la quale un debitore insolvente veniva incatenato, costretto a lavorare fin quando veniva estinto il debito, inoltre il creditore poteva anche ucciderlo.
Molto spesso questo portava ad uno stato di schiavitù perpetua, ed è probabile che molte persone vi finirono a causa delle lunghe guerre e dell’impossibilità di occuparsi della vita civile. Infatti se la guerra all’epoca poteva essere grande occasione per ottenere dignitas ma anche ricchezza materiale, d’altro canto portava via tempo al raccolto.

Tutte queste cose insieme ebbero l’immediata reazione della plebe, che era per altro a maggioranza latina (popolo contro il quale si combatteva all’epoca), si rifiutò -non a caso- di radunarsi con l’esercito quando i Consoli lo ordinarono. L’atmosfera generale dava ai plebei il sentore di essere più al sicuro in guerra che tra i loro concittadini. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando un anziano sfuggito al Patrizio che lo aveva in pegno per il nexum, corso giù nel Foro, coperto di luridi cenci, il corpo pallido e magro, barba e capelli lunghi che pareva un selvaggio; il popolo lo riconobbe, era stato un comandante dell’esercito, ed in mezzo alla commiserazione vantava i suoi decori militari. Egli, in quello stato, mostrava sul petto le cicatrici testimoni di tante battaglie, e a quanti gli chiedevano di come accadde che fu così ridotto, egli rispose che durante la guerra gli avevano bruciato il campo e la fattoria, così trasse debito, e con gli interessi gli vennero portati via prima i beni, poi il campo paterno, ed in fine gli fu sequestrato anche il corpo.[7]
(non so se questa narrazione vi ricorda qualche evento della contemporaneità).

Allora la folla, sempre più ingranditasi, si avviò verso la Curia, minacciando i Consoli ed ogni patrizio che incontravano, volendo la riunione del Senato e rendendosi essi stessi ispiratori dell’assemblea. I Consoli riunirono il Senato, con quei pochi che vi andarono, ma non si riuscì a trovare un accordo. In quel momento giunse un cavaliere che annunciava l’arrivo dei Volsci in armi. A questo annuncio i Plebei inneggiarono alla vendetta divina (deos ultores) contro la superbia dei patrizi! Quindi decisero di non radunarsi con l’esercito, e di lasciare i patrizi a difendere la città, essendo che erano loro a trarre maggiori vantaggi dalla guerra.
Il Console Publio Servilio (collega di Appio Claudio) venne dunque mandato a parlamentare con la plebe, promulgando immediatamente un editto che vietava di tenere incatenato o richiuso un cittadino romano impedendogli di arruolarsi , né impossessarsi dei beni di un soldato, o trattenere i suoi figli o nipoti, così una gran parte dei plebei si arruolò immediatamente. Vinte tali guerre l’altro Console, Appio Claudio, non solo non mantenne la promessa di occuparsi della plebe, ma annullò gli editti del collega, il quale si pose in una condizione di neutralità innanzi agli appelli della plebe. Il Senato allora nel tentativo di mitigare le acque ordinò che il tempio che era necessario dedicare a Mercurio, così come l’indicazione di chi doveva fondare il Collegio dei Mercanti che sarebbe stato anche a capo dell’annona, ed avrebbe celebrato i sacri riti davanti al Pontefice,avrebbe dovuto deciderlo la plebe. Questa di tutta risposta nominò il Centurione Primopilo Marco Letorio di origine etrusca, un compito di molto superiore al suo ruolo [8] essendo che solo chi era dotato di imperium o i Consoli potevano farlo, per tradizione.
A questo punto si dovette arruolare nuovamente la plebe per via di una imminente guerra con i Sabini, ma nessuno si presentò. Quindi Appio Claudio, furioso, fece arrestare uno dei capi plebei, il quale si appellò al popolo, ma venne comunque giustiziato.
Dopo varie peripezie politiche, venne nominato Dittatore Manio Valerio, figlio di Voleso, e fratello di colui il quale volle la legge sul diritto di appello al popolo, motivo per il quale la plebe non lo temeva. Inoltre egli confermò le leggi di Servilio, e quindi la plebe si arruolò.
Vinta la guerra, Valerio portò in Senato una proposta in favore della Plebe, ma durante la guerra i creditori con i patrizi fecero accordi, e quindi la proposta venne rifiutata. Poiché la pace fuori era stata assicurata, e quella interna la si ostacolava, allora Valerio si dimise sdegnato perché gli veniva impedito di mantenere la parola data, e la plebe, comprendendo, lo accompagnò a casa con applausi e lodi. [9]
I Senatori, temendo che ricominciassero le sedizioni, non sciolsero l’esercito dal suo giuramento prestato ai Consoli, e con la scusa di una ipotetica ripresa delle ostilità, li mandò in armi fuori dalla città. La rivolta però si velocizzò, qualcuno propose di uccidere i Consoli in modo tale da sciogliere il giuramento, ma furono avvertiti che nessun delitto può sciogliere un vincolo sacro. [10]
Quindi per iniziativa di un certo Sicinio si ritirarono sul Monte Sacro.
Tra i plebei ivi radunati vi era anche il nostro Marco Decio.
Dopo diverse trattative, ed in fine la famosissima apologia delle “Membra e del Corpo” di Menenio Agrippa, si giunse ad un compromesso, vennero quindi inviati in delegazione Lucio Giunio Bruto, Marco Decio e Spurio Icilio a parlamentare con il Senato, ottenendo la creazione dei Tribuni della Plebe, e venne proposta una lex sacrata per dichiararli sacrosancti.
Inoltre venne fondato un tempio di Cerere, dea tipicamente plebea, sull’Aventino e gestito dai plebei stessi.

