Di tutti gli aspetti pratici di qualunque religione quello più importante di tutti è senza alcun dubbio il calendario. Dalle lontane steppe asiatiche, ai torridi deserti africani, ai gelidi boschi del nord, fino alle pianure e alle giungle delle Americhe, tutti i popoli del mondo hanno sempre cercato di qualificare in senso religioso il tempo. Questa misurazione temporale ha sempre avuto bisogno di una definizione qualitativa oltre che quantitativa e si è sempre manifestata sotto un profilo religioso e sacro.
La società nella quale viviamo oggi percepisce il tempo solo ed esclusivamente quale strumento di efficienza: misuriamo il tempo con precisione per svegliarci al mattino, per andare al lavoro, per programmare le ferie. Questa nuova visione del tempo (che è recentissima, ed esiste da quando gli orologi meccanici sono entrati nell’uso quotidiano di tutti) è tuttavia sconnessa dalle ragioni originarie per le quali è stata creata, al punto tale che il tempo in cui vive l’uomo è assolutamente sconnesso da ogni manifestazione naturale o astronomica, e quindi anche sacra.
Il nostro anno civile, come l’anno accademico, non hanno alcuna connessione con alcun evento naturale.
Al contrario i nostri Maggiori calcolavano l’anno partendo da fenomeni celesti precisi (la levata di una costellazione, un solstizio o un equinozio, o la durata dei giorni contati da un dato fenomeno celeste o naturale). Perciò Trinuxtion Samoni[1] cadeva al termine del raccolto, ed in quel giorno presso i popoli celtici si festeggiava il capodanno con l’inizio dell’inverno; nella Roma della prima repubblica, alle Idi di Settembre, cioè il settimo plenilunio dall’inizio della stagione di guerra, i Consoli piantavano un chiodo (il clavus annalis) nella parete della cella consacrata a Minerva nel tempio capitolino[2]; presso gli Etruschi l’anno cominciava con il primo novilunio dopo il Solstizio d’Estate; e così in molte altre culture si trovano esempi simili.
Estendendo la questione ad un ambito più antropologico[3] gli esseri umani vivono in un mondo fisico, e hanno una percezione delle cose nella loro finitezza. Essi, come anche animali e piante, percepiscono il susseguirsi del giorno con la notte, l’estate e l’inverno, il sonno e la veglia, la trasformazione delle cose e di sé, tutto ciò gli umani l’hanno chiamato “tempo”. Il Tempo è da considerarsi un’intuizione a priori universale (insieme allo “spazio”) ed è una delle funzioni primarie della nostra attività mentale, senza tale funzione non sarebbe possibile dare spazio alla produzione di pensieri. L’essere umano non può pensare fuori dal concetto di tempo (e spazio), che è la base costitutiva di ogni modo di pensare. Questi concetti resi chiari dal pensiero di Immanuel Kant debbono però essere contestualizzati in una precisa cultura, poiché in ognuna di queste ha una rappresentazione del tempo propria, e non sempre allineata con quella delle altre.
In questo senso viene quindi in aiuto il concetto di “istituzione sociale” (ideato di E. Durkheim e M. Mauss), per il quale è lo stile di pensiero prevalente all’interno di una società a determinare le valenze simboliche, affettive, e persino percettive che il tempo assume in quel contesto, e perciò il più delle volte le rappresentazioni del tempo sono legate alla dimensione dell’esperienza, e non al ragionamento astratto.
M.P. Nilsson nel 1920 sostenne che le società c.d. “primitive” non avevano un concetto di tempo come di un flusso continuo frazionabile, ma lo concepivano in maniera “puntiforme”. In queste società i riferimenti temporali sarebbero quindi gli eventi naturali, o momenti importanti della vita sociale, ad esempio “due raccolti fa” per due anni fa, oppure “un sonno” per dire un giorno e così via. Viene in questo senso spontaneo fare un’immediata analogia con la datazione eponima nei fasti romani, nei quali gli anni si conteggiavano non numericamente ma dando all’anno il nome dei Consoli che erano in carica, anno che veniva determinato (come vedremo) dal moto lunare in relazione alle stagioni.
L’idea che noi abbiamo di tempo, cioè di un flusso che si misura e si fraziona (ore, minuti primi, secondi) e che è funzionale a determinare i periodi di lavoro e di riposo, le vacanze, la ginnastica, la lettura, non solo non è universale, ma anzi è anche relativamente recente. La nostra concezione del tempo nasce insieme all’idea di produttività quando il sociologo tedesco Max Weber, all’inizio del XX sec., definì lo “spirito del capitalismo”, partendo dalla premessa del “tempo come denaro” affermatasi in occidente nel XVIIIsec. Questa visione che consacra il tempo e la vita alla produzione di beni quantificabili rende il tempo stesso qualcosa di estremamente quantificabile.
