Il paradigma di Veio e Furio Camillo

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EVOCATIO E TRIONFO.

La conquista di Veio, rappresenta per la storia di Roma, un evento cruciale; non solo sotto un punto di vista politico ed economico, ma soprattutto paradigmatico. Dalla pur sospetta durata decennale del conflitto, che pone interessanti parallelismi con la guerra di Troia, alle discordie intestine in Roma, il nucleo storiografico lascia evincere come, alla congruente pax deorum, fosse altresì necessario l’ottenimento della concordia civica.  Tutto il nucleo della trattazione liviana, partendo dal fatale conflitto con Veio, passando per il sacco gallico, culmina con le leges licinae-sextiae, e la dedica del tempio di Concordia ad opera di Camillo, padre o figlio; un ciclo narrativo serrato e dibattuto, che traghetta Roma dall’epopea, alla piena epoca storica[1].

Proprio quei tempora, segnalano la straordinaria figura di Marco Furio Camillo, il fatalis dux liviano, che sembra dominare tutto questo scorcio fondante del IV secolo, tanto che qualche studioso ebbe a definire questo periodo “il principato di Camillo” [2]. Un personaggio cruciale Camillo, ma al contempo, nuovo fondatore di Roma, dopo il sacco gallico; figura centrale atta a ristabilire non più una Roma “data”, ma a forgiare una Roma “voluta”, permeata sulla concordia civica [3]. L’assoluta importanza di una fonte come Livio si manifesta con preminenza, perché foriera di moltissime informazioni, che ci lasciano supporre lo storico patavino per la guerra con Veio, attingesse da fonti (dirette o indirette) molto vicine ad un ambiente etrusco. Il costrutto liviano, ci mostra una grande altalena di eventi, che da un’iniziale concordia di Veio ottenuta attraverso la forzatura di una monarchia, dopo il lectisternium del 399, comincia a procedere verso Roma. Il prodigio delle acque del lago albano, la cattura del vecchio aruspice di Veio, la supposta ambasceria romana ad Apollo pitico a Delfi, offrono ai romani lo spunto per ripristinare la Pax Deorum e canalizzare le acque del lago verso i campi, unica strada per far vertere a loro vantaggio il prodigio. Ma è in questa linea direttiva che Livio, inserisce il rito dell’evocatio, con spirito antiquario, rendendo edotti i lettori di un rito particolare, come più tardi farà della devotio. Due riti altamente particolari, pertinenza della scienza pontificale romana. Il termine “evocatio” è reso solo da Macrobio nei Saturnalia, mentre altre fonti, danno menzione soltanto di “divinità evocate”, tanto che su questa deduzione Blomart e Rupke, preferiscono piuttosto riferirsi a “deos evocare” piuttosto che a “evocatio” [5].

Ovviamente un rito particolare, espletato in un contesto particolare e pronunciato, su suggerimento pontificale, da un personaggio così particolare quale Camillo, si presta ad una particolare suggestione, soprattutto rilevando quanto il duce fatale di Livio, davvero si erga a prototipo del romano perfetto, incarnate in se una pluralità di virtù tipicamente romane, assieme religiose e militari. Furio Camillo entra nel vivo dell’azione, una volta che Roma ha ripristinato la pax deorum, e la sua dittatura si segnala come necessaria, ora che Veios fata adpeteband [6]. Il dittatore ripristinata la disciplina militare e l’onore delle armi romane, predispone assalti alle mura, con lo scopo di eludere i lavori di scavo di un cunicolo che porterà i romani, direttamente nel cuore della città nemica, sull’arce, nel tempio di Giunone a Veio. Il fatalis dux liviano, novello Ulisse, è ormai pronto all’assalto finale, avendo già chiesto lumi al senato romano su come redistribuire l’ingente bottino che la rivale etrusca avrebbe garantito una volta espugnata e avendo altresì promesso, ludi magni e un tempio alla divinità prediletta mater Matuta.