Questi eventi si conclusero il 10 Dicembre del 494 [11] (festa del Septimontium), e pochi mesi dopo si giunse ad un trattato di pace con i Latini grazie al Console plebeo Spurio Cassio ideatore del foedus Cassianum (493). Tale trattato permetteva, tra le varie, il diritto di sposarsi tra Latini e Romani, e quindi di fatto il matrimonio tra patrizi e plebei. L’importanza di questo trattato tuttavia non è secondaria, anzi, fu quello che permise a Roma (avendo una posizione egemone all’interno dell’alleanza) di tornare ad avere un potere non più visto dai tempi dei Tarquini.
Tuttavia la prima secessione della Plebe aveva causato una carestia poiché non era avvenuta la consueta mietitura dei campi. Per questo motivo nel 491 [12] , i Tribuni della Plebe, che erano Sicinnio Velluto ed il nostro Marco Decio si batterono per calmierare i prezzi del grano, subendo un’aspra opposizione da parte di Appio Claudio il quale criticò apertamente il Tribuno Decio [13]. Contro di loro si poneva apertamente anche Gneo Marcio Coriolano, patrizio appartenente alla gens dei Marci il quale si distinse per il valore in guerra e prese il soprannome a seguito della conquista di Corioli durante la guerra contro i Volsci del 493ac (quella ritardata dal rifiuto della plebe ad arruolarsi, essendo che si combatteva solo in estate). Possiamo ipotizzare che l’effetto negativo in ambito bellico della prima secessione della plebe sia diventato sufficiente ragione per Coriolano ad opporsi a calmierare i prezzi del grano. Gli scontri furono tanto aspri che prima il Tribuno della Plebe Marco Decio lo accusò in Senato di essersi appropriato dei beni presi ai cittadini di Anzio (anziché darli alla Res Publica) [14], poi il Tribuno della Plebe Sicinnio ordinò la messa a morte di Coriolano con l’accusa di essersi appropriato del tesoro di Corioli, tuttavia il tribunale scelse per lui l’esilio a vita.
Durante il suo esilio egli prese accordi con i Volsci, e con il loro comandante, Attio Rullio, e nel 488 portò la guerra contro Roma. Durante questa campagna egli saccheggiava soltanto le proprietà della plebe, alimentando lo scontro tra patrizi e plebei all’interno della città, che infatti non seppe reagire. Alla fine, quando si trovò a poche miglia da Roma, gli andò incontro la madre a pregarlo di non attaccare la città, e lì egli decise di sciogliere l’esercito.
La mamma è sempre la mamma.
Questa decisione portò Coriolano ad essere ucciso da una congiura mentre ad Anzio cercava di difendersi in tribunale. Si dice che a Roma in molti lo piansero.
Spurio Cassio, plebeo, ideatore del Foedus Cassianum, venne poi rieletto nel 486ac al consolato, e propose una lex agraria che prevedeva -probabilmente- l’applicazione di una vecchia legge di Servio Tullio, per la quale i Patrizi avevano un limite alle terre pubbliche (ager publicus) occupate, ed il resto invece andava diviso tra la plebe.
Infatti, a quel tempo, il concetto di “proprietà dello Stato” significava che era proprietà di tutti, e tutti potevano usufruirne, bastava farne richiesta e se ne otteneva l’uso. Ciò nonostante i patrizi, che si chiudevano sempre più all’interno di una casta, utilizzavano la forza per appropriarsi dei terreni pubblici.
La legge fu enormemente osteggiata con atti di ostruzione per impedire che venisse votata, proprio perché andava a toccare gli interessi del patriziato (e quindi del Senato). Inoltre l’argomentazione dei senatori fu che si dava terra anche ai cittadini nullafacenti ed agli Ernici (che erano entrati da poco nel Foedus), in quanto plebei. Venne quindi trovata una mediazione, e si propose ai comizi centuriati di votare per la distribuzione di terre solo ai cittadini romani. Tuttavia il giorno della votazione si presentarono un gran numero di Latini ed Ernici, e temendo per gli eventi si propose di nominare 10 senatori che valutassero quali terre erano pubbliche e quali no (appropriandosi di fatto di certi terreni), per poi darli in uso. Per quanto riguarda Latini ed Ernici si decise che da quel momento in poi i terreni conquistati dal Foedus sarebbero stati equamente divisi tra Romani, Latini ed Ernici.