Per quanto il potere del capitale abbia inghiottito anche il valore tradizionale del tempo alcuni aspetti qualitativi di questo tempo permangono ancora nella nostra società. Le festività religiose cristiane ormai hanno perso ogni valore nel senso originario ma rimane l’aspetto qualitativo di tempo libero in cui si sta in famiglia o insieme tanto che -ritengo- sia noto a tutti gli occidentali il sentimento di terrore che possa scaturire dalla reazione di un parente stretto a cui si rifiuta il Natale insieme per andare in vacanza. Il sentimento provato immaginando una reazione di collera (che non necessariamente si manifesterà) è indice della forza che ha il valore qualitativo del “tempo in cui si sta insieme” (diverso dal “tempo in cui si lavora”), e dell’influenza che ha sugli appartenenti alla nostra società.
Un altro momento temporale del quale sopravvive il suo valore qualitativo è il Capodanno. Mircea Eliade ha considerato queste idee di “ricominciamento” come miti dell’eterno ritorno, cioè un’idea in qualche modo circolare che vede una rinascita ogni anno dei medesimi eventi (l’esempio forse più noto tra questi è il calendario maya e cinese).
L’etnografia è ricca di esempi in merito al pensiero cronometrico delle culture c.d. “primitive”, e spesso i metodi da loro utilizzati corrispondono incredibilmente a quelli utilizzati anche nelle campagne europee fino a tempi recenti con, tuttavia, delle variazioni interessanti.
Questo modello lo troviamo anche nella cultura romana, dove i giorni ufficiali del calendario erano organizzati secondo nundine contate da A ad H in cui l’ultimo giorno era di mercato (fig.1); inoltre nel “frammento di tavola Nundinale”(fig.2) è mostrata una lista di otto città presso le quali giungeva il mercato sulla base delle nundine. È dunque possibile che anche in epoca romana la gente comune utilizzasse un modo di contare i giorni simile a quello dei Tiv, e chiaramente basato sui giorni di mercato: “il giorno di F” oppure” due giorni prima del mercato”, ed il dato che ritengo maggiormente rilevante in questo senso è che il ciclo nundinale compare anche nei calendari ufficiali. Va notato comunque che nelle pubblicazioni della gente facoltosa utilizzano una datazione non riferita ai giorni di mercato bensì come calcolo a ritroso rispetto alle kal-non-eid, che non pare concettualmente differente.
A livello di calcolo delle ore le necessità dei nostri Maggiori non erano puntuali come le nostre, e che sono il prodotto dell’innovazione dell’orologio meccanico, bensì dipendevano dal Sole. I Baulé (Costa d’Avorio)[4] utilizzano il concetto di tempo lineare dell’Occidente ma non gli attribuiscono un lavoro esatto, bensì indicano un valore indicativo sulla base del moto del Sole. I Romani seguirono invece un’evoluzione in ritardo sui greci tanto che Plinio ci ricorda «nelle XII Tavole si nomina solamente l’alba e il tramonto: dopo alcuni anni vi fu aggiunto il mezzogiorno, il quale veniva pronunciato dal banditore dei Consoli, quando egli dalla Curia avesse visto il Sole fra i Rostra e la contrada dei Greci.»[5] un’aggiunta fondamentale dato che era necessaria per determinare le fasi del giudizio in tribunale[6], e un metodo che ricorda quello utilizzato da molti popoli del Madagascar[7] i cui appartenenti hanno la casa allineata tutti allo stesso modo, e i momenti della giornata sono definiti in base a quale lato della casa è illuminato dal Sole. Plinio prosegue «Venendo l’ombra dalla colonna Menia al carcere, bandiva che era l’ultima ora del dì. Ma questo accadeva solo nei giorni di cielo sereno e fino alla Prima Guerra Punica. Fabio Vestale scrive che il primo orologio solare (meridiana) in Roma fu fatto da Lucio Papirio Cursore sul tempio di Quirino, quando lo dedicò dodici anni prima della guerra contro Pirro, poiché votato da suo padre. Ma non spiega come venne realizzato, né chi lo costruì, da dove venisse, né quali siano le sue fonti.
