Le iniziazioni giovanili, sanzionano la verifica dei requisiti di fanciulli e fanciulle per assolvere funzioni essenziali di rinnovamento sociale e cittadino, come tali sono in antico, guerra e riproduzione.[1]
Sindacare i processi di iniziazioni femminili nel mondo romano arcaico e laziale, non solo deve attenersi ad una circostanziata analisi delle fonti antiquate, ma deve anche analizzare con attenzione i dati archeologici disponibili attraverso filtri che tengano in considerazione varie fasi di interazione culturale che dettano nuove mode, o impongano nuovi culti o sovrapposizioni funzionali. Non a caso, Mario Torelli[2], nell’analisi delle tombe principesche di Praeneste di epoca orientalizzante, coglie uno strappo sociale importante nei ruoli attribuiti a uomini e donne; infatti gli antichi abiti saliari per gli uomini e dell’abbigliamento tipico delle vestali per le donne, prerogative di connotazioni funzionali arcaiche, dalla guerra al matrimonio, cedono il passo a nuovi modelli, come gli strigili e vasi a gabbia per gli uomini che così acquisiscono connotati atletici, o l’elemento della bellezza con ciste e cosmetici per le donne, sempre più avvicinate ad un ideale ellenico della dea Afrodite[3]. In questo lasso temporale possiamo tuttavia cogliere la centralità delle iniziazioni di pueri e puellae, attraverso lo scorrere del tempo e soprattutto anche attraverso una analisi, della cosa più importante che il mondo romano ci ha lasciato, cioè il tempo. I romani ci hanno lasciato la loro concezione del tempo attraverso il calendario, ed è un lascito, quanto mai preziosissimo poiché da questo e dalla analisi congiunte delle fonti scritte e dati archeologici, un quadro è ricostruibile piuttosto coerentemente.
L’area della antica città di Lavinio ha restituito diversi resti notevoli, dall’heroon di Enea, all’area delle XIII are, all’Aphrodision, al santuario delle foci del Numico detto lucus Solis Indigetis, al santuario non distante della solfatara o oracolo di Fauno, ma soprattutto essenziale per la nostra ricerca che fa leva su un mirabile lavoro di Torelli, il santuario orientale di Athena Ilias[4]. L’attribuzione ad Athena Ilias, del santuario orientale si deve a Pugliese Carratelli[5], per aver subito ricollegato i passi di Licofrone e Strabone. Lo scavo del santuario, ha restituito un ricchissimo materiale votivo con ex vota che vanno da elementi anatomici, a statuette matronali con bambino, gruppi familiari, statuette di bronzo, alcuni infanti in fasce, patere a altro; ma il materiale più numeroso è rappresentato da statue votive a due terzi dal vero o ad altezza naturale, di divinità e di giovani sia uomini che donne. I fanciulli maschi recano in massima parte la Bulla, così come le fanciulle sono riccamente ingioiellate, ma sia pueri e puellae sono nell’atto di offrire qualcosa.
Un santuario identificato per via delle fonti con quello di Athena Ilias, cui constatiamo la maggior parte di ex vota costituita da statue di fanciulle e fanciulli, non può non ricondurre alla funzione della dea preposta ai riti di transito di fanciulli e fanciulle, cui non mancano elementi che rimandano alla famiglia e alla riproduzione. Il santuario si data al VI secolo a.C. e conosce un progressivo abbandono nel III sec a.C, del resto anche il complesso votivo delle statue si pone tra inizio V e fine IV secolo A.C.