Tuttavia la vendetta dei patrizi non si fece attendere, i Senatori scelti per tutte queste azioni vennero nominati ma avrebbero agito l’anno successivo, quando cioè Spurio Cassio fu accusato di aspirare a farsi Re. In sede di tribunale i patrizi argomentavano che egli compiva queste leggi per sottrarre terreno ai romani e donarlo agli Ernici (plebei, essendo che -a detta di Dionigi [15]- già gli venne concessa la cittadinanza) i quali lo avrebbero corrotto offrendogli denaro e chiedendone anche le armi. Il popolo solo a sentir la parola “monarchia” si adirò, e a nulla valsero le lacrime dei parenti di Cassio, perciò venne condannato a morte e precipitato dalla Rupe Tarpea (cosa che piacque talmente tanto da precipitarne molti altri). La sua casa venne inoltre rasa al suolo, ed al suo posto venne costruito un tempio a Tellus (o a Cerere) [16].

A seguito di questi eventi i plebei scompaiono completamente dai Fasti Consolari, è la definitiva presa del potere da parte del patriziato.

Per dare l’idea di quanto in quest’epoca il concetto di Stato “ideale” fosse ancora molto fragile rispetto ai giorni nostri, mentre era enormemente forte il concetto di comunità “reale” è importante citare un momento della Guerra contro Veio. Tale “guerra” fu nella realtà un susseguirsi di scontri e guerre durate oltre tre secoli (i primi scontro compaiono insieme alla nascita di Roma, fino al 396ac) a causa dei comuni interessi [17] per l’area delle saline alla foce del Tevere, ed il fiume stesso che era il confine con il territorio etrusco e la principale via commerciale dal Mar Tirreno all’entroterra del centro Italia. Nel Vsec una delle famiglie più influenti di Roma era certamente la gens  Fabia, i quali a partire dal 485ac con Quinto Fabio Vibulano riuscirono a monopolizzare il Consolato, questo grazie anche al fatto che (pur rendendosi partecipi dell’esclusione della Plebe dalle magistrature) avevano una politica abbastanza equa se non ammiccante verso i Plebei e per questo osteggiati dagli altri Patrizi.
Forse allo scopo di ottenere maggiormente il favore da un Patriziato ostile, o per difendere dei propri territori, la gens Fabia decise di assumersi davanti al Senato tutta la responsabilità della Guerra contro Veio, fornendo gli uomini ed il denaro, e lasciando così la Repubblica ad occuparsi delle proprie faccende e gestendo la cosa come una questione privata. E così, con grande favore da parte del Senato, nel 479ac si radunarono 300 Fabii (e probabilmente altri 4700 clienti), ed usciti dall’arcata destra della Porta Carmentale mossero verso il territorio di Veio, osannati da tutto il popolo.
Giunti nei pressi del fiume Cremera, vi stabilirono un accampamento, ed iniziarono a compiere scorrerie e piccoli scontri, e fecero tutto in autonomia fatto salvo per un breve intervento di Lucio Emilio. Il 13 luglio del 477, i veienti organizzarono un inganno per spingere i Fabii ad attaccarli, ma quelli erano in numero molto maggiore di loro, circondatili erano pronti a schiacciarli; tuttavia i Fabii messisi a cuneo riuscirono a penetrare l’accerchiamento, e si radunarono su una collina. Lì preso fiato ripresero il combattimento. Pur risultando vittoriosi (nonostante la pochezza del loro numero), i Veienti aggirarono la collina e ne occuparono la sommità da dove li presero alle spalle. Di tutta la gens Fabia uno solo di loro sopravvisse, Quinto Fabio Vibulano (figlio) che era troppo giovane per combattere.
Da quel giorno la Porta Carmentale venne rinominata Scelerata, ed il 13 luglio è considerato un giorno nefasto.
Sul piano archeologico troviamo, a Satricum, una dedica a Marte da parte di una sodalitas che faceva capo ad un tale Publio Valesio (Publicola o suo parente), che è stata interpretata come una formazione militare simile a quella dei Fabii [18].
A dimostrazione che era tanto forte il senso di “comunità” rispetto a quella di “Stato”, e la forza economica di queste gentes era tale che un privato poteva organizzarsi una guerra per conto proprio contro una città, senza bisogno dello Stato.

