In merito all’articolo pubblicato dal sito Mos Maiorum in data 15/10/19 (link) mi sento in dovere di riprendere la discussione nata sul gruppo Hellenismo perché trovo sia molto interessante mettere per iscritto in modo organico alcune riflessioni.
L’autore ritiene -nel suo breve testo- che non sia corretto definire il rapporto tra il romano ed il divino come do ut des se non nel caso specifico del votum. Egli vede in questo una non corretta interpretazione, per la quale il romano costringerebbe la divinità all’azione per mezzo dell’offerta, in una relazione di causalità avente come prima azione quella umana. Egli al contrario ritiene che la divinità sia interamente libera, tanto che «in molti casi non viene nemmeno richiesto un loro intervento esplicito, ma si enuncia solo le condizioni che dovevano essere soddisfatte. Solo se queste condizioni si realizzano e solo successivamente, è l’uomo ad essere in debito», citando come unica eccezione quella della devotio.
Non mi trovo concorde sulla questione a partire dai presupposti che trovo siano frutto di un fraintendimento delle fonti.
Iniziamo col dire che per comprendere cosa ci fosse nella testa di un romano mentre faceva un rito è necessario conoscere quello che diceva nel rito stesso. Ed in tutte le formule compare sempre la presentazione di un’offerta ed una richiesta (a volte anche molto precisa). Il formulario rituale che abbiamo a disposizione si conta sulle dita di una mano e in ognuna di queste formule viene presentata un’offerta ed una richiesta:
– dapem (cena sacra) un’offerta fatta per propiziare l’aratura di primavera: Iuppiter dapalis, quod tibi fieri oportet in domo familia mea culignam vini dapi, eius rei ergo macte illace dape pollucenda esto; Giove custode della mensa, ricevi in offerta, come è giusto, un calice di vino nella mia casa, davanti alla mia servitù: per questo ti sia gradita l’offerta di oggi e di sempre che ti è stata preparata> questo è l’unico esempio in cui non viene esplicitata la richiesta.
– Prima di mietere si offrirà una scrofa a Cerere, ma l’apertura del rito (di tutti i riti!) prevede due offerte a Giano e due a Giove con queste formule: <Iane pater, te hac sture ommovenda bonas preces precor, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque meae>; <Padre Giano, nel presentare a te questo pane , ti invoco con giuste invocazioni perché tu sia benevolo e propizio a me, ai miei figli, alla mia casa e alla mia servitù>
La stessa formula viene riutilizzata per Giove, e poi una simile per il vino alle due divinità.
– Per la purificazione del campo si offrirà nello stesso modo a Giano e a Giove, per poi offrire a Marte con queste parole: <Mars pater, te precor quaesoque, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae: quoius rei ergo, agrum terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi; uti tu morbos visos invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates intemperiasque prohibessis defendas averruncesque; utique tu fruges, frumenta, vineta virgultaque grandire beneque evenire siris; pastores pecuaque salva servassis duisque bonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae. Harunce rerum ergo, fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique faciendi ergo, sicuti dixi, macte hisce suovetaurilibus lactentibus immolandis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce suovetaurilibus lactentibus esto>; Padre Marte, te prego e oro che sia benevolo e a me propizio, alla mia casa e ai nostri servi. Per questo campo, il fondo e il terreno ho ordinato di far cerchiare con questa offerta; perché tu i mali, visti e nascosti, desolazione e devastazione, calamità e brutta stagione, possa impedire, ricacci e allontani; perché tu messi, frumento e vigneti, voglia far crescere e ben prosperare. Pastori e pecore sani conserva; dona vigore e buona salute a me, alla casa e ai nostri servi. Per queste cose, per render puro fondo, terreno e tutto il campo, per questo rito purificante, si come ho detto, ti sia gradito che abbia immolato tal sacrificio: porco vitello agnello da latte. Padre Marte, per questo, ti sia gradito che abbia immolato tal sacrificio: porco vitello e agnello da latte>
queste formule sono state tratte da Catone (132, 134, 141, trad. ed. mondadori 2006)
Appare chiaro anche in certi riti pubblici che non sono voti, un esempio è il rito alle porte di Lilibeo fatto da Scipione, il quale dopo aver richiesto precisamente agli Dèi di conservare i suoi uomini <[…] salvi e incolumi, vincitori dei nemici, adorni delle spoglie, onusti della preda e trionfanti, con me, tutti restituite alle nostre case; fate che agli avversari e ai nemici noi diamo castigo; fate che agli avversari e ai nemici noi diamo castigo; fate che quanto il popolo cartaginese tentò di compiere a danno della gente nostra, per opera mia e del popolo romano sia ritorto a danno della gente cartaginese> e subito dopo la preghiera compie il sacrificio, secondo il rito (uti mos est) e getta le viscere in mare (Liv. XXIX 27, 2-5, trad. Pighi)), ed appena compiuto il rito si levò un vento favorevole.
