ACTIO RITUALIS DELLA DEVOTIO

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Questo articolo intende mostrare l’ACTIO RITUALIS della DEVOTIO; prescindendo dunque da una dettagliata analisi del contesto estrinseco e storico del rito, ci concentreremo esclusivamente sulle pose ieratiche e calcolate [1], che il DEVOVENS era chiamato a rispettare nei minimi dettagli, pena l’inefficacia del rito stesso. Dunque ACTIO RITUALIS e CARMEN, rappresentavano tecnicamente un tutt’uno; un piccolo errore nella recita del carmen o nelle pose del DEVOVENS, avrebbero reso nulla la DEVOTIO; sono disposizioni, che il MAGISTRATUS CUM IMPERIO, riceve dal PONTIFEX MAXIMUS, figura somma del collegio pontificale, garante e sacro custode, delle prerogative giuridiche e religiose del popolo romano.

Un istituto, quello della DEVOTIO, dunque, altamente particolare, sulla cui natura ed essenza si è molto scritto. Maurilio Adriani, ad esempio rilevava come sia il VER SACRUM che la DEVOTIO, concretassero perfettamente il filo magico, della eroicità italica [2]. VER SACRUM e DEVOTIO paiono davvero configurarsi come “VOTA” per molti versi altamente particolari, senza dubbio anomali. Eppure l’Adriani rilevava come in entrambi casi la CONSECRATIO (suggellante per il VER SACRUM, base iniziale per la DEVOTIO a cui segue il sacrificio del DEVOVENS), mostri soggetti che sono “già sacralmente un fatto compiuto, davanti al quale le divinità, non possono ritirarsi” [3]. Per Adriani allora, il motivo magico consisterebbe nel fatto che, attraverso il gioco implicativo del VOTUM, il DEVOVENS acquisisse la potenza della divinità, orientandola secondo la volontà umana. Adriani, relazionava VER SACRUM e DEVOTIO non solo per le implicazioni magiche, quanto per un dato eroismo; di fatto i consacrati per il VER SACRUM e la DEVOTIO, rappresenterebbero, dei “campioni”, tanto che, da un lato, preservano la comunità che rappresentano, nella certezza di una nuova vita, ma dall’altra, garantirebbero la sopravvivenza della propria gente, attraverso il sacrificio di se per un bene più prezioso, semplicemente varcando un confine.

Porsi la domanda, quali siano i contenuti oggettivi di questa formula magica, è metodologicamente scorretto (come sostiene Leonardo Sacco), proprio perché, andando a ricercare i principi di un certo magismo universale, si cerca di superare un certo formalismo romano [4]. Tale tema è stato trattato da molti [5].

Dario Sabbatucci sosteneva, come il termine di magia rilevi tuttavia una realtà giuridicamente carente, che nel caso romano pone dunque connotati non riducibili alla CIVITAS. Una carenza giuridica da riconoscere in una forma di deresponsabilizzazione, che molti riconoscevano “nell’incantesimo” della DEVOTIO, teso a privare l’individuo della sua volontà, orientandolo ad un’azione irresponsabile, necessaria e senza scelta.

Sotto un profilo romano tali concetti andrebbero riletti in relazione alla funzione del RITUS [6]. Ciò che conta nel termine RITUS, valenze polisemiche a parte, è il fatto che esso compie una funzione essenziale: il rito dà valore ad un’azione. Leonardo Sacco rileva non a caso quanto IRRITUS rappresenti per converso, qualcosa di “senza rito” di fatto, inefficace e non valido. Il rapporto tra rito e valore è stato alla base di una certa letteratura tesa ad evidenziare un’origine da una fase magica dell’umanità, per la religione e il diritto. Ma a livello storico concettuale, per il mondo romano, la relazione tra diritto e religione si concreta nella funzione rituale[7]. A Roma il rito aveva funzione cosmogonica, ovvero metteva un dato ordine, laddove ve ne fosse bisogno. RITUS, ha la stessa radice etimologica del vedico RTA, inteso come ordine cosmico dal carattere dinamico a flusso infinito; dunque un flusso cosmogonico rispondente ad una legge universale, dove ogni cosa sia posta al di fuori di esso, non ha efficacia e allo stesso tempo, valore[8]. Questa funzione del RITUS, in un ambiente ampiamente demitizzato come quello della religione romana, acquisisce uno spessore notevole, tanto che a Roma sarà una funzione rituale a sostituire una funzione mitica, rilevando una assoluta centralità e unicità, nelle procedure rituali in campo della religione e del diritto. Dal Sabbatucci potremmo filtrare un’equazione semplice ma efficace, nel contesto demitizzato repubblicano di Roma:

“RITO: MITO = intervento attuale: ciò che viene ritenuto non passibile”. [9].

