il culto delle Fate nell’antica Roma

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In un silenzio carico di aspettative, un bambino viene sollevato dal suolo da due braccia salde, sotto il solenne sguardo degli astanti. E’ questa una tappa fondamentale nell’esistenza di una persona, poiché quelle braccia appartengono al padre e quell’atto implica l’accettazione del nascituro in seno alla famiglia. Tale gesto, tollere liberos (“alzare da terra” 1), è il coronamento del parto. Trascorsi nove giorni, otto nel caso si tratti di una femmina, assistiamo ad un altro momento fondamentale, il Dies Lustricus (2) a cui presiede la dea Nundina: è la nascita sociale, non meno importante di quella biologica, poiché rappresenta l’ingresso effettivo nella collettività del nuovo nato con l’assunzione di un’identità propria. E’ in questo giorno, altresì chiamato Nominalia, che diventa un individuo a tutti gli effetti, tramite l’imposizione del nome e di una sorte, con l’invocazione delle Fata Scribunda, le Fate Scriventi (3).

Nomina sunt omina. Che il destino di una persona sia legato al suo nome emerge indirettamente nelle fonti (4). Ciò vale per i nomi in generale (sul divario, assai labile, tra significato e significante rimandiamo ad un prossimo articolo dedicato a Carmenta). La scelta del nome proprio non risulta priva di valenze magiche: in questo senso, il nome acquista la funzione di captatio ominis, ossia è in grado di determinare “automaticamente” un dato corso delle cose. E così il nome Publio fa riferimento al pube, quale auspicio di fertilità, il nome Stazio alla stabilità, Fausto e così via (5). Addirittura, i condannati a morte perché accusati di aver attentato alla salvezza dello Stato potevano ottenere una condanna postuma: una sorta di damnatio memoriae del nome imposto alla gens d’appartenenza, che ne vietava il riutilizzo ai posteri; fu il caso di Marco Manlio Capitolino (6). E’ d’altronde significativo che proprio nel Dies Lustricus si invocassero le tre divinità del destino: non già le Parche bensì le Tria Fata, figure proprie del più remoto retroterra latino. Nelle prime attestazioni letterarie latine l’influsso del modello greco è già consolidato; tuttavia, proprio la testimonianza più significativa su queste figure, quella offerta da Catullo (7), ne dimostra la matrice latina e l’alterità dalle Moire greche. Il passo in questione è di grande valore, perché offre il quadro più dettagliato e ampio della funzione divina delle Parche. La cornice degli eventi è rappresentata dalle nozze di Peleo e Teti, secondo il modello epitalamico, ma se ne discosta nella scena centrale, che vede protagoniste le Dee del Fato. Esse infatti non si prodigano nel tessere le lodi agli sposi, com’è uso in questo genere di componimenti, ma nel profetizzare (come esplicitamente dichiarato nei versi) la sorte della loro progenie. Accanto alla canonica immagine del fuso, le Parche procedono cantando in maniera “veridica”: aggettivo questo associato ai vaticini di Fauno, di Carmenta, a quelli apollinei e della Pizia (8). Canto e filatura procedono in parallelo, nel testo di Catullo, “..il disegno fatale che le Parche vaticinano prende forma concreta sul piano del tempo nel momento stesso in cui viene vaticinato e il filo prodotto vincola in ultima analisi a sé stesso la parola pronunciata, di cui è fedele riproduzione” (9).

Tale funzione è dagli autori greci ricondotto ad Apollo (10), non alle Moire, che salvo rarissime eccezioni (11) risultano prive tanto della dimensione canora quanto di quella profetica. Ulteriore scarto tra Parche e Moire si ha nella ripartizione dei ruoli: se Cloto, Lachesi ed Atropo hanno rispettivamente il compito di filare lo stame, misurare il filo e tagliarlo, le divinità latine risultano prive di questa specializzazione; esse sembrano assolvere tutte alle medesime operazioni. Anche l’estrema arcaicità del culto conferma l’originalità delle Fate: tre loro simulacri furono tra le prime statue innalzate in Roma, nei pressi del Comitium nel Foro, sopravvissute almeno fino al VI secolo (12); qui vennero talvolta associate alle Sibille (13). Oltre alla funzione oracolare, a questa associazione può aver concorso il fatto che anche queste profetesse, nel mondo italico, siano presenti in numero di tre: quella Cimmeria, presso il lago Averno; quella Cumana, la più celebre poiché a lei si attribuiscono i primi Libri Sibillini (supporto fondamentale per lo Stato romano); infine, quella di Tivoli, adorata come una divinità (14). Quello di Catullo costituirà per gli autori successivi un modello imprescindibile di riferimento, soprattutto in età augustea; ma le competenze delle Parche si espanderanno sempre più, fissando al loro telaio l’intero filo della Storia; in tal senso appaiono nella celebre IV Egloga, annunciante il ritorno dell’Età dell’Oro (15). Tuttavia, un documento di sensazionale importanza ci consente di risalire alla genuinità del culto: a Lavinium (nei pressi della mitica Selva Albunea, in un contesto dalla forte valenza oracolare che permane a tutt’oggi) troviamo tre cippi (16) scritti in latino arcaico, databili tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.e.v, dedicati a Parca Maurtia, Neuna e Neuna Fata.