Anche in alcuni casi di voti questo avviene, per esempio nell’evocatio degli Dèi da Cartagine al termine della minuziosa richiesta si compie un sacrificio immediatamente, con la promessa di un tempio se quelle divinità avessero abbandonato la città.
Persino gli amati Ludi Secolari ripropongono il formulario catoniano:
<vobis novem agnis feminis et novem capris feminis propiis sacrum fiat. Vos quaeso precorque, uti vos imperium […]>; <a voi con nove pecore e con nove capre proprie si sacrifichi, per i quali fini vi chiedo e prego che voi l’impero[…]> ed una lunga serie di richieste precise e minuziose, quindi si sacrificano le capre aggiungendo un’altra formula che riprende quelle di Catone <Moerae, uti vobis agna data bona prece precatus sum: eiusdem rei ergo macte hac capra femina inmolanda estote, fitote volentes propitiae populo Romano Quiritibus Quindecimviri collegio, mihi domo familiae>; <Moire! come nell’offrivi la pecora con buone preghiere v’ho pregato, per questo stesso fine siate beate per l’immolazione di questa capra, diventate favorevoli al popolo romano e ai Quiriti, al collegio dei Quindici, a me, alla casa, alla famiglia> (trad. Pighi), naturalmente la parte familiare finale -che è identica al rito privato di Catone- si giustifica perché è Ottaviano a compiere questo rito, ed egli nella c.d. “restaurazione” si appropriò del culto pubblico proseguendo la tradizione dei monarchi orientali; oriente nel quale infatti compare col titolo inequivocabile di Βασιλεύς (del fenomeno ne abbiamo già parlato qui).
Naturalmente nella lista di esempi si possono inserire anche i sacrifici espiatori, in quanto si offre alla divinità chiedendo l’espiazione di una cosa sgradita fatta (es. il piaculo: quod tibi illoc porco neque satis factum est, te hoc porco piaculo), sia che ci sia accinga a farlo (es. rito prima del taglio di un lucus: eius rei ergo te hoc porco piaculo inmolando bonas preces precor, uti sies volens propitius…), entrambi in Catone (de agr.).
Da tutti questi esempi sia privati che pubblici evinciamo due cose:
1) i riti romani sia pubblici che privati hanno normalmente la stessa struttura delle formule, e costruzione, dei riti privati descritti da Catone, e che in questo quadro riti particolari come la cura delle lussazioni (Catone), il rito dei Lemuria (Ovidio), il rito per allontanare le malelingue (Ovidio), la dichiarazione di guerra (Livio), sono un’eccezione ad una regola del tutto differente;
2) che è onnipresente la dichiarazione dell’offerta che si vuol fare, il legante che è uti con il significato di “affinché”, e la richiesta alla divinità, il tutto fatto non sempre in modo vago (sies propitius) ma anche in modo molto preciso e dettagliato, al fine di ottenere un chiaro pratico scopo.
Vorrei soffermarmi un momento sul chiaro e pratico scopo. Non è certo nuova, né mia, la domanda: perché mai sacrificare gli Dèi se non per avere un pratico risultato positivo?