Tra le statue di Athena, ben quattro, quella più antica, mostra tratti insoliti dalla spada al posto della lancia, allo scudo beotico con simboli della luna crescente, ad un aspetto più ionico dell’usuale che ha spinto alcuni ad iscrivere il reperto nel novero del cosiddetto ciclo troiano di Lavinio[6]. Licofrone e Strabone rimandano entrambi al santuario di Atena Ilias a Lavinio[7], e proprio Licofrone riconosce ad Athena l’epiteto di “Myndìa” che ricorre una sola volta nel poema, proprio per indicare la dea troiana, dal momento che la menziona quando Enea, è nell’atto di costruire un Sekòs alla dea a Lavinio. Ora tralasciando momentaneamente Roma, un altro culto all’Athena Ilias, sempre seguendo Licofrone[8], si trovava nell’area dell’antica Lucera, nella Daunia. Qui sorgeva un santuario che conferiva asilo a quelle fanciulle che volevano evadere l’obbligo del matrimonio; occorreva che le fanciulle si vestissero da Erinni, cioè di nero, dipingessero il loro volto e abbracciassero la statua della dea, così in una sorta di contrappasso di Cassandra, avrebbero evitato le nozze[9]. Ma v’è di più; in un passo di Giustino nelle epitome di Pompeo Trogo,[10] si ricordano gli eventi che videro la conquista di Siris ad opera di Mataponto, Sibari e Crotone. Il tempio della dea Athena, cui stavolta manca l’epiteto di Ilias, venne violato dai conquistatori che trucidarono cinquanta giovani che avevano cercato asilo nel tempio della dea e ne abbracciavano supplici il simulacro; anche il sacerdote della dea non fu risparmiato. Poco tempo dopo l’eccidio e la distruzione, dilagarono carestie e pestilenze, sicché per primi furono i crotonesi a chiedere il responso delfico. La pizia riferì loro che le piaghe sarebbero terminate non appena fosse stato placato il nume irato, così come i mani degli uccisi e ciò sarebbe stato possibile erigendo loro delle statue a grandezza naturale. Ora il passo mostra un rapporto prediletto tra i giovani e la dea Athena, come pare ben esplicare il rinvenimento di statue di fanciulli e fanciulle a Lavinio nel santuario orientale, propedeutiche alla funzione della dea nei transiti e nei riti di passaggio.
Per i pueri la transizione di stato si ha con l’acquisizione della toga virilis, nel giorno dei Liberalia il 17 di marzo; l’età sebbene a discrezione del pater familias, oscillava tra la fine del quindicesimo e il compimento del sedicesimo anno di età[11], ma la cerimonia della ductio in forum veniva preceduta nella casa paterna dalla consacrazione della bulla ai Lares familiari. La Bulla era una collana che pendeva sul collo dei ragazzini che indossavano la praetexta e molte delle statue di fanciulli dedicate come ex vota a Lavinio nel tempio di Athena, recano la bulla; ora notizie colte tra un commento pseudo acroniano ad Orazio e Persio[12], menzionano che se i pueri, consacravano la bulla ai Lares familiari, le puellae facevano altrettanto con le pupae, cioè le bambole, che per il solo Persio, venivano invece consacrate a Venere; ciò avveniva, nel momento in cui si diveniva adulti, adeguati ai compiti di matrona e/o cittadino.
Ora nel novero delle similitudini di iniziazioni maschile e femminile, abbiamo ulteriori informazioni da due passi di Festo[13] secondo cui il giorno prima delle nozze, momento nel quale si verifica il mutamento di status della puella, le vergini, per buon augurio andavano a dormire vestite di tuniche bianche tunicis regillis e reticelle dorate reticulus luteis, entrambe rectae, cioè tessute in senso verticale da tessitrici in piedi, come lo stesso procedimento occorre per le toghe virili. I fanciulli una volta aver deposto e consacrato la bulla ai Lares familiari, indossavano la toga detta libera o pura, con ovvi richiami ai Liberalia[14] (o ai Liberi figli) o al colore bianco[15].
I Liberalia del 17 marzo dunque, presupponevano questo rituale ciclico della attestazione dei nuovi cittadini. Abbiamo contezza da un passo di Agostino che Varrone, riferiva che il dio Liber a Lavinio, avesse in suo onore feste per un intero mese; si trattava di feste dal carattere fallico tra campagne e città, con sconcezze pronunciate e una processione di un gigantesco fallo che in ultimo veniva coronato dalla più onesta matrona. “Libero così andava propiziato per la protezione dei semi liquidi, cui il vino aveva il primato e anche a scopo apotropaico”[16]. A Roma invece in occasione del 17 marzo, le vecchie coronate di edera come sacerdotesse del dio Libero, stanno sedute per tutta la città con focacce e bracieri sacrificando per i compratori.[17] La ductio in forum dei nuovi togati li iscrive pienamente nel novero dei nuovi cittadini, mentre l’elemento marziale sembra garantito dall’agonium contestuale nello stesso giorno, compiuto dai salii come si evince via Macrobio da Masurio Sabino, da diversi calendari e dallo stesso Varrone.[18]
L’iniziazione femminile a dispetto della maschile non presenta un apparente “tirocinio”, ma si concreta nel matrimonio, dove le puellae diventano matronae, dunque le nuptiae sono la discriminante per il cambio di status femminile. Tuttavia sia pueri che puellae alla vigilia del giorno del mutamento di status, matrimonio o Liberalia con la ductio in forum che sia, consacrano la bulla ai Lari o le bambole a Venere (o anche altri giochi come pare dagli ex vota Laviniati), e indossano la tunica recta con la quale vanno a dormire. Ma è nel giorno del mutamento di status che i destini si separano; i pueri vestono la toga ma nel complesso divengono cittadini e militari, le donne altresì nel giorno delle nozze ricorrono ad un vestiario molto particolare.