Oltre che dal contesto di rinvenimento, la funzione oracolare di queste divinità è sancita dal loro stesso nome: l’attributo di Neuna, ossia Fata, è di per se esplicante, collegandosi direttamente a fatum; esso è il neutro singolare del participio passato di fari, con il significato di “cosa che è stata detta”. Illuminante in tal senso un altro passo dello stesso Varrone (17) dove, tra l’altro, afferma che le Parche fando (parlando) fissano il periodo della vita per i bambini. Anche altre divinità della nascita e della fertilità son connesse alla radice di fari (come Fabulinus/Farinus e Fatua,) o, comunque detentrici di virtù profetiche (è il caso, ad esempio, di Lucina e delle Camene).

I tre cippi di Lavinium trovano stringente riscontro nelle testimonianze di Varrone e Cesellio Vindice, grammatico di età traianea (18), che attestano rispettivamente queste divinità con i nomi di Parca, Nona e Decima e di Nona, Decima e Morta. La figura di Nona si collega a quella di Neuna, e insieme ricordano Nundina, la divinità che presiede al Dies Lustricus (già ricordata all’inizio dell’articolo); eppure, più che ai nove giorni dalla nascita, esse sembrano invece riferirsi ai mesi della gravidanza. Nona e Decima sono i nomi individuali di divinità protettrici dei fanciulli, con competenze sui diversi gradi di gestazione (19). Il calcolo fonda sul mese sidereo usato dai Romani, della durata di 27,32 giorni.

In tal senso, Decima fa riferimento alla gravidanza naturale di dieci mesi siderei (273 giorni, corrispondente alle 40 settimane regolari), mentre Neuna/Nona a quella prematura di nove mesi siderei (245 giorni). Più complesso è definire Morta (citata già da Livio Andronico): potrebbe riferirsi al feto nato oltre il termine ultimo gestazionale, ossia morto, eppure risulta interessante la somiglianza con la greca Moira; tale nome viene generalmente utilizzato dagli autori greci col valore astratto di destino assegnato, con un’accezione solitamente funesta (20). Forse, più probabilmente e come suggerisce l’etimologia (nonché lo stesso Aulo Gellio nel passo riportato in nota 18), Morta rappresenta invece l’esito di un’interpretatio latina della Mοῖρα; infine, c’è chi ha proposto un rapporto tra Morta e la Parca Maurtia delle iscrizioni arcaiche, nonché con la sfera di Marte (21). Ad un certo punto Parca soppiantò le due divinità sorelle (forse in virtù della prerogativa determinante sul parto, riconosciuta da Varrone), finendo con l’estendere il suo nome all’intero gruppo delle Tria Fata; tuttavia, quello originario è ancora ben riscontrabile in tutto il tardo antico almeno fino al VI secolo (22). Qualcosa di simile avvenne con le omologhe greche: in Omero, Mοῖρα appare (con un’unica eccezione) sempre al singolare, benché già con Esiodo il termine si riferisca a tutta la triade (23). Le fonti antiquarie latine comunque, al netto di alcune varianti semantiche, concordano sostanzialmente col dato monumentale laviniate.

Già a partire dall’età augustea, come si è detto, queste divinità furono chiamate ad operare in contesti in qualche modo lontani da quelli originari (24). Non è questa la sede per approfondire l’evoluzione del concetto di Fato, in seno alla cultura romana, tema del resto troppo ampio. La ricezione delle diverse correnti filosofiche, soprattutto quella stoica, e le intime riflessioni esistenziali proprie di un’epoca di grandi turbamenti alterarono la fisionomia di queste tre potenze divine, mutando di segno fino ad assumere una connotazione luttuosa (25), del tutto estranea alle benevole Fate; il Dies Parcarum, culmine della loro attività divina, passò dal Dies Lustricus al giorno della morte di una persona (26). Questo elemento si riscontra anche a livello epigrafico, dove esse diventano il futile, e invero struggente, bersaglio della caducità umana (27). Eppure, i riferimenti nelle iscrizioni sono da porsi su un piano figurato, in cui le potenze del Fato rimangono un concetto impersonale. A fronte di migliaia di iscrizioni di questo genere esiste un minuscolo, ma significativo, gruppo di testimonianze in grado di unire idealmente l’arcaico santuario laviniate con la Gallia Cisalpina.

