Decio Mure ed i plebei al pontificato

Annunci

Molti mi chiedono perché pur definendomi un tradizionalista romano non condivido una certa visione di “aristocrazia dello spirito” né strutture “occulte” o eccessivamente chiuse, ebbene per come la vedo io è necessario affidarsi a quanto trasmettono i nostri antenati e al loro costume (il mos maiorum) e tra i moltissimi esempi che esistono un buon riassunto è concentrato in questo discorso fatto da Pubblio Decio Mure “figlio” in occasione della discussione della Lex Ogulnia del 300ac.
Durante la solita disquisizione se era lecito o meno aprire il pontificato e il collegio degli auguri ai plebei Livio riporta quando in suo favore disse Decio:

<si dice che Decio abbia rievocato la figura del padre, quale l’avevano visto molti che si trovavano nell’assemblea, con la toga cinta alla maniera dei Gabini, ritto su un giavellotto, nell’atteggiamento in cui si era immolato per la salvezza del popolo e delle legioni romane: allora il Console Publio Decio era sembrato agli Dei immortali puro e pio, proprio come se ad immolarsi fosse il suo collega Manlio Torquato; non avrebbe forse potuto lo stesso Publio Decio essere eletto secondo il rito per compiere le pubbliche cerimonie del popolo romano? V’era forse questo pericolo, che gli Dei ascoltassero le sue preghiere meno di quelle di Appio Claudio? Forse egli compiva i riti privati più castamente e più religiosamente di lui? Chi aveva a dolersi dei voti solenni che per la salvezza della Res Publica avevano pronunziato tanti consoli plebei, tanti dittatori, o nell’atto di raggiungere i loro eserciti, o durante le guerre stesse? Si contassero i comandanti di quegli anni nei quali s’era cominciato a combattere sotto il comando e gli auspici di plebei; si contassero i trionfi: ormai i plebei non dovevano più rimpiangere neppure la mancanza di nobiltà. Egli era persuaso che, se fosse improvvisamente scoppiata una guerra, il Senato ed il popolo romano non avrebbero riposto maggior fiducia nei comandanti patrizi che in quelli plebei.
“Stando così le cose”, continuò “a quale degli Dei o degli uomini può sembrare cosa indegna che a quei personaggi cui avere conferito l’onore della sella curule, della toga pretexta, della tunica palmata, della toga picta, della corona trionfale e di quella d’alloro, le cui case voi avete resto insigni fra le altre appendendovi le spoglie di tanti nemici, siano date anche le insegne pontificali ed augurali? Uno che sia salito sul Campidoglio fregiato dagli ornamenti di Giove Ottimo Massimo, dopo aver attraversato l’Urbe su un carro dorato, non si dovrebbe poterlo vedere con la coppa sacrificale ed il lituo, quando, velato il capo, ucciderà la vittima o prenderà gli àuguri dalla rocca? Nell’iscrizione posta sotto un ritratto si leggeranno di buon animo il consolato, la censura ed il trionfo, mentre, se vi si aggiungeranno l’augurio o il pontificato, la vista di quell’iscrizione diventerà insopportabile? In verità -lo si dica in pace con gli Dei- io spero che, grazie al popolo romano, noi si sia ormai tali da arrecare col nostro credito ai sacerdozi non minor onore di quello che riceveremo, e da desiderare più per il vene degli Dei che per il nostro di venerare in nome dello stato quelle divinità che veneriamo come privato.
[8]
Ma perché finora io ho parlato come se fosse impregiudicata la causa dei patrizi sui sacerdozi e non disponessimo già di una delle più importanti dignità sacerdotali? I plebei noi li vediamo già decemviri dei sacri riti, interpreti dei responsi della Sibilla e dei destini di questo popolo, e perfino sovrintendenti al culto di Apollo e ad altre sacre cerimonie; né fu recata alcuna offesa ai patrizi allorché per far posto ai plebei si accrebbe il numero dei duumviri dei sacri riti, né adesso il tribuno, uomo forte e valoroso, vuole aggiungere cinque posti al collegio degli àuguri e quattro a quello dei pontefici, da assegnarsi ai plebei, perché essi scaccino voi dal vostro posto, o Appio, bensì perché vi aiutino nella cura delle cerimonie divine, così come, per quanto sta in loro, vi aiutino in tutte le altre incombenze umane. Non arrossire Appio, ad avere come collega nel sacerdozio uno che avresti potuto avere come collega nella Censura e nel Consolato, uno che tu potresti avere tanto come dittatore della tua qualità di maestro della cavalleria, quanto come maestro della cavalleria della qualità di dittatore. Uno straniero, un Sabino, il capostipite della vostra nobiltà, Aiio Clauso o Appio Claudio che dir si voglia, fu accolto da quei famosi antichi patrizi nel loro ordine; non disdegnare di accogliere noi nell’ordine dei sacerdoti. Molti sono i titoli d’onore che portiamo con noi, anzi tutti quelli che hanno insuperbito voi: Lucio Sestio fu il primo della plebe ad essere eletto Console, Caio Licinio Stolone il primo maestro della cavalleria, Caio Marcio Rutulo il primo dittatore e censore, Quinto Publio Filone il primo pretore. Si sono sempre sentite ripetere queste stesse storie, che gli auspici spettano a voi, che voi soli avete la stirpe, che voi soli avete un legittimo potere e diritto di auspici in pace ed in guerra; ma finora ha avuto uguale fortuna sia quello dei plebei che quello dei patrizi, e così continuerà ad essere. Ma avete mai sentito dire che originariamente siano stati fatti patrizi, non degli uomini calati dal cielo, bensì degli uomini che potessero vantare un padre, cioé nient’altro che dei nati liberi? Io posso già vantare un padre console, e mio figlio potrà vantare il nonno. La questione è tutta qui, oh Quiriti, che si vuole che noi si ottenga ogni cosa solo dopo avercela negata; i patrizi cercano unicamente la lotta, senza preoccuparsi di quale esito essa debba avere. Questa legge, con l’augurio che ciò sia buono, fausto e felice per voi e per la Res Publica, io penso che si debba approvarla secondo la tua proposta.”>