La testa della nubenda era coperta dal flammeum, un fazzoletto rosso, con alla vita un cingulum, una cintura di lana di pecora, legata con un nodo detto Herculeus, che il marito doveva sciogliere nel talamo, come buon augurio per avere la stesse prole di Ercole[19].Il dettaglio della cintura con il nodo da sciogliere rimanda al simbolismo matrimoniale nella sua sfera intima, come sembra rilevare legittimamente Torelli, e contestualmente alla comparazione con il matrimonio spartano, come ben esposto nella vita di Licurgo, da Plutarco.[20]
Decisamente più complessa è invece l’acconciatura, poiché abbiamo contezza nella tradizione vi fosse memoria di un ornatus vetustissimus, che accomunava direttamente le nubendae con le Vestali. Ancora Festo ne dà notizia, asserendo le spose fossero ornate con senis crinibus che dovremmo tradurre “sei boccoli” o “capelli divisi per sei”, ornato davvero antichissimo e per alcuni tale acconciatura viene usata perché così si pettinano le Vestali. Così le spose possono mostrare ai loro mariti la castità. Il passo è stato lungamente al centro di grande dibattito poiché in base ai ritratti che possediamo delle vestali, provenienti dal Foro Romano, piuttosto che dai rilievi, nulla sembra rimandare ai seni crines.
Torelli rimarca invece come tracce dei seni crines possono facilmente evincersi nelle statue votive di Lavinio dove al di sotto di tipi più o meno pesanti di flammeum o sotto altre acconciature, si distinguono tre ricciolini pendenti a ciascun lato delle tempie delle nubendae; si tratterebbe di una acconciatura antichissima relitto della prima età del ferro, come ben mostrato in tombe femminili tra VIII – VII secolo a.C. tra area sud etrusca e laziale, che hanno restituito sul petto o nel capo delle defunte, spiraline metalliche, le così dette hélikes, di bronzo, oro o argento.[21] Potremmo dunque intendere che le nubendae vestissero come le vestali nel momento della captio del pontifex maximus? O più probabilmente come quando le vestali da minores divenivano maiores?[22]
Ma è dall’acconciatura che noi possiamo meglio comprendere come i seni crines siano connessi ad un altro strumento, retaggio di tempi antichissimi, la caelibaris hasta. Le fonti che ne parlano dispiegano un quantitativo molto ampio di eziologie, da cui desumere, come il senso originario di quest’oggetto fosse almeno sfumato o in alcuni casi dimenticato e rimanesse come semplice fossile di antichissimi usi.
Festo[23] dice il capo della sposa veniva pettinato con l’hasta caelibaris, “che era stata conficcata nel corpo di un gladiatore abbattuto e ucciso così essa era legata al marito; oppure perché le matrone sono sotto la tutela di Giunone Curite, che viene chiamata così per via dell’hasta che porta, in sabino curis; oppure perché sia di buon augurio nel generare uomini forti; oppure perché l’asta è simbolo di imperio del marito cui la donna è sottomessa”. Plutarco non va lontano da queste eziologie, ma Ovidio parla di hasta recurva[24]e sembra non lontano dalle prime affermazioni di Festo che definisce la caelibaris hasta sul modello di quegli uncini con cui si tiravano via i corpi dei gladiatori uccisi dall’arena. Chiude il cerchio delle fonti Arnobio[25]che scrive la caelibaris hasta servisse alle madri per “accarezzare” “mulcentis” i capelli delle figlie; ciò denota come l’hasta fosse un retaggio antichissimo che passò dal pettinare i capelli alle spose, al semplice accarezzarli.