Si tratta di una decina di dediche sacre (28) alle Fate e alle loro inedite controparti maschili, i Fati: tre da Aquileia, quattro dall’area bresciana (Brescia, Botticino, Calvagese e Vezzano), due dal trentino (Trento e Castel Toblino) e una da Como. Sappiamo del resto che anche il culto delle Moire era diffuso in tutta l’Ellade (in Acaia a Corinto e Sicione, in Laconia a Sparta, in Elide ad Olimpia, in Arcadia ad Acacèsio, in Beozia a Tebe, a Delfi in Focide, nelle isole ioniche a Corcira, 29). A differenza che nei cippi arcaici, in Cisalpina le iscrizioni si rivolgono a queste divinità sempre al plurale; ulteriore elemento di difformità è dato dal sesso di pertinenza. A fronte di due riferimenti (col dativo plurale Fatabus) sicuramente femminili e ad altrettanti maschili (30), tutti gli altri (ov’è presente la forma Fatis) possono rimandare invariabilmente ad un nominativo maschile, femminile o neutro (31); in questo secondo gruppo si annovera una dedica, proveniente da Como, che vede compartecipi gli Dei Nixi. Si tratta di divinità maschili latine pressoché sconosciute (32), legate alla sfera del parto e presumibilmente al momento delle doglie (da nixus, sforzo), che verranno trattate, unitamente alle altre divinità della gravidanza, in un altro articolo. Per tornare alle Fate, è probabile che il culto nella Cisalpina rimandi a figure indigene dalle analoghe competenze, come indirettamente confermato dall’estrazione indigena di alcuni dedicanti e come espressamente dimostrato da un’iscrizione di Aquileia, titolata ai Fati Divini e Barbarici. Gruppi di divinità sono ben presenti sia nelle tradizioni italiche sia in quelle celtiche e germaniche; in queste ultime si registra tuttavia la distintiva assenza di nomi individuali. E’ il caso ad esempio delle Matrone/Iunones, le quali presentano più di un’attinenza con le Fate (33). Risulta altresì evidente come la rilettura del sostrato celtico rinvii comunque ad una realtà cultuale strettamente latina, sopravvissuta con sorprendente vitalità. Indenne dalle ubbie intellettualistiche e dalla superficiale acquisizione di elementi stranieri, la devozione popolare alle benevole e tutt’altro che nefaste Fatae resistette nei secoli nel culto, ove si rendeva loro gli omaggi dovuti a queste premurose genitrici dell’esistenza, in grado di accompagnare l’individuo sin dalla fase di gestazione.

Tale devozione continuò a protrarsi nei secoli, all’interno del folklore medievale e moderno, fino ad oggi, mantenendo altresì intatta la radice del loro nome (nelle lingue romanze e non): nell’italiano “fata” e nello spagnolo “hada”, nel catalano “fada” e nel francese “fée”, nel provenzale “frada”, nell’inglese “fairy”, nel tedesco “fee”, nel norvegese e nel danese “fe”, nello svedese “”.

 

 

Adriano Mattia Cefis

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NOTE

1) Orazio, Sermones II 5, 45: “Se in una grande casata alcuno nutra presso di sé, dopo averlo riconosciuto, un figliuolo cagionevole..” A questo atto presiedeva Levana, che verrà approfondita in un articolo dedicato al parto e alle divinità connesse. Agostino, De civitate Dei IV 11: “..[invocata] con il nome Levana quando li solleva da terra”. Vedi anche Luigi Capogrossi Colognesi, Tollere Liberos: https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1990_num_102_1_1662

2) Festo [LUSTRICI DIES]: “I dies lustrici eran chiamati così poiché i neonati venivano in essi lavati e veniva assegnato il nome, otto giorni dalla nascita per le femmine e nove giorni per i maschi”. Macrobio, Saturnalia I 16, 36: “Nundina, oltre che giorno di mercato, è per i Romani anche il nome di una dea, così chiamata dal nono giorno di vita dei neonati, detto Dies Lustricus. Il giorno lustrale è quello in cui i bambini sono purificati e ricevono il nome; però per i maschi è il nono giorno, per le femmine l’ottavo”. Plutarco, Questioni Romane 102: “Danno il nome ai bambini, ai maschi il nono giorno, alle femmine l’ottavo. Perché? Forse la precedenza alle femmine ha come causa la natura; infatti la femmina cresce e raggiunge la pubertà e il pieno sviluppo prima del maschio. Quanto ai giorni, assumono quelli dopo il settimo, poiché per i neonati il settimo è pericoloso oltre al resto anche per il cordone ombelicale. Infatti nella maggior parte si stacca il settimo giorno, ma finché non si è staccato il bambino assomiglia più a una pianta che a un animale”. Ovidio, Fasti I 178: “I presagi, disse, sogliono essere negli inizi”. Tra gli altri, vedi in proposito Mario Lentano, Nomen in particolare pp. 177 e seguenti, e Tels-De Jong, Sur quelques divinitès romaines de la naissance et de la prophètie.

3) Tertulliano, De anima 39, 2: “..durante il settimo giorno si preparava un banchetto per Iuno e l’ultimo giorno erano invocati i Fata Scribunda”. Femminile singolare o neutro plurale?

4) A titolo esemplificativo, questi due episodi (il primo del quale si riferisce al giovane Nerone). Svetonio, Nero 6: “Un segno evidente del suo sciagurato destino si ebbe nel suo giorno lustrale; infatti Caio Cesare, quando la sorella lo pregò di scegliere il nome da dare al bambino, indicando lo zio Claudio, dal quale poi, divenuto imperatore, Nerone venne adottato, disse «che gli dava il nome di quello» [..] perché allora Claudio era schernito da tutta la corte”. Ausonio, Parentalia 11: “Anche tu fanciullo morto immaturamente, entri di forza tra i dolori che mi causano i decessi arrivati al tempo normale, tu, acerbo lutto del mesto nonno, Pastore, caro nipote che già avevi fatto concepire sicure speranze, terzo figlio di tuo padre Esperio. Il tuo nome, dovuto al caso (poiché al tuo nascere una zampogna intonava una canzone pastorale) è stato, troppo tardi l’abbiamo capito, un simbolo della brevità della tua vita, soffio che passa in una canna e fugge”.