Varrone scrive che il primo orologio fu posto pubblicamente presso i Rostra su una colonna, durante la Prima Guerra Punica, dal Console Marco Valerio Messala; preso da Catania in Sicilia e da lì portato a Roma trenta anni dopo l’orologio di Papirio, quattrocentosessantasette anni dopo che Roma fu fondata. Tuttavia le linee dell’orologio non rispondevano alle ore, ciò nonostante venne usato per novantanove anni, fino a che Quinto Marcio Filippo, che fu Censore con Lucio Paolo, ne pose un altro a fianco che era più preciso, e per questo il popolo gli fu molto grato. Tuttavia le ore erano ancora dubbie quando c’era nuvolo fino al seguente lustro. Allora Scipione Nasica, collega di Lenato, fu il primo che con l’acqua divise le ore notturne e quelle diurne. Egli poste questo orologio ad acqua sotto un tetto coperto nell’anno cinquecentonovantacinque dalla fondazione di Roma. Per così tanto tempo i Romani mancarono di divisioni certe della luce.»[8]. In ogni caso la precisione delle ore era limitata, e connessa al moto solare tanto che -come è noto- le horae dipendevano dalla durata del dì, mutando durata a seconda della stagione. Infatti le ore romane altro non erano che una ripartizione del dì e della notte in dodici parti uguali di durata variabile:
durata delle ore | Solstizio d’Inverno | Equinozio | Solstizio d’Estate |
giorno | 45 minuti | 60 minuti | 75 minuti |
notte | 75 minuti | 60 minuti | 45 minuti |
Ovviamente l’inizio e la fine della giornata variavano anch’essi in base alla stagione:
Hora prima | Solstizio d’Inverno | Equinozio | Solstizio d’Estate |
giorno | 7:33 | 6:48 | 4:27 |
notte | 16:27 | 18:48 | 19:33 |
Tuttavia le ore notturne erano calcolate in questo modo solo dai pochi ricchi che potevano permettersi un orologio ad acqua, e solo a partire dall’età augustea. Il resto della popolazione utilizzava un sistema riferito agli eventi naturali: vespera (dal tramonto fino al sorgere della stella Vespero, cioè Venere), crepusculum (il crepuscolo), prima face (il momento di accendere le lucerne), concubitum (il momento di sonno generale), multa nox o nox intempesta (notte fonda, momento non idoneo all’azione), iad mediam noctem (verso mezzanotte), media nox (mezzanotte), de media nocte (dopo la mezzanotte), gallicinium (quando i galli iniziano a cantare), conticinium (quando i galli hanno smesso di cantare, ma gli uomini dormono ancora), diluculum (l’albeggiare, prima del sorgere, ovvero quando inizia l’ora prima).[9] Ne consegue che le ore notturne fossero realmente percepite in base alle attività umane, perciò le ore in cui gli uomini non fanno attività (come la de media nocte) avessero una durata estremamente più lunga rispetto a quelle in cui vi è qualcosa da fare e -soprattutto- in cui è possibile determinarle (la stella Vespro in alcuni periodi non è per nulla visibile!).
E comunque a prescindere da tutto la questione delle ore non risultò mai, in epoca romana, tale da avere un valore univoco e preciso come accade ai tempi nostri, infatti Seneca precisa che «non posso dire con certezza l’ora, è più facile trovare accordo tra i filosofi che tra gli orologi»[10].
Emanuele Viotti
Bibliografia:
– “Elementi di Antropologia Culturale”, Ugo Fabietti, Mondadori università, 2010
– “Antropologia e cultura Romana”, M. Bettini, Carrocci Editore, Aulamagna, 2019
Note:
[1] Calendario di Coligny
[2] Si noti che questa data è cambiata numerose volte poiché l’anno iniziava con l’ingresso in carica dei Consoli (essendo l’anno eponimo di questi), e si è definitivamente fissata al 1° gennaio nel 153ac (cioè il primo novilunio nell’anno, ovvero dopo il solstizio d’inverno) per poi rimanere tale anche con l’introduzione del calendario solare da parte di Giulio Cesare nel 46ac.
[3] “Elementi di Antropologia Culturale”, Ugo Fabietti, Mondadori università, 2010
[4] Pignato, 1987, p.23
[5] Plinio, N.H. VII, 60
[6] Aulo Gellio, XVII, 10
[7] Bloch, 1971
[8] Plinio, ibid.
[9] IL, Castiglioni-Mariotti, 2014
[10] Seneca, Apokolokyntosis, 2
Un commento su “L’incostanza del Tempo presso i Romani”