 

Camillo, prende gli AUSPICIA nella sua tenda; prega Apollo Pitico, il cui oracolo aveva fatto volgere il prodigio del lago Albano, a vantaggio dei romani, promettendo al Dio la decima parte del bottino.

 

Ora, in Livio V, 21, fa il suo esordio storiografico l’evocatio. L’evocatio, è una speciale cerimonia religiosa con la quale la divinità protettrice della città nemica, viene chiamata alla causa romana, di fatto chiedendole il permesso di conquistare la città, cui un tempo si ergeva a protettrice. L’evocatio si sposa coerentemente con la religiosità dei romani: essi chiedono il permesso alla divinità, soprattutto per non incorrere in un sacrilegio con il quale manterrebbero l’ostilità del Dio o della Dea, verso se stessi, turbando la tanto essenziale pax deorum. Se la divinità evocata, dava il suo assenso ai romani, la città nemica era di fatto desacralizzata assieme ai suoi sacra [7]. Avremmo agio di mostrare sulla scorta di Giorgio Ferri, autore di due grandi opere sull’evocatio, come attraverso una attenta analisi del carmen evocationis (si come esposto in Macrobio), l’invocatio facesse riferimento non ad una sola divinità; piuttosto avremo una divinità immanente cioè il genius loci e successivamente, la divinità poliade della città, che a Roma riceveva un culto ed un tempio [8]. Va rilevato che privare la città dei suoi sacra, impediva alla stessa di potersi rinnovare continuamente; in quest’ottica rientra il fatto che Troia si fosse rigenerata in Roma, o quanta incidenza Livio dia, durante la presa gallica di Roma, all’aneddoto di un plebeo, Lucio Albino, che vedendo le vestali fuggire a piedi con i sacra, fece scendere dal carro la sua famiglia, trasportando le stesse vestali e i sacra del popolo romano a Caere. La divinità evocata passava dunque dalla parte dei romani. L’evocatio è una cerimonia che fa il suo esordio nella presa di Veio, con Iuno regina. Risulta oltremodo difficile stabile in quante occasioni i romani vi abbiamo ricorso; abbiamo documentato il passo di Livio, relativo a Veio e in Macrobio, Saturnalia, il caso della Iuno Caelestis di Cartagine in occasione dell’espugnazione della città nemica di Roma, ad opera di Scipio Emiliano. Il passo di Macrobio, diventa importantissimo, perché tramanda integralmente il carmen evocationis e la conseguente devotio hostium. Macrobio, dice di aver attinto ad un testo di Sammonico Sereno, Rerum reconditarum, dove era scritto che la formula era stata tratta da un vetustissimus liber di un tal Furio; con ovvia verosimiglianza Lucio Furio Filo, intimo di Scipione Emiliano [9]. Proprio il passo di Macrobio, lascia evincere come l’evocatio, fosse una cerimonia molto complessa; una sorta di “formula composita di certe parole ad un certo scopo; spesso a cadenze ritmiche” [10]. Un rituale che come dice Macrobio rientra, negli occultissima sacra. Il carmen era custodito dai pontefici, visto che la disciplina carminis romanis, era pertinenza specifica, dei conoscitori di tecniche religiose; infatti in Plinio vi è conferma, che l’evocatio, era un sacrum, custodito in pontificum disciplina [11]. Ora risulta difficile supporre quante volte Roma, nel corso delle sue guerre ricorse all’evocatio. Alcuni suppongono vi sia una diretta connessione tra evocatio e devotio hostium, come nel caso di Cartagine e della Giunone Celeste, eppure proprio a Veio, non si ovviò alla totale distruzione della città conquistata. Forse ci furono evocationes nei casi, di Volsinii e Faleri, forse un altro caso si presentò nel bellum di Perugia del 40, con Iuno Perusina evocata; con ovvia probabilità un caso vi fu, ad Isaura Vetus, ma risulta altresì difficile, muoversi solo con il conforto di mere supposizione, tenendo poi conto che, appare davvero una procedura complessa; talmente complessa che pare quasi naturale, ritenere invece come fosse per di più, rara; ma la disputa resta aperta [12]. Se volessimo intendere l’evocatio, una sorta di contratto, esso era “stipulato” da due controparti che non erano sullo stesso piano; forse il modello ipotetico a cui avvicinarlo è quello del rapporto subordinato del cliens al patronus. Tuttavia l’uomo non era in condizione di forzare il Dio o la Dea alla sua volontà. L’eventuale rottura non era mai dovuta alla divinità, ma esclusivamente a demeriti umani, responsabili della rottura della pax deorum.