5) Valerio Massimo, De Praenomibus 4-5: “Il prenome Stazio derivò da «stabilità», Fausto da «favore». Il prenome Tullo è da collegarsi, a titolo di buon augurio, col verbo «tolto» [ci si riferisce al tollere liberos], con la trasformazione di o in u [..] Manii furono detti quelli che erano nati di buon mattino o ai quali si augurava, per così dire, di essere buoni: per dire bonus gli antichi dicevano manus [..] Publi coloro che erano stati resi pupilli prima di avere il prenome, altri a scopo di buon augurio da pubes [pube, ossia rimandante alla fertilità]”.

6) Livio VI 20: “I tribuni lo fecero gettare giù dalla Rupe Tarpea, e così lo stesso luogo fu per uno stesso uomo il ricordo perenne di una straordinaria fama e dell’estremo supplizio. Dopo la sua morte, gli furono inflitti due marchi d’infamia: uno di natura pubblica [..] l’altro invece fu di natura gentilizia, perché i membri della famiglia Manlia decretarono che in futuro nessuno portasse più il nome di Marco Manlio Fu questa la fine di un uomo che, se non fosse nato in una città libera, avrebbe lasciato traccia duratura di sè. E in breve tempo il popolo – dato che adesso Manlio non era più una fonte di pericolo – cominciò a rimpiangerlo ricordandone soltanto le qualità..

7) Catullo 64, 38 sgg: “..le Parche, scosse in corpo da un brivido incerto, intonarono il canto delle loro profezie. Una veste candida orlata di porpora ai piedi avvolgeva come un manto il loro corpo tremante, bende rosa incoronavano le tempie di neve, le mani ripetevano il loro eterno lavoro. La sinistra stringeva la rocca avvolta di lana, la destra tirando piano i fili li lavorava fra le dita torcendoli col pollice abbassato e girava il fuso equilibrato dalla sua ruota; coi denti toglievano ogni imperfezione al lavoro e i bioccoli strappati alla superficie dei fili pendevano dalle sottili labbra rinsecchite; ai loro piedi cesti di vimini raccoglievano in matasse morbide il candido filato. E filando le loro matasse, con voce chiara rivelavano in un canto profetico destini che nessun futuro potrà accusare di menzogna. «Tu che esalti di virtù la nobiltà del nome, baluardo di Tessaglia, tu carissimo a Giove, ascolta le profezie che in questa festa ti svelano le tre sorelle. E voi, che ordite di trame il destino, girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Ora Espero verrà a portarti ciò che desiderano i mariti e con la dolce stella verrà la sposa a colmare d’amore il tuo cuore indifeso, a confondere il tuo sonno col suo languore stringendoti intorno al collo le sue braccia sottili. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Nessuna casa mai vide un amore come questo, nessun amore unì due amanti con la passione di questo che lega l’uno all’altra Peleo e Teti. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Da voi nascerà Achille, incapace di paura, di lui il nemico vedrà solo il petto, mai la schiena; così veloce nella corsa da vincere sempre e precedere il lampo di una cerva in fuga. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Nessun guerriero si potrà misurare con lui quando la Frigia sarà un lago di sangue troiano e il terzo erede di Pèlope lo spergiuro devasterà, dopo l’assedio, le mura di Troia. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Quanti madri dovranno sulla tomba dei figlioli riconoscergli gesta e valori incredibili, strappandosi dal capo i grigi capelli scomposti, graffiandosi il petto avvizzito con mani tremanti. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Come un mietitore falciando la messe di spighe spoglia i campi ingialliti sotto la sferza del Sole lui abbatterà i Troiani col suo ferro implacabile. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Testimone delle sue gesta sarà lo Scamandro che da più bocche si getta nei flutti d’Ellesponto: Achille coprirà il suo letto di cadaveri riscaldando col sangue le acque profonde. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. E lo attesterà la vittima offerta alla sua morte, quando in cima al suo tumulo, una montagna di terra, cadrà il pallido corpo della vergine immolata. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Appena il destino avrà concesso agli stanchi Achei di abbattere le mura di Nettuno intorno a Troia, il grande tumulo berrà il sangue di Polissena, che vittima stroncata da un colpo di scure s’affloscerà sulle ginocchia, un tronco senza vita. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Ma ora stringete il vostro desiderio d’amore: accolga lo sposo con patto fecondo la dea, si dia la sposa al marito impaziente. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate. Rivedendola il mattino dopo la sua nutrice non potrà più cingerle il collo col filo di ieri (girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate) e la madre, preoccupata che la sua figliola dormisse sola, potrà sperare in cari nipoti. Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate». Questo l’augurio di felicità che rivelarono, cantando con voce divina, le Parche a Peleo”. Un interessante precedente si riscontra anche prima di Catullo. Non si tratta di tre figure divine, ma è curioso l’elemento delle tre predizioni fatali che si ha in Plauto, Bacchilide 953: “..ho anche sentito dire che la caduta di Troia era fatalmente legata a tre destini: primo, che sparisse il Palladio dalla Rocca; secondo che morisse Troilo; terzo, che si spezzasse l’architrave delle Porte Scee. Ebbene, anche la caduta di questa nostra Troia è legata a tre destini..

8) Vedi, ad esempio, Plinio VII 69: “..la predizione si rivelò fatidica”. Cicerone, Sulla Divinazione I 101: “Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e, nel corso di tumulti, parole veridiche provenienti chissà da dove..Marziale V 1: “..tu ispiri i responsi delle veridiche sorelle”. Seneca, Agamennone 255 in riferimento a Cassandra: “..la serva del veridico dio”. Valerio Massimo, Detti e Fatti Memorabili I 8, 10: “..pressoché compiuto dalla voce stessa di Apollo fu il veridico presagio della sacerdotessa pitica a proposito della fine di Appio.” Livio I 7, 10 dove è Evandro a parlare, in riferimento a Carmenta: “Mia madre, interprete veritiera degli dei, mi ha vaticinato che tu andrai ad accrescere il numero degli immortali..