Il patriziato, dopo aver escluso i plebei dalle più alte magistrature, opprimeva nuovamente il popolo in quanto era l’unico detentore delle procedure legali. Infatti non esisteva a quel tempo una legge scritta, e quindi tutte le procedure, i giorni in cui non era possibile riunire i comizi o accedere al tribunale (nefasti) erano noti solo ai patrizi che le tramandavano.
Il Tribuno della Plebe Gaio Terenzio Arsa nel 462 avanzò la proposta di creazione di una commissione di cinque magistrati con potestà consolare col compito di redigere un codice di leggi scritte, uguale per tutti, in modo tale da limitare l’uso che i patrizi facevano dell’Imperium [19].
Inizialmente la proposta venne ritirata e rimandata fino al rientro dei Consoli (Roma era appena uscita da una guerra sanguinosa, ed una grave peste scongiurata solo grazie alle preghiere di tutto il popolo).
Quell’anno comparirono dei segni nefasti, un cielo rosso sangue dal quale caddero pezzi di carne presi al volo da numerosi uccelli, ed i pezzi caduti in terra non andarono in putrefazione. Questo venne interpretato, alla luce dei Libri Sibillini, come nefasto, e guerra, pertanto si invitava il popolo a non commettere sedizione.
Infatti corse voce che Ernici e Volsci si stavano riarmando avendo Anzio a capo delle operazioni.
I Tribuni accusarono i patrizi di voler usare la guerra come scusa per sottomettere il popolo, si diffamava la fede della colonia di Anzio, in modo tale da spingere la plebe fuori dalla città, sotto l’Imperium Consolare, per evitare che si accanisse per i propri diritti.
E tale convinzione era alimentata dal fatto che i vicini erano indeboliti dall’ultima guerra, e quindi non v’era nessun pericolo, ma soprattutto gli Dèi avevano provveduto l’anno precedente affinché si potesse difendere la libertà in tutta sicurezza. [20]
Così i Consoli radunarono l’esercito, ma quando i littori prendevano un cittadino i Tribuni si frapponevano impedendone l’arruolamento in virtù della forza di tutto il popolo dietro di loro.
Nello stesso modo si comportarono i Patrizi nel contrastare la legge che veniva ripresentata ogni giorno nei Comizi. Infatti quando il popolo si radunava per votare su ordine dei Tribuni, i giovani patrizi andavano e puntualmente vi scoppiava uno scontro, scacciando più volte i tribuni e la plebe dal foro stesso, e quindi impedendone la votazione. Tra questi vi era un giovane patrizio di nome Cesone Quinzio, il quale era particolarmente violento verso la plebe sia per la sua prestanza fisica, che per le sue lunghe esperienze belliche, e si perse un intero anno intorno al suo giudizio che si concluse con l’autoesilio, e la rovina economica del padre. Successivamente i compagni di Cesone s’infuriarono e ripresero lo scontro del loro amico con una veemenza mai avuta prima. E intanto quando i Tribuni non si occupavano della legge i patrizi si comportavano in modo pacifico con i plebei, accogliendoli a casa propria, e dimostrandosi cortesi. In questo modo si riuscì a rimandare la legge di un altro anno. Fu allora che i patrizi complottarono per eliminare i tribuni, e ristabilire il potere precedente alla Prima Secessione della Plebe, utilizzando i modi gentili per sobillare la plebe contro i Tribuni.
In mezzo a tale tumulto il sabino Appio Erdonio ed i suoi uomini occuparono di notte il Campidoglio e la Rocca, facendo strage di quanti non vollero prendere le armi con loro. Il giorno dopo invitò gli schiavi a ribellarsi in modo tale da portare loro la libertà e richiamare a Roma gli esuli. Se così non fosse stato, Appio avrebbe chiamato i Vosci e gli Equi ad invadere Roma. I Consoli non sapendo se armare o meno la plebe, ne armarono solo una parte.
Allora il Senato decise di far approvare la legge, in modo tale da assicurarsi la fedeltà della plebe contro il nemico interno ed il probabile nemico esterno. Ma il Tribuni non fecero radunare l’esercito. Allora li si minacciò che se non avessero preso le armi contro l’occupazione del Campidoglio, sarebbero stati considerati loro alleati, e come tali combattuti. Allora la plebe si ritirò per il momento nel Foro, e tuttavia si legò al giuramento al console come usava quando veniva armata. Nei giorni seguenti i patrizi con la plebe, insieme al supporto dell’esercito di Tuscolo, ripresero il Campidoglio, tuttavia vi morì uno dei Consoli. I Tribuni volevano che si mantenesse la promesse di discutere la legge, ma il Console volle che prima si eleggesse il suo collega. Venne eletto il padre di quel Cesone Quinzio mandato in esilio, il quale si rivolse contro i Tribuni che avevano impedito l’arruolamento dei plebei contro Appio Erdonio, mettendo a rischio la vita di tutti. I Tribuni tentarono d’impedire di radunare l’esercito, ma la plebe volle rispettare il giuramento fatto e non ancora sciolto. Si scoprì tuttavia che gli auguri stavano consacrando un luogo fuori da Roma dove poter tenere i comizi, ed il Console intendeva annullare ogni decisione presa dai Tribuni approfittando del fatto che fuori dal pomerium non c’era diritto di appellarsi al popolo, ed i Consoli avevano diritto di vita e di morte su chiunque.
Denunciata la cosa in Senato, questo ordinò ai Tribuni di non presentare quella legge di nomina della commissione per scrivere il testo di legge, e tuttavia ordinò ai Consoli di non far uscire l’esercito da Roma. A causa di questi eventi l’anno dopo si fece il censimento ma non il sacrificio lustrare, considerato di cattivo augurio per la presa del Campidoglio e della morte del Console.