Sulla scorta del Sacco dunque, avremmo agio di asserire che nella demitizzata religione romana, si emancipi il RITUS poiché si attribuiva alla figura degli uomini come operatori rituali, quanto ritenuto passibile di mutamento, oppure aperto all’intervento umano.

Seguendo questa logica appena enunciata e corroborata nell’ormai conclamata demitizzazione romana, pare altresì evidente che nel caso specifico della DEVOTIO, sia piuttosto il rito a conferire valore ed efficacia all’istituto, non la magia. Non potrebbe essere altrimenti. Le solenni formule di questi “VOTA” così particolari, quali il CARMEN DEVOTIONIS o il VER SACRUM (nell’accezione romana unica certificata cfr LIVIO), rimandano alla solenne perizia del collegio pontificale, severo custode nella somma figura del PONTIFEX MAXIMUS, delle prerogative giuridico-sacrali del POPULUS ROMANUS. Nella DEVOTIO si nota una maniacale attenzione nella corretta relazione tra il POPULUS ROMANUS e le divinità, giacché senza di esse la RES PUBLICA non può sperare di mantenere una certa stabilità. [10]. Senza contare quanto la contingenza pressante che rende necessario l’istituto della DEVOTIO, nel campo di battaglia, mostri come il fulcro dell’azione sia incentrato ad ottenere o ristabilire, il corretto rapporto con le divinità, per ottenere o riottenere la loro benevolenza, essenzialmente, per la salvezza della RES PUBLICA.

Così il RITUS capovolge l’esito della battaglia, in un contesto religioso nel quale, il MAGISTRATUS CUM IMPERIO, recita il CARMEN suggeritogli dal PONTIFEX, indossando un abito rituale, seguendo un cerimoniale di atti e parole canonizzate, apparendo così, come IUSTUS, sotto un profilo giuridico e religioso, prima di gettarsi a capofitto tra le schiere nemiche. E’ in questa chiave che Raffaele Pettazzoni, riconosceva una salvazione tipica nella religione romana, una salvezza tutta centrata sulla vita e l’integrità della RES PUBLICA [11].

CAPUT VELATUM e CINCTUS GABINUS.

 

Dalle fonti, apprendiamo che il CINCTUS GABINUS, indicava la toga che veniva appoggiata sulla spalla sinistra, lasciando libera la destra. “Obvoluti toga super humerum sinistrum, dextro nudo”. Dopo di che, gettata all’indietro, con le estremità che scendevano lungo la schiena, essa veniva tirata sul petto, per cingere la persona, lasciando le braccia libere e le estremità della toga pendenti su entrambi i fianchi (ex utroque latere ex humeris picturae pendeant) [12]