9) Pasqua Colafrancesco, Dalla Vita alla Morte: il Destino delle Parche, pag. 20.

10) Pindaro, Nemee V 22: “Ma anche a loro benigno, là sul Pelio, fu il bellissimo coro delle Muse, e Apollo in mezzo a quelle ne guidava, battendo il plettro d’oro sulla cetra a sette voci, i canti più svariati..Eschilo, fr. 350 citato in Platone, Repubblica 383b: “..il brano di Eschilo dove Teti dice che, cantando alle sue nozze, Apollo ne celebrava la felice figliolanza «..e le loro lunghe vite di malanni prive; e in tutti dicendo cara agli dei la sorte mia il peana innalzò ad allietarmi il cuore. Senza menzogna il divino credea io labbro di Fébo, donde trabocca l’arte sua profetica; e lui, lui che cantava, lui che era al convito, lui che così favellava, fu lui a uccidere il figlio mio».”                                                                                                                                                                                                            

11) Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca I 65: “Altea partorì anche un figlio a nome Meleagro [..] dicono che, quando questi aveva raggiunto i sette giorni, apparvero le Moire, dichiarando che Meleagro sarebbe morto quando il tizzone che stava ora bruciando per terra non si sarebbe consumato del tutto..Platone, Repubblica 617C: “..erano le tre sorelle di Ananke, le Moire, in abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro..

12) Procopio di Cesarea, De Bello Gothico V 25, 19-20: “E [Giano] ha il tempio in quella zona del Foro dinnanzi alle sede del Senato, che si trova leggermente sopra le Tria Fata; i Romani sono usi a chiamarle Moire”.

13) Plinio XXXIV 22: “Da parte mia non trovo neanche strano che la Sibilla abbia una statua presso i Rostri, sebbene ve ne siano addirittura tre: una restaurata da Sesto Pacuvio Tauro [nel 31 a.e.v], edile della plebe, due da Marco Messalla [nel 31 a.e.v]. Penserei che queste fossero le più antiche, insieme con quella di Atto Navio, erette all’epoca di Tarquinio Prisco, se al Campidoglio non ci fossero le statue dei re precedenti”.

14) Lattanzio, Divinae Institutiones I 6: “[Varrone] dice che le Sibille erano in numero di dieci, e le enumerò tutte sotto a gli scrittori che scrissero un racconto su ognuna di loro [..] la quarta quella Cimmera in Italia, che Nevio menziona nei suoi libri della Guerra Punica, e Piso nei suoi Annali [..] La settima era quella Cumana, di nome Amaltea, denominata da alcuni Demofile o Erofile, che dicono che portò nove libri al re Tarquinio Prisco e chiese loro trecento filippici, e che il re rifiutò un prezzo così alto e derideva la follia della donna; dunque lei, sotto gli occhi del re, bruciò tre dei libri e richiese lo stesso prezzo per quelli che erano rimasti; Tarquinia considerò la donna ancora più pazza ma questa, ancora una volta, dopo aver bruciato altri tre libri insistette nel chiedere lo stesso prezzo e il re ne fu persuaso, e comprò i restanti libri per i trecento pezzi d’oro. Il numero di questi libri si accrebbe in seguito, dopo la ricostruzione del Campidoglio, poiché furono raccolti da tutte le città d’Italia e di Grecia, in particolare da quelle d’Eritrea, e furono portate a Roma sotto il nome di qualunque Sibilla provenissero [..] la decima da Tivoli, chiamata Albunea, lì venerata quale divinità lungo le sponde del fiume Aniene, dalle profondità del quale dicono che si rinvenne la sua statua, reggente in libro nelle mani. Il Senato trasferì i suoi oracoli nel Campidoglio”.

15) Virgilio, Bucoliche IV 46: “Filate, dissero ai loro fusi, questi secoli, concordi per lo stabile volere dei fati le Parche”.

16) CIL I2 2844, 2845 e 2846. Vedi Margherita Guarducci, Tre cippi latini arcaici con iscrizioni votive, per l’analisi di scavo e dei monumenti.

17) Varrone, De Lingua Latina VI 7, 51: “L’uomo fatur [comincia a parlare] appena emette dalla bocca una parola che abbia un senso. Per questo, prima che riescano a far ciò, i bambini sono detti infantes [infanti, non parlanti]. Quando sono in grado di far ciò, si dice che essi già fari [parlano]. Per analogia col parlare del bambino si usa non solo questo vocabolo, ma si dice anche fariolus/hariolus [indovino) e fatuus [fatuo]. Dal fatto che allora le Parche fando [parlando] fissano il periodo della vita per i bambini deriva il termine fatum [destino] e l’espressione res fatales [gli avvenimenti fatali]. Da questa medesima radice quelli che fantur [parlano] facilmente sono detti facundi [facondi] e quelli che sogliono fari [parlare] divinando il futuro sono detti fatidici; e gli stessi sono detti vaticinari perché lo fanno vesana mente [essendo fuori di sé] .. Da qui deriva la definizione dei giorni fasti, in cui ai pretori è permesso fari [pronunciare] certe formule legali senza commettere colpa; da qui i giorni nefasti, in cui è vietato fari quelle formule e, se le pronunciano, debbono farne ammenda. Da qui il termine di effata [dichiarazioni] dato alle parole con cui gli àuguri sunt effati [hanno fissato] i limiti dei campi nelle zone extraurbane per l’osservazione degli auspici nel cielo; da qui l’espressione effari templa [determinare le aree di osservazione dei segni celesti]: gli àuguri ne dichiarono [effantur] i termini. Da qui il termine fana [templi], perché i pontefici nel consacrarli ne hanno fati sint [indicato] i limiti..