 

Camillo dunque una volta preso gli auspici privatamente nella sua tenda avrebbe evocato Iuno regina davanti alle truppe armate e pronte a sferrare l’attacco decisivo contro Veio: “E TE PURE, O GIUNONE REGINA CHE HAI ORA SEDE A VEIO, SUPPLICO DI VOLER SEGUIRE NOI VINCITORI NELLA NOSTRA CITTA’ CHE BEN PRESTO SARA’ LA TUA, DOVE TI POSSA ACCOGLIERE UN TEMPIO DEGNO DELLA TUA MAESTA’” (Livio V, 21,6 9).

Bene, nonostante Livio svolga una grande opera antiquaria, non sembra tuttavia riproporre il carmen evocationis, sì come farà successivamente per la devotio deciana. Dunque ora ci rivolgeremo a Macrobio estrapolando dal suo lungo passo il carmen che Scipio Emiliano avrebbe pronunciato davanti a Cartagine nel 146, evocando Giunone celeste.

Macrobio, Sat. III 9, 7-9:

Si deus, se dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto, ut vos populum civitamque Carthaginiensis deseratis, loca templa sacra urbemque reliquantis, absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis propitii sitis, ut sciamus intellegamusque. Si ita feceretis, voveo vobis templa ludosque facturum”.

Nonostante molti studiosi moderni, avanzino non pochi dubbi sull’evocatio di Giunone celeste, per il semplice fatto il suo culto non evidenzi tracce a Roma prima di Settimio Severo [13], dovremmo tener conto di diversi fattori: pur avendo solo fonti tarde per l’evocatio a Cartagine, mancando dei resoconti di Polibio, testimone oculare al seguito di Scipio Emiliano, è altresì evidente risulti accertato dallo storico di Megalopoli stesso, la celebrazione del rito che consentiva di radere al suolo un centro urbano, evenienza possibile solo se gli dei avessero abbandonato quel sito [14].

Ora Veio e Cartagine, rappresentano dunque due casi accertati di evocatio, seppur dovremmo analizzare la stessa lingua del carmen, sì come pervenutaci in Macrobio, per poter valutare come essa pur sposandosi con un lasso temporale di III – prima metà del II secolo avanti l’era cristiana [15], possa esser considerata attinente anche per il rito svolto da Camillo a Veio. Ciò non toglie che il carmen, possa aver subito adattamenti morfologici nella scienza pontificale, anche contando quanto proprio il IV secolo sia per molti versi fondante per la storia di Roma; tuttavia avremmo agio di considerare il rito e il carmen evocationis, aderenti anche all’evocatio di Gionone Regina nel 396.