<Ma come ammettere una qualsiasi superiorità in un essere cui nessuna attività sia attribuibile né in passato né al presente né in futuro? Quale tributo di pietà può essere dovuto a colui dal quale nulla si è ricevuto? Quale obbligo si può avere verso chi nessun merito si è fatto nei nostri riguardi? La pietà altro non è che il giusto culto che noi tributiamo agli dèi: ma quale rapporto di giustizia vi può essere con essi dal momento che gli uomini nulla hanno da spartire con la divinità? Per santità si intende la scienza del culto divino (sanctitas autem est scientia colendorum deorum), ma io non vedo perché si dovrebbero onorare gli Dèi se di nessun bene essi fossero largitori o garanti.>
(Cicerone, De Natura Deorum, I, 116)
Se quindi il rito prevede un fine pratico e concreto, come può essere la cura di una specifica malattia (ed i numerosi ex voto anatomici ne sono un lampante esempio), o il benessere della propria famiglia (supra) o dello stato romano (Ludi Secolari), o la purificazione del campo e l’allontanamento delle “forze maligne” o dalle sfortune, o il favore degli Dèi contro il nemico; se il rito prevede un fine pratico, come alcuni di questi, non è uno scambio rispetto all’offerta che viene fatta?
E se quindi un’offerta fatta alla divinità la si scambia con un favore che si vuole ottenere, non è forse un do ut des? Cioè non è un dare affinché la divinità dia in cambio?
L’autore ha interpretato questo uti come una costrizione verso la divinità. Ma non mi risulta che uti abbia un valore di obbligo, né l’equivalente “affinché” italiano.
accelerat Caesar, ut proelio intersit; Cesare accellera il cammino affinché presenzi alla battaglia (Caes. B.G. 7,87,3), non significa necessariamente che Cesare arriverà in tempo per la battaglia, ma che mette un’azione al fine di arrivarci, vi sono poi numerose variabili che potrebbero impedirlo. Altro esempio ut te di perduint, che gli Dèi ti mandino in malora (Ter. Heut, 81). Esattamente come in italiano diremmo <porto la macchina dal meccanico affinché la ripari> ma non è detto che il meccanico la riparerà, potrebbe non farlo, ma la mia frase intende sottolineare l’azione da me posta e quale scopo ha.
Quindi il rapporto con la divinità basato sul “ti do uti tu mi dia” fin’ora evidenziato dalle stesse formule rituali è esattamente il do ut des.
Ma cosa dà l’officiante alla divinità? Di certo non è materialmente utile alla divinità un pezzo di carne, o del sangue o del vino. Quel che ha valore per la divinità è quanto sottraiamo a noi stessi in termini di quantità, mentre in termini di qualità vale il “cosa” che per analogia viene sacrificato (in analogia alla divinità, o in analogia con il fine a seconda dei casi). Ecco quindi che un uomo che non ha nulla può sacrificare agli Dèi ed ottenerne il favore, tanto quanto uno che ha tutto, pur sacrificando molto meno (materialmente parlando). E di questo se ne può vedere una prova nella frase liviana “Latini ed Ernici […] portarono in dono a Giove Ottimo Massimo, sul Campidoglio, una corona d’oro, di piccolo peso, ché all’epoca non v’erano grandi ricchezze, ed i riti venivano celebrati più con la devozione che non lo sfarzo> (Liv. aUc, III,57), questo anche a conferma della notizia di Plinio secondo cui prima del costoso incenso i Romani utilizzavano il ben più abbordabile ginepro sabino. Se infatti il valore dell’offerta fosse assoluto, e non proporzionato alle possibilità dell’individuo (o della comunità), gli Dèi non avrebbero mai dovuto sostenere i Romani contro gli Etruschi, che ben più ricchi potevano fare largo uso dell’incenso e di materiali preziosi.
Ne consegue che il valore dell’offerta, del dono alla divinità, sta in quanto ci si toglie.