18) Gellio, Noctes Acticae III 16, 9-10: “Dice Varrone che gli antichi Romani non hanno voluto tener conto di simili rarità, quasi prodigiose, e hanno giudicato che le donne partoriscono secondo natura il nono o il decimo mese e in nessun altro mese fuori di questi; perciò ai tre Fati essi hanno dato nomi derivanti dal verbo partorire, pario, e dai numeri, nove e dieci, dei mesi. «Parca – egli dice – si chiama così da ‘parto’, col cambio di una sola lettera; e ‘Nona’ e ‘Decima’ dal tempo del parto regolare». E Cesellio Vindice nelle sue Letture antiche: «Tre sono i nomi delle Parche: Nona, Decima e Morta», e cita questo verso dall’ Odissea dell’antichissimo poeta Livio: «Quando il giorno verrà che Morta predisse». Ma quel brav’uomo di Cesellio ha scambiato «Morta» per un nome proprio mentre doveva intenderlo nel senso di «moira»”.

19) Micol Perfigli, Indigitamenta pgg.

20) Omero, Iliade XX 127: “..soffrirà quello che a lui la Moira filò col lino al suo nascere, quando la madre lo fece”. XXIV 209: “Così la Moira crudele per Ettore filò lo stame quando nasceva, quand’io l’ho partorito, che saziasse le rapide cagne..” Odissea VII 197: “..là, poi, subirà quanto la sorte e le Filatrici tremende principiando lo stame filarono, quando lo fece la madre”.

21) Giulia Sarullo, Parca Maurtia e (Parca?) Morta.

22) Fulgenzio, Mitologia I 8: “Assegnano inoltre a Plutone tre Fate, la prima di loro è Cloto, la seconda Lachesi, la terza Atropos..Ausonio, L’Enigma del Numero Tre II 19: “..triplice è il volto di Diana; vi son tre Grazie, tre Fate..Apuleio, Sull’Universo 38: “Ma tre sono le Fate, e il loro numero si forma in base ad un calcolo cronologico, se si fanno coincidere le rispettive facoltà allo schema temporale [passato, presente e futuro, ndt] che sto per esporre..

23) Omero, Iliade XXIV 29: “Le Moire hanno dato agli uomini un cuore paziente”. Esiodo, Teogonia 901: “Quindi egli [Zeus] condusse in seconde nozze la splendida Temi [Giustizia], che generò le Ore, Eunomia [Ordine] e Diche [Giustizia] e la fiorente Irene [Pace], che curano le opere degli uomini mortali, e le Moire, alle quali il più onore fu assegnato dal saggio Zeus, Cloto Lachesi ed Atropo, le quali concedono agli uomini mortali di avere il bene ed il male”.

24) Vedi, tra gli altri: Virgilio, Eneide III 374: “Nato da una dea (che tu vada per i mari sotto più potenti auspici è manifesta certezza: così il re degli dèi i fati sorteggia e sviluppa le vicende, e tale è il corso del destino), poche fra molte cose, perché più sicuro tu possa percorrere le distese delle acque che ti ospiteranno, e nel porto Ausonio posare, ti svelerò; impediscono il resto le Parche di sapere”. V 796: “Ai restanti, ti prego, sia permesso di aprire le vele sicuri per te sulle onde, sia permesso fra i Laurenti di raggiungere il Tevere, se sono consentite le mie richieste, se ci assegnano quelle mura le Parche”. IX 107: “..e i tempi le Parche avevano debitamente compiuto”. X 419: “..dopodichè il vecchio nella morte sciolse i lividi occhi, sul figlio posero la mano le Parche e ai dardi lo consacrarono di Evandro”. Ovidio, Fasti III 793: “C’è un orribile mostro [Briareo] che era stato generato dalla Terra, un toro che nella parte posteriore aveva forma di serpente. Per disposizione delle tre Parche, il terribile Stige lo aveva rinchiuso in una foresta priva di luce, protetta da tre cinta di mura”. Metamorfosi V 530: “..ritornerà Proserpina in Cielo, tuttavia a questa condizione, che lì non abbia toccato con la bocca cibo alcuno; infatti, così è stabilito per decreto delle Parche”. Ovidio, Metamorfosi V 807: “Da sola, o figlia, ti prepari a smuovere il Fato invincibile? Entra pure tu stessa nelle case delle tre Sorelle, vedrai lì gli archivi dei destini umani in un’immensa struttura fatta di bronzo e di solido ferro, che non temono né la scossa del Cielo né l’assalto del fulmine né altre rovine, sicuri ed eterni come sono. Troverai lì, incisi in acciaio perenne, i destini della tua stirpe; li lessi io stesso, li impressi nella mente e te li rivelerò perché tu non sia ulteriormente ignara del futuro”. XV 780: “..e muove a pietà gli Dèi; i quali, benché non possano rompere i ferrei decreti delle vecchie sorelle, tuttavia danno segni chiari”. Orazio, Carmen Saeculare 25: “E voi, o Parche, veritiere nel presagire ciò che una volta è stato fissato dal destino, e che il corso immutabile delle cose dovrà confermare, aggiungete ai fausti eventi passati altri favorevoli eventi”. Claudiano, De Raptu Proserpinae II 6: “Tale fu il decreto delle Parche”; De Bello Gildonico 122: “Ma le Parche proibirono che il nostro primo fondatore fosse tratto in inganno da auspici non veritieri”. Isidoro, Etymologiae VIII, XI 92-93: “Si immaginano tre divinità fatali che svolgono un filo di lana servendosi di una rocca, di un fuso e delle dita, simbolo dei tre diversi aspetti del tempo: il passato, già filato ed avvolto sul fuso; il presente, che passa tra le dita della filatrice; il futuro, nascosto nella lana assicurata alla rocca e che deve essere ancora portato dalle dita della filatrice al fuso, come presente rispetto al passato. Le Parche sono così chiamate ϰατ’ ἀντίφϱασιν, ossia per antifrasi, in quanto minime parcunt, cioè in quanto assai poco propense al perdono. Si voleva che fossero tre: una ordiva la vita dell’uomo, l’altra la tesseva, la terza la spezzava. Abbiamo infatti inizio quando nasciamo, esistiamo quando abbiamo vita, abbiamo fine quando moriamo”. Claudio Rutilio Namaziano, De Reditu I 133: “Protendi [Roma] leggi immortali nei secoli futuri e romani e non temere, tu sola, i destini filati dalle Parche..”