Si deus si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tetelam recepisti. Teniamo bene in considerazione il carmen come esposto poco sopra. L’invocatio costituisce il momento centrale della preghiera; di fatto l’orante pronuncia il nome della divinità proprio per richiamarne l’attenzione. Si(ve) deus si(ve) dea è una formula tipicamente romana attinente il profondo scrupolo dei romani, i quali con queste tipologie di espressioni precauzionali, vogliono allontanare qualsivoglia errore o imprecisione che può inficiare la correttezza del rito. Un Dio, anche se meglio noto, potrebbe voler esser chiamato diversamente o potrebbe non aver rivelato interamente il suo nome, così non mancano riferimenti a formule analoghe, sive mas sive femina, oppure sive quo alio nomine fas est nominare. In questo contesto l’espressione “si deus si dea est “è intimamente legata al genius loci, dunque nume tutelare presupposto ed immanente del luogo, una divinità (genius est deus) che da sempre abitava quel sito, la cui indeterminatezza genera la formula stessa. Tuttavia poi assistiamo alla invocazione di un’altra divinità, espressa da “ille”, da ricondurre alla divinità scelta come protettrice della città, in un momento successivo, come Iuno Regina a Veio o Tanit-Iuno Caelestis a Cartagine; relazioneremmo allora anche quel “teque maximeinteso come “tu soprattutto” con esplicito riferimento alla divinità poliade[16].

precor venerorque veniamque a vobis peto”.

Dopo l’invocatio seguono i verbi che designano la preghiera. Ora il verbo precor (da precari), legato alla sfera semantica del “domandare” è ascrivibile ad un contesto prettamente giuridico, tanto da far supporre secondo le concezioni moderne, una sua sfera essenzialmente profana, dunque non relazionabile al religioso. Tuttavia dobbiamo considerare che in ambiente romano il contratto tra uomini e dei, ha carattere giuridico e religioso, dove le due realtà si compenetrano. Più attinenti a semantiche religiose sono le altre parole. Venerari, tradurrebbe l’appello alla divinità, da sollecitare con una certa tecnica di “ammiccamento” o meglio “seduzione”, mentre la venia, costituirebbe la risposta del Dio all’orante, la sollecitazione soddisfatta, come afferma Shilling [17]. Dumezil nel trattare di venus ne riconosce “lo sforzo di accattivarsi i sensi altrui o più spesso il risultato ottenuto di questo sforzo, cioè la conquista senza violenza” [18].

“ut vos populum civitamque Carthaginiensis deseratis, loca templa sacra urbemque reliquantis, absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis propitii sitis.”

Giorgio Ferri, evidenzia come l’elemento fisico dell’Evocatio venga indicato in loca templa sacra urbs, quello personale con populus e civitas intesa come tutta la popolazione cittadina; l’elemento romano con Romam ad meosque e successivamente con mihique populo Romano militibusque. Ora dal carmen evocationis si richiede agli dei cartaginese di infondere alla popolazione metus, formido et oblivio. Tecnicamente, dobbiamo tener conto che tale rito è posto in essere, pochi istanti prima di sferrare l’attacco decisivo. La formido viene intesa come un timore davanti ad una presenza, ma va intesa anche come timore religioso; metus segnala una paura in più di un senso, tuttavia non ancora scatenabile in vero terror, come avverrà nella conseguente formula della devotio, sempre esposta da Macrobio, dove i nemici non più al riparo dalle loro mura, avvertono tremore, pallore e battito di denti. Oblivio, rende “dimenticanza”, ovvero la stato di paura della popolazione mercé dei romani, che fa dimenticare delle loro divinità tutelari [20]. Dumezil, ribalta tale concetto, asserendo siano invece le divinità tutelari della popolazione che sta capitolando, ad ingenerare in esse uno stato miserevole di dimenticanza divina, essenzialmente perché sono i numi tutelari a doversi liberare dalla fides con i loro fedeli. Per il grande studioso francese, avremmo dunque, un ripudio dei tuti da parte dei tutores; attraverso la dimenticanza, gli dei avrebbero avuto agio di rompere gli obblighi di tutela verso i loro fedeli, e trasferirsi a Roma [21]. Ferri rileva tuttavia che tale presupposto non appare corretto, se non altro perché lascerebbe presupporre l’evenienza che, se la divinità avesse rifiutato l’invito del generale romano a procedere in questa direzione, essa potesse esser invece tratta prigioniera, cosa per giunta errata, perché gli dei non possono essere catturati, se non da altri dei [22].