Gli scontri proseguirono in questo modo, ho voluto porre un accenno sui primi anni per dare l’idea di cosa significava fare politica nella Roma del Vsec ac.

Nel 451 finalmente si riuscì ad ottenere la creazione di un decemvirato che possa trascrivere le leggi. Ebbe il potere assoluto, in carica per un anno, e scrisse le prime dieci tavole. L’anno seguente tornò in carica, stavolta composto anche da plebei.

L’unico che occupò tale seggio in entrambe le situazioni fu Appio Claudio.

Questo secondo anno fu una sorta di tirannide a danno della plebe, e produsse altre due tavole definite inique in quanto reistituivano la schiavitù per debiti, e vietavano il matrimonio tra patrizi e plebei (in contrasto con il Foedus Cassianum).
Tra gli atti ignobili dei Decemviri ricordiamo l’omicidio di Lucio Siccio, onorevole soldato che propagandava l’elezione dei tribuni della plebe contro i decemviri, ma la cosa venne a galla per dei cadaveri trovati intorno a lui, e quindi i decemviri si affrettarono a fargli il funerale di Stato nella speranza di placare la plebe. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il tentativo da parte di Appio Claudio di appropriarsi di una giovane plebea, Virginia, utilizzando un trucco di procedura per dichiararla schiava di un suo cliente. Il padre per salvarla da quel lussurioso destino la uccise, infiammando la plebe. Il Senato ordinò allora di adottare ogni mezzo per sedare la rivolta, mentre Appio Claudio scampò al linciaggio.

La plebe si ritirò sull’Aventino ed elesse i suoi Tribuni (449ac), è la Seconda secessione della Plebe. Resisi conto che il popolo, ancora in armi non avevano un capo decisero di dotarsi di un gruppo di dieci comandanti detti Tribuni Militari [21], carica che servirà nel periodo successivo a permettere di fatto ai plebei di accedere alla massima carica dello Stato. Insieme a questi dieci tribuni se ne aggiunsero altri dieci dell’esercito che era radunato in Sabinia, e che avute queste notizie si ribellò ai decemviri e si aggiunse agli altri plebei sull’Aventino. Nel totale di venti tribuni militari vennero eletti due comandanti supremi: Marco Oppio e Sesto Manlio.
A seguito di questi eventi i Plebei ottennero maggior forza, ed anzi troviamo che dal 444ac fino al 394ac saltuariamente un collegio di Tribuni Militari con Potestà Consolare governano Roma come alti magistrati (pur tuttavia avendo onori e poteri inferiori ai consoli, come per gli auspici). Sembra quasi che in questo periodo si volesse formare un nuova classe di plebei abili all’amministrazione.
In realtà le interpretazioni sono molte: le molte necessità belliche di Roma, il tentativo dei patrizi di aprire il senato ai plebei (tramite i conscripti), o addirittura di escluderli dal Consolato.
Nel 443 venne istituita la carica di Censore, che serviva a fare il censimento, a nominare i Senatori, alleviando i Consoli da molte incombenze amministrative.
Vi Seguì un periodo di relativa calma, durante il quale i plebei erosero il potere dei patrizi. Innanzi tutto nel 445 la Lex Canuleia de Conubio Patrum et Plebis annullò la legge delle XII Tavole che vietava il matrimonio tra patrizi e plebei.

Vi fu anche un ingenuo tentativo di colpo di stato da parte di un plebeo, Spurio Melio, che tentò di usare le proprie enormi ricchezze e demagogie farsi Re. Il tentativo fallì anche perché la Plebe non era assolutamente al corrente di quanto stava accadendo, e perciò il tutto rimase confinato nei palazzi, divenendo pubblico solo al momento della sua uccisione da parte del patrizio Gaio Servilio Strutto Ahala nel 439ac,

Compare nel 415ac il nostro Lucio Decio, il quale tentò di proporre uno spostamento di coloni nelle colonie di Bola e di Labico, che tuttavia venne impedito dai suoi stessi colleghi i quali posero il veto a meno che il Senato non fosse d’accordo. La sparizione di Lucio Decio dalle fonti fa intendere un suo sostanziale suicidio politico.