25) Cicerone, De Natura Deorum III 17: “..Inganno, Timore, Travaglio, Invidenza, Fato, Vecchiaia, Morte, Tenebra, Infelicità, Lamento, Favore, Frode, Ostinazione, le Parche, le Esperidi, i Sogni, tutte divinità che dicono figlie dell’Erebo e della Notte. O bisogna accettare tutti questi esseri mostruosi, o si eliminano anche gli altri”. Seneca, Hercules Furens 175: “..la vita si precipita con affrettata corsa e tra i giorni che volano si volge la ruota dell’anno a capofitto. Le implacabili Sorelle filano fino in fondo i pesi di lana prefissati e non ravvolgono indietro i loro fili. La stirpe umana, della sua sorte ignara, è trascinata incontro ai Fati che la rapiranno: da noi stessi cerchiamo le onde stigie. Con cuore troppo audace, o Alcide, accorri a visitare i Mani malinconici: le Parche giungono al tempo stabilito, nessuno può sfuggire al loro ordine, nessuno rinviare il giorno fisso: i popoli chiamati l’urna accoglie”. 552: “Sconfiggessi tu le leggi dello spietato Stige e delle Parche i fusi irrevocabili!”. 603: “..della perpetua Notte il Caos e qualcosa di peggio della Notte stessa, gli Dèi tristi, i Fati: tutti io sconfissi”. Oedipus 980: “Dai Fati siamo spinti: cedete dunque ai Fati; non sono in grado gli affanni solleciti di cambiare gli stami del fuso già fissati. Ciò che patiamo, stirpe mortale, ciò che facciamo viene dall’alto e dalla sua conocchia osserva gli ordini Làchesi, e fila con mano implacabile. Tutto procede su un filo percorso e il primo giorno ha dato già l’estremo; non è lecito alla divinità mutare quanto corre connesso con le proprie cause. Per ciascuno procede fisso un ordine, da alcuna preghiera non mutabile: temerlo nuoce a molti, molti giunsero al proprio giorno fatale, mentre temevano i Fati”.  Valerio Flacco, Argonautiche I 502: “Con lui [Zeus] tutti gli Dèi si rallegrano, e le Parche segnano come l’età che incalza e le vie sulle acque aumentano per il loro stesso guadagno [ossia, in età avanzata i mercantili viaggeranno attraverso i mari, e molti moriranno nelle tempeste, “il guadagno dei destini”]”. Eneide X 815: “..e gli estremi fili a Lauso le Parche raccolgono”. Ovidio, Metamorfosi II 649: “.. desidererai di poter morire, allorchè sarai tormentato dal sangue di un feroce serpente penetrato nelle membra ferite e gli Dèi ti faranno, da immortale, soggetto alla morte e le tre Parche taglieranno il filo della tua vita”. VIII 451: “C’era un ramo che, quando la figlia di Testio giaceva sfinita per il parto, le tre Parche avevano messo sul fuoco e, filando il filo del Destino con la pressione del pollice, avevano sentenziato «A te, che sei nato or ora, noi assegniamo la stessa durata del legno».”Properzio, Elegiae II 13: “Vorrei che una qualsiasi Sorella delle Tre mi avesse ordinato di deporre la vita nella mia infantile culla”. Claudiano, De Raptu Proserpinae I 48: “Ma le temibili Parche portarono queste minacce a nulla e, temendo per il mondo, posarono gravemente le loro canute chiome innanzi ai piedi e al trono del Signore degli Inferi, e con lacrime supplichevoli toccarono le sue ginocchia con le loro mani, quelle mani sotto alle quali tutte le cose sono sottoposte, le cui dita regolano il filo del Fato e filano le lunghe epoche con i loro fusi di ferro. Per prima Lachesi, coi capelli spettinati e disordinati, chiamò così il crudele re: «Grande signore della Notte, sovrano delle ombre, tu al cui comando i nostri fili sono filati, che definiscono la fine e l’origine di tutte le cose e l’alternanza di nascita e distruzione; arbitro di vita e di morte..”