Sarà un caso, le medesime conclusioni sono state tratte in ambito accademico partendo da diversi presupposti, anche da E.B. Tylor e M. Mauss i quali nello studio antropologico ed etnoantropologico propongono lo stesso modello. Mi si potrebbe dare del primitivista, ma l’alternativa è ipotizzare un’aprioristica visione della religiosità romana che è del tutto formale, e priva di alcuna sostanza, e che non dà alcun risultato se non il rispetto di certe forme tramandate in una secolarizzata apparenza. Io invece ritengo che la religiosità romana veniva seguita e rispettata perché prima di tutto funzionale, utile, finalizzata a degli scopi, e dava dei risultati concreti e tangibili. Ed è proprio questo il senso dell’argomento di Cicerone, o del rito di fondazione di Roma: compiere i riti correttamente per un pratico scopo.
Infatti la religione non era connessa al diritto nella misura in cui, come intendono alcuni, equivaleva all’odierna concezione di diritto: ovvero che ogni trucco di procedura, ogni cavillo, ogni giochetti di tribunale era valido purché si mantenesse l’apparenza, dimenticando totalmente la giustizia, e soprattutto confondendo il giusto con il legale. Al contrario significava che la religione ed il diritto erano una cosa seria, e che il diritto doveva mantenersi sostanziale perché pregno di religiosità, e quindi le pene non erano solo materiali, ma anche e soprattutto religiose.
Un esempio lampante è quello del bellum iustum, cioè della guerra inaugurata con il giusto rito. All’apparenza può confermare una visione di una religione che rispetta meramente il formalismo, ma basta leggere il contenuto del rito di dichiarazione di guerra per rendersi conto che tutto ruota intorno al fatto che il popolo romano ha subito un danno che non viene ripagano, e che quindi è in una posizione di ragione anche dal punto di vista morale.
Quindi quel che risulta fas ha in sé un aspetto di ius, ed il fatto che l’autore abbia sostenuto che si differenziano per l’elemento morale (come se la morale fosse una cosa brutta) è assolutamente fuori luogo in quanto il termine “morale” viene da mos, cioè il costume, l’usanza. Se la religione romana è rispetto del mos, delle usanze, allora aggiunge al fas (a ciò che è conforme alle norme divine), la morale, ottenendo lo ius. Ciò che è giusto lo è perché moralmente corretto e conforme alle norme divine, ed essendo giusto dà un risultato utile <non vi è nulla di utile che non sia anche onesto […] e non è onesto perché utile, bensì è utile perché è onesto> (Cic. de officis, III, 30). Ecco perché la religione romana ha una forte componente di moralità, e non è un caso che tutti gli autori latini (TUTTI) non mancano mai di fare delle deviazioni dai propri discorsi per sottolineare quale debba essere la giusta levatura morale. Non era solo propaganda, era insito nella natura del diritto, in quella della cultura romana e nella natura religiosa.
La visione atea per cui la religione era solo una questione di forma, senza alcuna morale (e ne consegue logicamente: al servizio del potere) in cui era sufficiente fare due gesti che assomigliassero a quelli rituali, senza alcuna sostanza sacra purché si rispettasse la forma, è l’anticamera di una visione marxista della Storia e del fenomeno religioso romano.
Inoltre gli Dèi debbono essere giusti per forza, perché se non lo fossero come potrebbe il mondo essere ordinato? La giustizia è prima di tutto equilibrio, ordine, se gli Dèi non fossero giusti non esisterebbero regole nel nostro Universo. Ma siccome esistono, allora gli Dèi -che sono alla base del suo funzionamento- sono giusti. Perciò ecco nuovamente dimostrato l’importanza del valore morale nell’ambito religioso.
Tutto questo starebbe forse a significare che la divinità è obbligata a soddisfare una richiesta fatta in un rito? Certo che no! Ma nemmeno che la divinità decida a seconda degli umori del momento.
Infatti gli Dèi per essere eterni (o immortali a seconda dei casi) devono essere immobili, non soggetti ad alcun cambiamento. Perché se fossero soggetti al cambiamento, sarebbero soggetti al tempo, e quindi potrebbero morire (ne abbiamo parlato qui).
Ergo non possono neanche esprimere una volontarietà o un desiderio nei confronti di un nostro rito, perché altrimenti loro muterebbero di condizione tra prima del rito (neutro) a dopo il rito (favorevole o sfavorevole), soggiacendo al mutamento.