A cavallo tra il V e IVsec ac ricordiamo la guerra contro Veio, sanguinosa e terribile, che si concluse dopo una costosissima vittoria nel 396ac, seguita da una disastrosa sconfitta che portò alla conquista di Roma da parte dei Galli (390ac) e la sua successiva eroica liberazione da parte di Marco Furio Camillo.
Dal 391 a 367 i Tribuni Militari con potestà Consolare li troviamo al governo di Roma ininterrottamente.
Nel 377ac, ormai a Roma si posero sulla lama della spada tutte quelle cose a cui ambiscono con indomabile avidità gli esseri umani: le proprietà fondiarie, il denaro e le alte cariche. Così iniziò la campagna dei tribuni Licino Stolone e Sestio Laterano per far approvare tre leggi che affrontavano il problema dei debiti, limitavano l’occupazione dell’ager publicus, ed in fine ponevano l’accesso dei plebei al consolato.
Così dopo sempre maggiori ed aspri scontri i Tribuni decisero di impedire l’elezione dei Magistrati utilizzando il veto fin quando non fossero approvate queste leggi, bloccando così lo Stato Romano. Difficile da pensare che Roma fosse bloccata per cinque anni interi, ma certo doveva esser stato un atto di grande forza quello compiuto dai Tribuni.
Tanto è vero che nel 367 finalmente furono approvate le Leggi Licine-Sestie, permettendo che uno dei Consoli potesse essere Plebeo. Ed infatti da quel momento i Tribuni Militari con potestà Consolare scompaiono. Riportando la situazione dei Consoli a prima del 486ac.
Fu un susseguirsi di aperture verso la Plebe: nel 368ac i sacerdoti che si occupavano d’interpretare i Libri Sibillini furono portati a dieci, di cui metà plebei; nel 366ac gli edili curuli dovevano essere ad anni alterni patrizi e plebei; nel 356ac abbiamo il primo Dittatore plebeo; nel 351ac il primo Censore plebeo; nel 342ac si sancì che entrambi i Consoli potessero essere plebei, e lo stesso anno Furio Camillo consacrò un tempio alla dea Concordia per festeggiare di questo; nel 337ac i plebei furono ammessi alla pretura; e così a seguire tutte le altre cariche tranne l’Interrex.

Nel mentre che si susseguivano questi eventi tuttavia scoppiò la Prima Guerra Sannitica (343-341ac).
Qui entra in ballo il primo del ramo familiare Mus (topo) della gens Decia.
Prima ancora della carriera militare, Publio Decio Mure nel 352ac, venne nominato membro dei mensarii, un gruppo di quinquemviri banchieri che dovevano occuparsi di gestire il problema dei debiti che a Roma stava divenendo molto pesante, e che seppero gestire molto bene l’equilibrio tra patrizi e plebei [22].
Era Tribuno Militare nel 343, ed ottenne grande gloria per aver salvato dai Sanniti il Console Aulo Cornelio Cosso Arvina, per questo atto gli fu permesso di partecipare addirittura al Trionfo, e gli venne donata anche la più alta onorificenza dell’epoca: la Corona Gramigna, e per questo onore sacrificò a Marte un bue bianco e cento rossi [23]. Tali furono gli onori ottenuti in guerra che nel 340ac venne eletto Console.
Durante la guerra contro i Sanniti gli comparve in sogno suo padre, Quinto, a profetizzargli che sarebbe morto con grande gloria nel pieno della mischia [24], e infatti scoppiò la Guerra Latina (340-338ac), dove il Console plebeo compì il famoso rito della devotio, di cui abbiamo già trattato in altra sede.

Non strettamente connesso allo scontro tra gli ordini, ma comunque rilevante, fu il suggerimento da parte del Censore Appio Claudio alla gens Potizia, di cedere ai funzionari pubblici i loro sacri riti dell’Ara Maxima. Ricordiamo che fino al IVsec i culti ed i sacerdozi erano detenuti quasi esclusivamente dalle singole gens patrizie, questo episodio ci fa pensare che l’appropriazione da parte dello Stato Romano dei culti sia avvenuta in questo momento. Avvenne nel 312, quando cioè un altro Publio Decio Mure, figlio del console del 340, divenne console per la prima volta. Il fatto che lo Stato si appropriava di tali culti significava che i plebei potevano ormai accedervi. L’iniziativa non finì bene: i Potizi acconsentirono ma morirono tutti quello stesso anno, ed il Censore perse la vista, e da qui fu noto come Appio Claudio Cieco.

Nel 311 Marco Decio, tribuno della plebe, forse parente di quel Marco Decio tribuno del 491, riesce a far approvare una legge per la quale i duumviri che si occupavano dell’addestramento e del mantenimento della flotta, sarebbero stati di elezione popolare [25].