Articolando le fonti, soprattutto Festo e Ovidio, può facilmente desumersi sulla scorta dei lavori del Torelli[26] come la caelibaris hasta se ricurva e paragonata a ciò con cui trainare i cadaveri dei gladiatori, sia un piccolo uncino, particolarmente indicato per alcuni tipi di pettinature. Ancora oggi le pettinatura dette “Coachella” con trecce molto piccole di capelli, adornate con tubicini a spirale o palline, presuppongono l’uso di uncini con i quali fermare le treccioline e farle penetrare nei piccoli forati, ottenendo quell’effetto di capelli fermati da elementi che in antico, erano detti “hélikes”. Si tratta di un modello davvero antico, caduto presto in disuso, già nel VII secolo. Una analisi dettagliata delle statue a Livinio mostra come i seni crines cedano il passo a sei boccoli molto grandi, posti ai lati del volto della sposa. Ora le nubendae abbiamo visto vengono abbigliate secondo un modello arcaico molto vicino se non aderente in tutto alle Vestali, sebbene le spose rechino il flammeum a dispetto del suffibulum delle sacerdotesse di Vesta, non di color bianco ma rosso.[27]Ma vi è ancora un’altra grande similitudine tra nubendae e vestali e tra iniziazioni maschili e femminili, cioè la tonsura. D’altronde le raffigurazioni che abbiamo di vestali senza suffibulum mostrano come nei rilievi della Cancelleria, avessero crines tonsi cioè i capelli tagliati cortissimi, tesi a rispecchiare lo stato di perenne nubenda, come evidente anche dalla altra notizia antiquaria contenuta in Festo[28], per il quale i capelli tagliati, per di più le trecce, delle vestali pendessero appesi ad un albero di loto, detto arbor capillata o capillaris. Il taglio di capelli rimanda ad un passo plutarcheo della vita di Licurgo cui si espone il matrimonio spartano antico, che numerose similitudini reca con quello romano, dal ratto alla tonsura[29]sicché impone un’indagine antropologica tesa a capire perché mai nei riti delle iniziazioni giovanili, si ricorra al taglio dei capelli e anche, perché mai dal matrimonio a certe altre festività e rituali di marzo, vi sia una sorta di inversione dei ruoli, quasi un dato carattere volutamente promiscuo[30]. Ora nel passo della vita di Licurgo, viene detto la sposa viene rapita e data in consegna ad una madrina che le rasava il capo e le faceva indossare un mantello e sandali da uomo, facendola poi coricare su di un letto di paglia al buio. Lo sposo dalla mensa comune si recava dalla sposa, le scioglieva la cintura (allusione al rapporto intimo) e la portava in braccio sul letto. Trascorso poco tempo con lei, tornava a dormire con gli altri giovani; così si comportava per altro tempo, passando il giorno e dormendo con i suoi coetanei e andando a trovare la sua sposa di nascosto e con circospezione.
Ora posta la tonsura per le vestali e i giovani nel Lusus Troiae cui da Virgilio abbiamo contezza della “tonsa coma “[31], a Roma essa con ovvia probabilità venne di fatto superata come sembrano già mostrare le statue votive del santuario di Athena Ilias di Lavinio. Torelli mostra come progressivamente i capelli non vennero più tonsi ma soluti, non più tagliati ma pettinati, con una progressiva tendenza ad una tonsura che vincolata alla sola nuca, si perde del tutto, fino a scomparire negli ex vota più recenti o perlomeno, nei dati in nostro possesso, mostra un progressivo e veloce declino dal IV sec. a.C.[32] Queste deduzioni aiutano a comprendere come molti tratti antichi vennero a perdersi e modificarsi, lasciando tracce o fossili di difficile spiegazione anche per molti antiquari. Se la tonsura era però una caratteristica peculiare delle iniziazioni giovanili da dove essa proviene? A Roma quale altra fonte ce ne dà contezza?