Si ita feceretis, voveo vobis templa ludosque facturum”.

Se gli dei esaudiranno le richieste contenute nel carmen, esse otterranno come ringraziamento giochi e templi. Ora posto che tutte le operazioni rituali fossero state compiute senza il minimo errore e che il voto fosse apparentemente accettato, la divinità non aveva nessun obbligo di esaudirlo. La formula contrattuale in questa sede, pone a contatto due attori non sullo stesso piano, bensì su di un piano totalmente diverso, forse relazionabile, come ben menziona Ferri, al rapporto intercorrente tra cliens e patronus. La necessità assoluta di non commettere il minimo errore, costituiva per gli uomini il modo per assolvere il dialogo con le divinità, in maniera corretta e dovuta. Secondo il diritto divino poi, solo la controporte umana era obbligata a mantenere gli impegni presi con la divinità, all’atto della pronuncia del voto, rimanendo di fatto voti reus sino alla dedicatio, cioè alla consegna pubblica alla divinità. La divinità poteva al massimo subire un certo grado di seduzione dalla proposta dell’attore umano, ma nulla più; in fondo come sottolinea Giorgio Ferri da Orazio, sappiamo che i romani godevano del favore degli dei perché ad essi sottomessi [23].

Pur continuando una sorta di parallelo dell’evocatio tra Veio e Cartagine, notiamo come durante la recitazione del carmen, devono essere sacrificate delle vittime, non meglio note; forse il termine plurale Hostias va connesso alla corretta litatio, con il presupposto di poter ripetere il sacrificio nel caso di vittime non adatte. L’esame degli exta secondo le regole dell’extispicina etrusca, avevano una certa importanza, di fatto lasciando trasparire una data disposizione delle divinità.

 

Dobbiamo ritenere che proporre un’EVOCATIO pubblica, davanti all’esercito armato, abbia costituito un grande effetto psicologico sulle truppe, almeno per quanto concerne il carattere mistico e legato all’esperienza visiva maturata; però potremmo arguire, l’intero cerimoniale, seppur di grande impatto emotivo, fosse per di più incomprensibile ai soldati se, come dice Macrobio, l’evocatio è “mos vetestissimus, Romanus, arcanus, multis ignotis”. Dunque con ovvia probabilità furono i pontefici a suggerire il carmen evocationis, al generale, sia esso Camillo a Veio o Scipio Emiliano a Cartagine.

 

Torniamo per un attimo a Veio. I soldati romani scelti, per percorrere il cunicolo, lo avevano percorso, arrivando a ridosso del tempio di Iuno Regina. Nella trattazione liviana, poco prima della presa di Veio si verifica un altro fatto essenziale a livello ideologico per la presa della città; un evento che Livio per correttezza annalistica propone, seppur lo definisca fabula. I soldati dunque, da dentro il cunicolo, ormai giunti a ridosso del tempio dell’arce, riuscivano a distinguere distintamente le voci del sacerdote di Iuno e del rex di Veio . Costui stava sacrificando e l’haruspex riferiva che chi tagliava questi exta regali, avrebbe conseguito la vittoria. All’udire queste parole i romani, sbucati dal cunicolo, avrebbero sottratto le viscere al Rex e le avrebbero portate al loro dictator. Posto che in una specifica mitizzazione della presa di Veio, speculare a quella di Troia, dove l’episodio ricorda Ulisse e Diomede ascendere l’arx di ilio da un cunicolo per rubarne il Palladio, l’episodio in se, per quanto ampiamente romanzato, ha una sua valenza ideologica e simbolica. La captatio si concreta con la consumazione delle viscere sacrificali, che in questo caso sono exta regali; exta regali dunque, che il dux sottrae al rex, in nome di una data aucoritas di chi le possiede [24]. E’ una ulteriore garanzia di successo, se essi sono fausti (cfr Ottaviano che viceversa, nella guerra di Perugia, abbandona exta infausti ai nemici). Veio è conquistata, gli abitanti uccisi, i superstiti del giorno successivo, ridotti in schiavitù, il bottino profano ingente