Dopo la sua prima esperienza consolare, e la vittoria sui Sanniti, il nostro Publio Decio Mure dedicò alla dea plebea Cerere il bottino di Guerra, nel 308ac fu rieletto Console, e combatté alacremente contro gli Etruschi, ottenendo grandi benefici per lo Stato romano (come il pagamento dello stipendium a tutto l’esercito).
Divenne Magister Equitum nel 306ac al seguito del Dittatore P. Cornelio Scipione Barbato.
Nel 304ac fu eletto Censore, e quell’anno era Edile un plebeo di nome Gneo Flavio, figlio di un liberto, il quale iniziò a divulgare il diritto civile che era custodito dai Pontefici, e fece pubblicare nel foro un albo con esposti i giorni fasti e nefasti (quando si poteva -per motivi religiosi- accedere ai tribunali e quando no), inoltre dedicò un tempio alla Concordia nel piazzale di Vulcano (un dio strettamente legato alla regalità), ed il popolo costrinse il Pontefice Cornelio Barbato a recitare la sacra formula per la consacrazione. Cosa del tutto insolita essendo che per tradizione solo i Consoli potevano fondare i Templi. Probabilmente questi eventi non ebbero ritorsioni patrizie a causa della presenza del plebeo Decio Mure alla censura.

Nel 300 i plebei ottennero l’accesso al Pontificato soprattutto grazie a Publio Decio Mure ed al suo discorso al Senato in aperto contrasto con quello di Appio Claudio Cieco. Per tali azioni venne eletto al Collegio Pontificale [27].

Nel 297ac Publio Decio Mure fu nuovamente eletto Console, e nel contesto della Terza Guerra Sannitica (298-290) si battè contro gli Apuli per impedire loro di unirsi all’esercito Sannita nei pressi di Maleventum. L’anno successivo venne esteso il suo potere come proconsole per permettergli di insistere col saccheggiare il Sannio, durante il quale conquistò molte altre città, e sconfisse insieme al collega un altro esercito Sannita.
Nel 295ac venne eletto Console per la quarta volta (era rimasto di fatto ininterrottamente in carica per tre anni consecutivi). Era la terza volta che egli si trovava come collega di Quinto Fabio Massimo, sempre trovatisi concordi sulla gestione della guerra, simbolo di una concordia assoluta tra Patrizi e Plebei. In questo caso, tuttavia, venivano pressati dai rispettivi partiti affinché il patrizio chiedesse di venir inviato in Etruria, mentre i plebei affinché ottenesse il sorteggio.
Alla fine si trovarono ad intervenire entrambi a Sentino, lì dove Publio Decio Mure, così come suo padre prima di lui, compì il rito della devotio, sacrificandosi per la vittoria dell’esercito romano [28].

Nel 287 abbiamo la Terza Secessione della Plebe, che portò alla conclusione inesorabile della parificazione del valore dei plebisciti con le leggi dei comizi centuriati, attraverso la Lex Hortensia.
L’ultimo del ramo Mure della gens Decia compare nel 277ac, combatté contro Pirro, ed anch’egli compì il rito della devotio come suo padre, e suo padre prima di lui, tuttavia la battaglia fu comunque persa, seppure ad un elevatissimo costo per il nemico. E fu in questa occasione che Pirro, re dell’Epiro, commentò dicendo <un’altra vittoria così e saremo rovinati>, era la Battaglia di Ascoli Satriano.

La nostra storia si conclude qui, i Decii scompaiono totalmente dalle fonti se non per pochi casi [29]. Ricompariranno successivamente altri Decii, in età imperiale, dei quali non abbiamo certezza di appartenere propriamente alla gens “Decia”:
Potrebbero essere casi di omonimia, come Decio morto nelle proscrizioni del Secondo Triumvirato.
Potrebbero essere nomi aggiunti per nobilitarsi (soprattutto in età imperiale), come fu il caso dell’Imperatore Decio.
Oppure lunghe e complesse fusioni di gentes a noi ignote, come fu il caso di tutta la linea dei Cecina-Decio (dal 463dc al 546), molti dei quali divennero patrizi.
Oppure casi di omonimia come Decio esarca d’Italia (548-584).
Per non parlare di Decio Paolino, che fu l’ultimo Console di Roma (534) [30], e patrizio.
O persone delle quali non abbiamo certezza sull’origine come Publio Decio (Mure) collega di Marco Antonio.

Ma a me piace credere che ci sia stata una continuità che parte dal plebeo Marco Decio del 491ac, e che abbia portato i Deci al Consolato, ed all’indelebile memoria storica della devotio, fino ad arrivare ad una probabile fusione con la gens patrizia dei Cecina, nuovamente alla ribalta nella tarda età imperiale. E poi mi piace fantasticare sul proseguire di questa storia con il giurista e insegnate Filippo Decio vissuto nel XVsec, e che aveva letto il De Monarchia di Dante dove viene citato il suo antenato, Publio Decio Mure, come esempio da imitare [31].