A Roma abbiamo contezza del culto a Venere Calva e alla Fortuna Barbata. Ora se Venere recando l’epiclesi di “Calva” rimarca il concetto di tonsura matrimoniale, l’epiteto di Fortuna, “Barbata” rimanda a quella promiscuità operante nelle unioni matrimoniali. Servio e la Suida[33], ne offrono diverse eziologie tra cui la più inflazionata nella letteratura e storiografia antica, è quella in materia di vicissitudini ossidionali come in questo caso; durante l’assedio gallico del 390, molte donne avrebbero sacrificato i loro capelli per ottenere delle funi. Sicché parrebbe un’eziologia piuttosto comune, se non fosse posto l’accento sul nome della donna, che per prima avrebbe sacrificato i suoi capelli per il bene comune; costei era Domizia.[34] Ora se i gentilizi si insinuano dentro una leggenda, ciò non rappresenta un puro caso, piuttosto essi diventano in questo caso, rivelatori di informazioni sulla statua della Venere Calva. Svetonio comincia la biografia di Nerone asserendo i cognomina più importanti per la gens Domitia erano non casualmente Calvini ed Enobarbi[35]. I Calvini paiono un ramo più antico della gens Domitia, dal IV secolo a.C. al III secolo a.C. raggiungono magistrature importanti e poi spariscono per circa due secoli per riapparire nel I secolo a.C., probabilmente con un ramo collaterale della famiglia originaria. Più o meno in connessione con gli ultimi Calvini, risale l’avvento di un altro ramo dei Domitii cioè gli Enobarbi. Calvini e Enobarbi affini ai culti di Venere Calva e Fortuna Barbata. L’area che viene riconosciuta come possesso dei Domitii non casualmente è quella tra Velia, Carinae non lontano da dove poi si diparte il Caelio importante per le azioni che la tradizione rimanda a Tullo Ostilio. Insomma l’area tra Velia e Carinae è dove Nerone edificherà il complesso della Domus Aurea.
Da Festo[36] abbiamo contezza che il sacellum di Mutuno Tutuno si trovava davanti al muro Mustellinus [37]cui vi erano più are, vicino alla casa di Gneo Domizio Calvino, che pontefice nel 36 a.C., aveva fatto restaurare con le manubiae del suo trionfo iberico, la domus publica e il sacello di Mutuno colpiti da un incendio recente. Ora presso tale sacello, le donne “solevano officiare con il capo velato dalla praetexta”. Vi è dunque da arguire il culto di Mutuno sia vicino al sacellum della Venere Calva e anzi, sembra probabilissimo che, nel complesso le due aree siano intimamente connesse. Sicché quel sacrum che le donne officiano capite velato con la praetexta (posta a mostrare l’ancora non avvenuto passaggio di status?) poteva avere a che fare con il fallo ben mostrato dal culto di Mutuno, come propedeutico al matrimonio, se connesso anche con sacello di Venere Calva che reca la classica tonsura prematrimoniale, oltre ad un pettine in mano. Ora, nonostante il tema sia decisamente più complesso e articolato, possiamo arguire il culto di Fortuna sia speculare a quello di Venere, cioè in molti casi ne rappresenta una debita stratigrafia antecedente che scandisce l’approdo dell’Afrodite orientale nel Latium, barbuta e maschile nella parte superiore e femminile nella sezione inferiore, fin dalla prima attestazione del 296 a.C. con il tempio in circo maximus dedicato da Quinto Fabio Gurgite alla Venus Obsequens [38]; insomma una divinità volutamente androgina, ben ascrivibile alla promiscuità matrimoniale, nel concetto di transito, come nei travestimenti nei matronalia e delle saliae virgines. Nel nostro caso una statua dovutamente ridedicata che da Fortuna Barbata, diviene Venere Calva connessa con il culto fallico di Mutuno, da un lato rimanda ai culti della vallis Murcia di Fortuna Virile e Venere Verticordiae, con cui condivide il fallo e elementi preparatori prematrimoniali, dall’altra deve tenere conto di altri due fattori aggiuntivi: la vicinanza al Tigillum Sororium, sacra apertura posta sotto la Velia e la non lontananza con il sacello della Minerva in Celio, quello che Varrone chiama “Minervium”[39], la cui