26) Virgilio, Eneide XII 147: “Finchè parve che la Fortuna lo tollerasse e le Parche permettevano un buon corso per il Lazio, Turno e le tue mura io protessi; ora che il giovane vedo muoversi allo scontro con un impari destino, il giorno delle Parche e una forza ostile si avvicinano”.

27) F. Haug, Dizionario Epigrafico di Antichità Romane III (sub voce Fatum).

28) ) Franca Landucci Gattinoni, Le Fatae nella Cisalpina Romana, in Culti Pagani nell’Italia Settentrionale, pp. 85-95.

29) Vedi: https://www.theoi.com/Daimon/Moirai.html

30) Da Botticino, BS, CIL V 4209: “FATABUS/ DEICO/ BIEI F(ILIUS)/ V(OTUM) L(IBENS) M(ERITO)”; da Castel Toblino, TN, CIL V 5005: “FATIS FATA[BUS]/ DRUINUS M(ARCI) NO[NI]/ ARRI MUCIANI C(LARISSIMI) [V(IRI)] VEL C[O(N)S(ULIS)]/ ACTOR PRAEDIORUM/ TUBLINAT(IUM) TEGURIUM/A SOLO IMPENDIO SUO FE/CIT ET IN TUTELA EIUS/ (SESTERTIOS) N(UMMOS) (DUCENTOS) CONLUSTRIO/ FUNDI VETTIANI DEDIT”; da Vezzano, BS, CIL V 5002: “FATIS MAS/CULIS SACR(UM)/ STAUMUS VE/SUMI BRITTI (FILIUS) VEL (SERVUS) ET/ CORNELIA S(EXTI) FIL(IA)/ PRISCA/ EX VOTO POSUER(UNT)”.

31) Da Aquileia CIL V 705: “FATIS OCTAVIA/ SPERATA VOTUM/ SOLVIT LIB(ENS) [MERITO]”; CIL V 8217: “FATIS/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)/ TERTIA”; CIL V 775: “FATIS DIVIN(IS)/ ET BARBARIC(IS)/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)/ POSTUMIA P(UBLII) L(IBERTA) CALLIRHOE”. Da Calvagese, BS, CIL V 4208: “FATIS/ DERVONIBUS/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO) M(ARCUS) RUFINIUS/ SEVERUS”. Da Brescia CIL V 4296: “[..]/ FATORU[M]/ NOMINE ST[ATIAE?]/ C(AI) F(ILIAE) CORNELIA[NAE ET]/ C(AI) TERENTI CORNE[LIANI]/ ET M(ARCI) SILI CORNE[LIANI]/ FILIOR(UM) ET [SUO?]/ M(ARCUS) NONIUS CLARUS I[..]/ L(OCO) D(ATO) D(ECRETO) [D(ECURIONUM)]”. Da Como Pais, Suppl. It. 739: “[F]ATIS [N]IXIBUS]/ NINIA AETHERIA/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)”. Da Trento CIL V 5012: “FAT[IS…]S”.

32) Ovidio, Metamorfosi IX 281 sgg: “Torturata per sette notti, per sette giorni, sfinita dalle pene tendevo al cielo le braccia, invocando a gran voce gli dei Nixi, i gemelli e Lucina..Festo, sub voce Nixii Dii: “Si chiamavano così certi dèi, poiché si credeva che presiedessero agli sforzi delle partorienti [..] Si chiamavano così tre statue inginocchiate sul Campidoglio, davanti al sacrario di Minerva, come se presiedessero alle doglie delle partorienti. Alcuni autori hanno scritto che queste statue furono sottratte dal popolo romano ad Antioco, a seguito della sconfitta del re di Siria, condotte a Roma e poste nel luogo ove attualmente si trovano da Acilio [il console Acilio Glabrione]. Secondo altri, vi furono portate dopo la presa di Corinto..

33) Comune è l’epiteto Dervonnis, legato a Dervio sulla sponda orientale del lago di Como, presente nella dedica summenzionata di Calvagese e in una dedica alle Matrone di Milano, CIL V 5791: “MATRONIS/ DERVONNIS/ C. RUFINIUS/ APRONIUS/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)”. Le due iscrizioni condividono anche il nome dei rispettivi dedicanti, Rufinius.

Petronio, Satyricon 29, 6: “Al suo fianco c’era la Fortuna con il corno dell’abbondanza e le tre Parche impegnate a filare con conocchie d’oro”.

Dio che sorveglia il limite

la differenza principale, come nota Torelli[36], è data dal fatto che mentre le due Carmente Antevorta e Postverta proteggono il modus della nascita, Neuna e Decima proteggono i tempora.

TORELLI Roma e Lavinio cit. pag. 183

Un gruppo di Fata Scribunda, coinvolto nelle operazioni rituali adempiute ad una settimana dalla nascita, con l’imposizione di un destino personale; ai Tria Fata sarebbe stata invece riservata la competenza più generale di proteggere la nascita vera e propria.

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