 

Tuttavia se la città comunque rimaneva mercé dei romani, per quel che concerne i simulacri degli dei, soprattutto quello di Giunone Regina, ed il materiale votivo, occorreva particolare cautela. Per asportare il simulacro della divinità evocata, vennero scelti un gruppo di iuvenes, debitamente purificati e con abito candido [25]; tale scelta non è casuale, ma rimanda direttamente alla predilezione della dea verso i giovani. Per Dionigi di Alicarnasso, trattasi di equites; per Livio invece, di semplici soldati; potremmo supporre si trattasse di giovani cavalieri appiedati, scelti già nell’operazione del cunicolo, un po’ come avvenne nella battaglia del lago Regillo? Il dato portante resta che fossero iuvenes. Infatti, era notorio che la statua della dea, potesse essere toccata solo da un sacerdote etrusco, appartenente ad una specifica gens. Dunque per questa specifica prescrizione rituale, i romani ricorrono a iuvenes selezionati e ritualmente preparati; in Livio si evince uno di essi, o per timore religioso, o per l’usuale baldanza giovanile, avesse chiesto alla dea Iuno, se, costei, volesse seguire i romani a Roma. La dea avrebbe annuito, Livio aggiunge anche che alcuni avevano distintamente udito la risposta. Tuttavia questo episodio, da un lato, pone una data coerenza tra la dea e la vitalità giovanile, dall’altra potremmo dedurre che il giovane, con la sua domanda alla dea, in qualità di camillus di CAMILLO e in quanto persona ritualmente preparata, rinnova l’iniziale richiesta alla divinità evocata. Dunque in questa evocatio della Iuno regina di Veio, prima di sferrare l’attacco fatale, davanti alle mura della città nemica, si chiede il permesso alla divinità di attaccare la città e i suoi sacra senza commettere sacrilegio, promettendole un tempio degno, nella sua nuova sede, traendo una prima conferma dagli exta; poi davanti al simulacro della Dea stessa, si rinnova la richiesta. Livio menziona la leggiadria del simulacro della Iuno regina nel momento in cui viene sollevato per essere trasportato a Roma, quasi a voler simboleggiare come fosse la stessa dea che avesse premura a raggiungere la sua nuova sede. Dobbiamo però riconoscere come i simulacri fatti a Veio, fossero per di più particolarmente leggeri, perché realizzati in terracotta o intagliati nel legno, erano sovente portati in sacre processioni. La Iuno regina tratta dalla sconfitta Veio, verrà ospitata, per breve tempo, nel tempio di Diana sull’Aventino, fin quando alle calende di settembre 392, non venne traslata nella sua nuova dimora, sempre sull’Aventino; il colle dei plebei, posto fuori del pomerio cittadino, forse per smorzare la voglia plebea di migrare a Veio; tuttavia il nuovo tempio di Iuno regina dominava dall’alto il Tevere, innalzandosi così a rimarcare la sovranità romana sulla sconfitta Veio.

 

Questo paradigma della conquista romana, palesata con la presa di Veio, primo grande passo verso l’imperialismo, nella tradizione liviana, come mutuata dalle rivisitazioni annalistiche di II secolo, presenta una contrapposizione tra Roma e Veio, riassumibili nella contrapposizione tra il giovane in piena maturazione e il vetusto, l’antico, il vecchio e declinante. Lo si evince già nel paradigma negativo, Roma non può conquistare Veio: è di fatto immatura; eppure all’antica Veio si contrappone la giovane Roma; al senex haruspex, il giovane soldato romano che con astuzia lo rapisce e assieme al responso dell’oracolo pitico, fa vertere il prodigio del lago, a vantaggio di Roma; o in ultimo la funzione dei iuvenes nella traslazione del simulacro della Dea.