Livio, Ab Urbe Condita, X, 7ss

<[7] Certatum tamen suadenda dissuadendaque lege inter Ap. Claudium maxime ferunt et inter P. Decium Murem. Qui cum eadem ferme de iure patrum ac plebis quae pro lege Licinia quondam contraque eam dicta erant cum plebeiis consulatus rogabatur disseruissent, rettulisse dicitur Decius parentis sui speciem, qualem eum multi qui in contione erant viderant, incinctum Gabino cultu super telum stantem, quo se habitu pro populo ac legionibus Romanis devovisset: tum P. Decium consulem purum piumque deis immortalibus visum aeque ac si T. Manlius collega eius devoveretur; eundem P. Decium qui sacra publica populi Romani faceret legi rite non potuisse? id esse periculum ne suas preces minus audirent di quam Ap. Claudi? castius eum sacra privata facere et religiosius deos colere quam se? quem paenitere votorum quae pro re publica nuncupaverint tot consules plebeii, tot dictatores, aut ad exercitus euntes aut inter ipsa bella? numerarentur duces eorum annorum, quibus plebeiorum ductu et auspicio res geri coeptae sint; numerarentur triumphi; iam ne nobilitatis quidem suae plebeios paenitere. Pro certo habere, si quod repens bellum oriatur, non plus spei fore senatui populoque Romano in patriciis quam in plebeiis ducibus.

“Quod cum ita se habeat, cui deorum hominumue indignum videri potest” inquit, “eos viros, quos vos sellis curulibus, toga praetexta, tunica palmata, et toga picta et corona triumphali laureaque honoraritis, quorum domos spoliis hostium adfixis insignes inter alias feceritis, pontificalia atque auguralia insignia adicere? qui Iovis optimi maximi ornatu decoratus, curru aurato per urbem vectus in Capitolium ascenderit, is <non> conspiciatur cum capide ac lituo, <cum> capite velato victimam caedet auguriumue ex arce capiet? cuius <in> imaginis titulo consulatus censuraque et triumphus aequo animo legetur, si auguratum aut pontificatum adieceritis, non sustinebunt legentium oculi? equidem—pace dixerim deum—eos nos iam populi Romani beneficio esse spero, qui sacerdotiis non minus reddamus dignatione nostra honoris quam acceperimus et deorum magis quam nostra causa expetamus ut quos privatim colimus publice colamus.

[8] Quid autem ego sic adhuc egi, tamquam integra sit causa patriciorum de sacerdotiis et non iam in possessione unius amplissimi simus sacerdotii? decemuiros sacris faciundis, carminum Sibyllae ac fatorum populi huius interpretes, antistites eosdem Apollinaris sacri caerimoniarumque aliarum plebeios videmus; nec aut tum patriciis ulla iniuria facta est, cum duumviris sacris faciundis adiectus est propter plebeios numerus, et nunc tribunus, vir fortis ac strenuus, quinque augurum loca, quattuor pontificum adiecit, in quae plebeii nominentur, non ut vos, Appi, vestro loco pellant sed ut adiuvent vos homines plebeii divinis quoque rebus procurandis, sicut in ceteris humanis pro parte virili adiuvant. Noli erubescere, Appi, collegam in sacerdotio habere, quem in censura, quem in consulatu collegam habere potuisti, cuius tam dictatoris magister equitum quam magistri equitum dictator esse potes. Sabinum advenam, principem nobilitati vestrae, seu Attium Clausum seu Ap. Claudium mavoltis, illi antiqui patricii in suum numerum acceperunt: ne fastidieris nos in sacerdotum numerum accipere. Multa nobiscum decora adferimus, immo omnia eadem quae vos superbos fecerunt. L. Sextius primus de plebe consul est factus, C. Licinius Stolo primus magister equitum, C. Marcius Rutulus primus et dictator et censor, Q. Publilius Philo primus praetor. Semper ista audita sunt eadem penes vos auspicia esse, vos solos gentem habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque; aeque adhuc prosperum plebeium et patricium fuit porroque erit. En unquam fando audistis patricios primo esse factos non de caelo demissos sed qui patrem ciere possent, id est, nihil ultra quam ingenuos? consulem iam patrem ciere possum auumque iam poterit filius meus. Nihil est aliud in re, Quirites, nisi ut omnia negata adipiscamur; certamen tantum patricii petunt nec curant quem eventum certaminum habeant. Ego hanc legem, quod bonum faustum felixque sit vobis ac rei publicae, uti rogas, iubendam censeo.”>

Emanuele Viotti

Un commento su “Decio Mure ed i plebei al pontificato”

RispondiAnnulla risposta

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.