In conclusione, mi è sorta la curiosità di vedere se questa fantasiosa continuità è giunta fino a noi. Ebbene pare che un certo dott. M. Decio (omonimo del nostro primo Tribuno della Plebe), attualmente sia al lavoro come Direttore presso una grande azienda secolare che si occupa di efficienza energetica ed energie rinnovabili <in grado di assicurare la migliore razionalizzazione delle risorse dal punto di vista energetico, economico, sociale ed ambientale> [32].

Speriamo.

Emanuele Viotti

 

Note:
1
<Bruto, mentre essi erano in preda al cordoglio, brandendo innanzi a sé il coltello grondante di sangue che aveva estratto dalla ferita di Lucrezia, esclamò “Per questo sangue, purissimo prima del regio oltraggio, io giuro, e chiamo voi a testimoni, o Dèi, che da questo istante perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo, assieme alla sua scellerata consorte e a tutta la sua figliolanza, col ferro, col fuoco, con qualsiasi mezzo io possa, e che non consentirò che essi né alcun altro regni più a Roma”> inoltre vennero maledetti anche dal popolo, invocando su di essi le Furie e gli Dei vendicatori dei parenti (ultores parentum di ; parentum furias)  Livio, aUc, I,59
2 Storia di Roma, dalle origini alla tarda antichità, M.Mazza e a., Prisma, 2013
3  Livio, aUc, II,21
 “Fasti e schemi cronologici”, F. Mora, 1999
5  l’ ordine equestre iniziò a consolidarsi durante con la Repubblica, e probabilmente ebbe il suo completamento nel IVsec.ac
 Plinio, Storia Naturale, XXXIV,139; Tacito, Annales, II,72,1
 Livio, aUc, II, 23
 Livio, aUc, II, 27
 Livio, II, 31
10  ibid. 32
11  Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, VI,88
12  si noti che l’incoerenza nella datazione 493-491 è data dalla leggera differenza che le fonti danno in base ai loro riferimenti. Infatti quello che nella c.d. “datazione Fabia” è il 491 (cioè l’anno 17 regibus exactis) corrisponde alla “datazione Varroniana” 493 (eppur sempre il 17regibus exactis). L’incertezza permane per tutte le date antecedenti al 300ac.
13  Dionigi di Alicarnasso, antichità Romane, VII,53
14  Dionigi di Alicarnasso, antichità Romane, VII,63
15  ibid. VIII, 77ss
16  per Cerere vedi ibid.; per Tellus invece Livio, aUc II,41
17  le due città distavano appena 20km l’una dall’altra
18  Storia di Roma, dalle origini alla tarda antichità, M.Mazza e a., Prisma, 2013
19  Livio, aUc, III,9
20  ibid. 10
21  ibid, III,51
22  Liv. aUc, VII,21
23  Plinio, Naturalis Historia, XXII,5
24  Cic. De Divinatione, I,xxiv (51)
25  liv. Auc IV, 30
26  ibid. X, 7ss
27  ibid. X, 9
28  Cicerone (de Senectute XIII,43) ci dice anche <[Decio lo avevano conosciuto Manlio Curio, Fabrizio e Coruncanio] entrambi, a giudicare sia dalla loro vita, sia dal gesto del Decio di cui parlo, credevano fermamente nell’esistenza di qualcosa di bello e nobile per natura, tale da essere ricercato per il suo valore intrinseco ed esser seguito da tutti i migliori nel disprezzo e nella condanna del piacere>
29  Decio, un amico di Marco Antonio, Cic. Philippics, XIII,43 che precisa essere un parente dei Deci Mure, vedi genealogia finale
30  pronipote di quel Flavio Cecina Decio Basilio, Console nel 463
31  Dante, De Monarchia, II,vi,14 elencando i grandi romani che si erano sacrificati per la Patria
32  tratto dalla pagina Linkedin della persona e della società

 

Bibliografia:

Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane
Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri
Cicerone:
De Divinatione
Pro Sestio
De finibus bonorum et malorum
Tusculanae Disputationes
De Oratore
Philippics
Plinio, Naturalis Historia
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium
Ennio, Annalium fragmenta
Aurelius Victor, De Viris Illustribus
Storia di Roma, dalle origini alla tarda antichità, M.Mazza e a., Prisma, 2013
Storia di Roma dalle origini a Cesare, F. Càssola, Jouvence, 1985
Introduzione alla Storia di Roma, E. Gabba, Lo Cascio, e a., LED, 1999
Fasti e schemi cronologici, F. Mora, Franz Steiner Verlag Stuttgart 1999

Un commento su “Il conflitto tra gli ordini e la gens Decia”

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