antichità, (riconosciuto come dies natalis il 19 di marzo giorno tra l’altro delle Quinquatrus[40]), Torelli rimanda alla istituzione delle curiae novae, create da Tullo Ostilio sul Celio, con l’immissione di nuovi cittadini provenienti dai centri latini conquistati. Dunque Torelli intende la creazione del sacello come il trapianto a Roma del culto centrale dei latini, per i riti di passaggio giovanili e per la reciprocità matrimoniale, che era quello dell’Athena Ilias, di Lavinio; ma ancora si pone l’accento sulla figura di Tullo Ostilio e la sua centralità per aree come Velia, Celio e Carinae, con il Tigillum Sororium, cui la tradizione rimanda all’eziologia della provocatio legata alla vicenda dell’Orazio che uccide la sorella, disperata dalla perdita il suo promesso sposo, mentre l’ordalia trigemina aveva concesso la vittoria a Roma.[41]Ora diventa importante centrare la spiegazione di questa piccola portella anche in base ai culti, cioè alle due are che affiancano il monumento, il culto di Giano Curiato e quello di Giunone Sororia, che reca l’epiclesi speculare a quella del tigillum. Non può sfuggire il nesso tra apertura e ammissione o riammissione di qualcuno nel corpo civico, con un Giano dio degli inizi, che può immettere nelle curiae, cioè colui che introduce i giovani ai diritti civici, in un istituto curiato e non ancora centuriato; tuttavia non è foriero vedervi una prefigurazione della porta come prototipo di vecchia porta trionfale cui si ci purificava venendo riammessi in città. L’elemento iniziatico però, sembra configurarsi dal culto di Giunone “sororia” che mette l’accento sul significato di sororiare che come ben mostrato da Festo[42], rappresenta il momento nel quale il seno mostrando delle forme, sentenziava la fertilità delle donne atte dunque a nubere. [43] Ci troveremmo così davanti ad uno stato antecedente i culti pur limitrofi di Mutuno e della Fortuna Barbata – Venere Calva, che connettono il Tigillum Sororium con quella concezione dotta che si dava alla Sacra Via cioè dal sacellum Streniae appena fuori il Tigillum Sororium fino all’Arx, transitando per la Regia in Foro urbano. In base ai dati in nostro possesso non possiamo sapere se le iniziazioni giovanili, transitassero per il tigillum con i Salii o con le nubendae, nel novero dei cicli delle feste di Marzo, seppur ciò sarebbe molto stimolante da pensare. Tuttavia abbiamo ancora una volta contezza che come nel calendario, anche nelle festività e cerimonie la Roma antica, lascia coerentemente intravederne le diverse stratigrafie.[44]
Giovanni de Santis.
Ad Maiora Vertite.
Fonti Bibliografiche.
M. Torelli “Lavinio e Roma”, 1984. Fonte principale per questo articolo.
M. Torelli “La forza della tradizione”,2000.
E. Viotti “La via Romana agli dei”, 2022.
F. Coarelli “Il foro romano”, 1983.
F. Coarelli “il Foro Boario”, 1988.
Sabbatucci “la religione dei Romani”, 1988.
Schilling “Le religion romaine de Venus”, 1954.
E. Montanari “Roma momenti di una presa di coscienza culturale”, 1976.
Pugliese Carratelli “Roma, Lazio e Magna Grecia prima del IV secolo a.C.” 1968.
[1] Fondamentali i lavori Angelo Brelich, “iniziazioni” 1960; Brelich, “Paides e Parthenoi”, 1969.
[2] Mario Torelli “La forza della tradizione”2000; M.Torelli “Lavinio e Roma”,1984.
[3] Torelli, 2000, pag.68.
[4] Torelli, “Lavinio e Roma “1984.
[5] G.Pulgiese Carratelli “Roma, Lazio e Magna Grecia prima del IVsec.AC, 1968; G.Pugliese Carratelli, “Nuovi orizzonti nella storia della Lucania”, 1980.
[6] M. Torelli, 1984.
[7] Lyc frag 980; frag 1253 – 1262; Strabo Geo VI 1,14.
[8] Licofrone frag.1128; Musti “Una città simile a Troia” in Ach.Class. XXXIII, 1981.
[9] M.Torelli, 1984, pag 21.
[10] Iust.XX,2.
[11] Cicerone pro Sestio 69; ad Attico V, 20 e VI, 21, soprattutto per l’età Livio XXII, 57,9.
[12] Ps. Acr.Hor.Sat. I, 5,65; Persio, V,31.
[13] Festo, 364; 342.
[14] Ovidio Fasti III, 761.
[15] Cicerone, Ad Attico V, 20; IX, 17 19.
[16] Agostino De Civ D.VII, 21.
[17] Varro de L.L.VI 14.