Giovanni De Santis

 

 

Bibliografia Essenziale.

Giorgio Ferri, “Tutela Urbis”. Franz Stainer Verlag, 2010. (Fonte centrale per questo articolo).

Giorgio Ferri, “Tetela segreta ed Evocatio” Bulzoni, collana Mos Maiorum, 2006

 

Note.

  1. Sabbatucci, “Lo stato come conquista culturale”. Bulzoni 1975, Montanari, “Roma, momenti di una presa di coscienza culturale”. Bulzoni, 1976.
  2. Hellegouarc’h, “Le principat de Camille”, 1970.
  3. Sabbatucci, 1975, cfr. il capitolo “Il dato e il voluto”.
  4. Livio V,21.
  5. Blomart, “Die Evocatio und der transfer fremder gotter von der peripherie nach Rom”, 1997; Rupke, ”Domi Militiae”,1990.
  6. Livio, V,19; Giorgio Ferri, “Tutela Urbis”, 2010.
  7. Ferri, 2010.
  8. Ferri, 2010.
  9. Macrobio, Sat. III, 9, 1-15; G.Ferri, 2010.
  10. Ferri, 2010; Hickson Hanh, “Performing the sacred”, 2007.
  11. Plinio, Nat.Hist. XXVIII,18.
  12. Tuttavia sembra del tutto superata la tesi del Basanoff, 1947 e Wissowa 1912, secondo la quale l’evocatio fosse pratica destinata alle città fondate “etruscu ritu”, ipotesi sconfessata dall’applicazione del rito a Cartagine con Iuno Caelestis.
  13. Wissowa, “Religion und Kultus der Romer” 1912; Gabba “L’imperialismo romano”, 1990.
  14. Ferri, 2010.
  15. Peppe, 1990, riconosce una affinità linguistica del carmen evocationis come esposto in Macrobio, con la preghiera di Scipio Africo Maior a Lilibeo nel 204 (Livio XXIX, 27,2-4), dove compare il sintagma populus plebesque affine ai Carmina marciana.
  16. Ferri, 2010, cfr. pag 175, nella trattazione di Genius e Genius loci; Dumezil, “Encore Gnius”, 1983.
  17. Shilling, “Le religion romaine de Venus depuis les origines jusqu’au temps d’Auguste”, 1954.
  18. Dumezil, “Idee Romane”, 1987; cfr. Montanari, 1976, nella necessità di acquisire nel sistema giovio romano la Voluptas di Venere Erycina, elargitrice di Venia e vittoria, ma attraverso Mens ricondotta alla Voluntas di Iuppiter.
  19. Ferri, 2010.
  20. Ferri, 2010.
  21. Dumezil, “L’oubli de l’homme et l’honneur de dieux et autre essais”, 1985.
  22. Dumezil, accetta la lezione Proditi e non propitii, da prod-ire, interpretandola come “abbandonati” perché dimenticati. Cfr. G.Ferri, 2010, nelle riflessioni attorno alla figura di Minerva Capta.
  23. Ferri, 2010; Hor. Carm. III 6, 5-6, “Dis te minorem quod geris, imperas: hinc omne principium, huc refer exitum”.
  24. Diritto di possesso già èresente nella XII tavole, cfr. G Ferri 2010 pag 75; Guittard “Auctoritas extorum: haruspicine et rituel de evocatio”.
  25. Ferri, 2010; per il cunicolo scalato dai giovani romani, cfr. G. Ferri, “Tutela segreta ed Evocatio”, 2006, cfr. la sezione “il cunicolo di Veio o del metedo storico- religioso”, con una profonda analisi del prodigio del lago Albano di fatto troppo distante da Veio e il rapporto tra le canalizzazioni delle acque cicliche dal 23 di luglio per i Canicula.

 

 

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