Inoltre la natura divina, essendo omnicomprensiva, è coerente a sé stessa in ogni momento, e non necessita di volere un qualcosa, o di accettare o rifiutare qualcos’altro, perché non è afflitta da quelle condizioni che inducono alla necessità di una scelta.
Infatti gli Dèi muovono le cose rimanendo immobili, essi sono le norme che regolano il funzionamento della materia, ma non perché essi la spostano fisicamente, o decidono di spostarla, ma perché -come formule matematiche- determinano in che modo la materia si muove (ne abbiamo meglio parlato qui). È pertanto ovvio che così come la divinità non ha un tempo per esercitare il proprio ipotetico volere/desiderio di favorire o sfavorire qualcuno, non è nemmeno soggetta al tempo per essere costretta a fare qualcosa.
La questione è molto più semplice: se una richiesta è giusta (giusto l’obiettivo, giusta la richiesta, che non va contro al Fato, giusto in un senso ampio che trascende i limiti della nostra capacità di raccogliere sufficienti dati), ed è fatta con il corretto rito, non c’è nessuna ragione per cui la divinità non dovrebbe assecondare il rito stesso.
Perciò ottenere il favore degli Dèi non è determinato da quanto le divinità ci favoriscano personalmente, bensì da quanto noi siamo in grado di fare richieste adeguate alla divinità. Del resto questo è un fenomeno evidente di per sé anche in Natura e nell’esperienza di ognuno di noi: se non si può muovere un qualcosa verso di noi (anche in senso figurato), ci muoviamo noi verso di esso. E poiché gli Dèi regolano il funzionamento di ciò che è materiale, quello che funziona nella materia deve valere -in via di approssimazione- anche per gli Dèi.
Eppure le fonti parlano di divinità adirate, o favorevoli!
Ed in che altro modo si potrebbe definire un evento positivo o negativo in un momento storico in cui si è preso ad antropomorfizzare gli Dèi? Troppo spesso si lascia scivolare nel dimenticatoio la notizia della legge di Numa Pompilio che vietava di raffigurare gli Dèi, o il culto originale degli Dèi a Roma (Giove una pietra, Marte una lancia, Vesta il solo fuoco, etc.). Tanto più che se le espressioni usate dalle fonti danno l’idea di divinità molto umane, il comportamento generale del romano verso la divinità è tutto fuorché di relazione con un’entità vittima di cambi di emotività, tutto fuorché umana o umanizzata. Anzi la divinità viene trattata dal romano come un’entità da gestire tecnicamente, secondo precise regole stabilite, evidenziando una connessione causale tra l’azione umana e la reazione divina che è sempre automatica e costante, motivo per cui le nuove introduzioni religiose vengono mantenute nel tempo come se si trattasse di una nuova scoperta tecnologica.
In fine è necessaria una precisazione: esistono delle entità metafisiche che sono soggette al mutamento, che hanno desideri, che possono essere favorevoli o sfavorevoli, che si possono sedurre o costringere per mezzo del rito, che non hanno interesse per la giustizia ma solo per la correttezza formale del rito nei loro riguardi, non è difficile comprendere di quali entità si tratti. Se gli Dèi sono composti da quella natura elevata di spirito, ignea (e che pertanto ne devono rispettare le caratteristiche), le entità fornite di scelte emotive a seconda del proprio desiderio debbono essere nel piano emotivo, il c.d. “lunare”. Infatti le creature che vivono sul piano lunare hanno tutte le caratteristiche che alcuni pensano di attribuire agli Dèi. Decidono a chi dare il proprio favore con massima libertà, ed al contempo si possono costringere, ma soprattutto sono soggette al tempo ed al mutamento, e di conseguenza sono mortali (a tal proposito c’è chi sostiene che gli Dèi -confondendoli con queste- muoiano se non vengono onorati con riti, un accenno è già stato fatto qui).
Trovo quindi che quanto è stato scritto sia frutto di un fraintendimendo, e non mi vede concorde, per quanto sia stata un’ottima occasione per trascrivere alcuni punti che ho -erroneamente- dato per scontato.
Emanuele Viotti
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