[18] Fasti, Verulani, Caeretani, Vaticani; Macrobio Sat. I,4, 15; Varrone, l.L. VI, 14.
[19] Festo, 55.
[20] Torelli, 1984.
[21] Torelli, 1984, dove l’a. si riferisce alla necropoli dei Quattro Fontanili a Veio tomba JJ18-19b; e la tomba principesca HH 11-12 con spiraline auree a sezioni terminali in ambra.
[22] Torelli, 1984; la distinzione di classi d’età tra le vestali è posta da alcuni fonti tra cui Servio cui tre maximae fanno da contraltare a tre minores; Torelli rimarca come sia desumibili all’ara Pacis tre vestali di statura normale, seguite da tre vestali più piccole, probabilmente minores.
[23] Festo 55.
[24] Ovidio Fasti II, 558.
[25] Arnobio II, 67.
[26] Torelli, 1984.
[27]Festo,79 e 82, cui si rimarca venisse usato lo stesso modello che usava la flaminica; Torelli, 1984. L’a. pone in risalto il caso della vestale Cossinia da Tivoli che ha lasciato una epigrafe funeraria di I secolo, cui rimanda ad un sacerdozio come vestale di 66 anni e a cui riconosce al tempo della morte, un’età da 72 anni in poi. Torelli rilevava come il rinvenimento di una bambola, accanto alla tomba di Cossinia mostrasse come le vestali, venissero sepolte con le pupae perché conservassero a vita il titolo di eterne nubendae. Tuttavia, la sezione cui è stata rivenuta la bambola che tuttora conserva il nome di “bambola di Cossinia”, in realtà ha restituito tracce di ossa femminili di una donna giovanissima e inoltre la stessa bambola, reca una pettinatura sul modello di Iulia Domna, sicché ben ascrivibile al III secolo d.C . Questi dati sconfessano, una intuizione che sarebbe stata magnifica, ma che tuttavia può esser oggetto di discussione, nel rapporto tra pupae e vestali.
[28] Festo 50.
[29] Plut. Vita Lyc. 15,4-9.
[30] Cfr i Matronalia del 1 marzo cui vi era un travestimento femminile degli uomini o il la figura delle Saliae virgines ecc. Per una completa panoramica delle iniziazioni giovanili, Brelich 1961 e 1969.
[31] Virgilio Aen. V, 556 “ominis (scil. Iuvenes) in morem tonsa coma”.
[32] Torelli, 1984, cfr. la tabella pag. 40.
[33] Servio ad Aen.I, 720; Suida cfr Schol.Il.II,820.
[34] Torelli, 1984; cfr Gagè “Matronalia”, 1963.
[35] Suet. Nero, 1, cui si offre l’eziologia secondo la quale il tocco da parte dei Dioscuri alla barba di un Domizio la rese rossa da cui Enobarbo.
[36] Festo 142.
[37] Torelli 1984; Festo, 142-143.
[38] Chiedo venia, capisco il tema è di una vastità quasi infinità e così come esposto, suona relativamente incompleto e parziale. Per una visione più dettagliata, Schilling “La Religion Romaine de Venus”, 1954; Torelli 1984; Gagè 1969; Coarelli, “Foro Boario”, 1988.
[39] Varrone l.L.V, 47; cfr. Ovidio Fasti III, 835, con il nucleo di tante eziologie.
[40] Torelli rimarca l’errore di Verrio Flacco che riconosce Minerva in Aventino il 19 di Marzo e Minerva in Caelio il 19 giugno.
[41] Cfr.Roberto Fiori “il crimen dell’Orazio superstite”; Sabbatucci “La religione di Roma Antica”,1988.
[42] Festo, 380.
[43] F. Coarelli, “Il foro Romano Arcaico”1983. Su tutta la questione cfr Sabbatucci, 1988 e E. Montanari “Roma, Momenti di una presa di coscienza culturale”, 1976.
[44] Mi riservo un ulteriore articolo per centrare meglio molti temi, ma soprattutto affrontare il tempo dei processi iniziatici di marzo a livello calendariale. Non posso che rimandarvi al nostro canale Ad Maiora Vertite con i relativi contenuti video e nel blog, al testo “La Via Romana agli Dei” di E. Viotti e a un prossimo articolo molto interessante che ho avuto il privilegio di leggere e consultare “Anna Perenna” 2022.