Il CINCTUS GABINUS, nella tradizione latina è menzionato molte volte in contesti di cerimonie sacrificali. Pur riconoscendo come importante tale asserzione, è di fatto certo che tale foggia della toga, non rappresentasse l’abito cerimoniale per antonomasia. L’uso ad esempio di velare il capo, per colui che officiava un sacrificio, bendandosi o coprendosi con un lembo della toga, avrebbe contraddistinto un RITUS ROMANUS da un altro GRAECUS, di norma officiato a CAPUT scoperto. La tradizione Virgiliana, faceva rimontare l’uso di coprire il capo all’indovino Eleno, che avrebbe prescritto tale uso ad Enea, cercando di preservarlo da incontri pericolosi, una volta giunto in Italia. Plutarco tuttavia (Moralia), ne offre diverse e nuove eziologie, riconoscendo nell’uso di velare il capo, il modo per onorare gli dei, come d’altronde era prassi scoprirsi la fronte davanti agli uomini potenti. Tuttavia l’erudito di Cheronea, asseriva che tale uso, ben si prestasse all’intenzione di evitare l’ascolto di parole ominose da parte dell’officiante, sì che ben potesse mantenere la sua concentrazione; certo sembra del tutto parziale e inverosimile, l’interpretazione che vorrebbe tale uso, coerente con un dato pitagorismo, secondo la quale attraverso il velo, l’anima che onorava gli dei, doveva essere separata dal corpo. Eppure l’uso molteplice dell’occasioni nelle quali il velo si impose, fa davvero supporre, quanto esso convenisse alle cose sacre, riservate agli dei [13]. Ora però indossare la toga secondo l’uso gabino, ha conosciuto notevoli interpretazioni: Mommsen, ad esempio, ne riconosceva un’origine tipicamente militare, legandola a vicende belliche tra Roma e Gabii [14]; tuttavia non manca chi invece ne rivendicava un tipico costume rituale, importato a Roma da cittadini di Gabii, migrati nell’urbe. Eppure Servio [15], asseriva tale foggia venne ritenuta di buon augurio, da quando i gabini, che officiavano un sacrificio, all’annuncio di una attacco nemico, senza mutarsi d’abito, unirono i lembi della toga sì da formare una sorta di cintura alla vita, e così vestiti respinsero vittoriosamente gli assalitori. Tuttavia, sarà proprio Servio a distinguere un RITUS GABINUS da un CINTUS GABINUS, dove uno rappresentava la copertura del capo con un lembo di toga mentre il resto serviva a cingersi la vita; il secondo caso invece consisteva, secondo il tardo commentatore, nell’avvolgere solo un’estremità della toga attorno alla vita, per questioni essenzialmente legate a comodità militari. Quest’ambiguità serviana, tesa a porre la foggia gabina come ambivalente, tra il religioso e il militare, pone dunque diverse problematiche che ben riscontriamo nella serrata trattazione liviana della DEVOTIO del VESERIS. Seguendo Livio noteremmo infatti come all’atto della recita del CARMEN, il DEVOVENS, indossi la TOGA PRAETEXTA, propria della sua dignità consolare e conformemente al RITUS ROMANUS, aveva il capo velato; successivamente, per lanciarsi contro il nemico passa al cinto gabino. Ora potremmo supporre il CINCTUS GABINUS, fosse ottenuto semplicemente avvolgendo la PRAETEXTA. Abbiamo visto che a velarsi il capo fossero i sacrificanti, sebbene essa tornasse anche in occasioni di preghiera, o nelle dichiarazioni di guerra [16].

Nella Devotio liviana, Decio, può gettarsi tra i nemici CAPITE VELATO e con ovvia probabilità armato, se Floro poté scrivere “capite velato primam ante aciem”.  Carafa, offriva una nuova ipotesi ricostruttiva del CICTUS GABINUS: la toga sarebbe stata appoggiata sia sulla spalla che sul braccio sinistro, mentre il lembo che ricadeva dietro la schiena, fatto passare sotto il braccio destro, avrebbe fasciato i fianchi completamente. La toga così, sarebbe ricaduta fino ai piedi di chi la indossava. Carafa interpreterebbe dunque SUPER HUMERUM SINISTRUM, sia spalla che braccio[17]. Tale asserzione tuttavia, come denuncia Leonardo Sacco, contraddice totalmente la prerogativa principale del CINCTUS GABINUS che essendo “SUCCINTUS”, doveva garantire minore impaccio possibile. Termini come SUCCINTUS o INCINCTUS RITU GABINO, indicano una toga indossata cinta per avere ampio gioco nei movimenti; in fondo poi, non era detta SUCCINTUS, il modo di recare la veste dei VICTIMARII, oppure quella adottata dai LUPERCI in epoca imperiale?

Dunque dovremmo supporre il CINCTUS, si otteneva appoggiando la toga sulla spalla sinistra, e le PICTURAE PENDENTES, dovrebbero essere le estremità della toga lasciate penzolare, una volta uscite fuori dalla cintura che cingeva i fianchi. C’è a tal riguardo uno straordinario rilievo da Aquileia, che raffigura una scena di aratura compiuta da magistrati. In questo caso il magistrato che compie tale azione reca sopra una tunica, una toga poggiata sulla spalla sinistra, tale da far passare il lembo ricadente sul petto, sotto la cintura, ottenuta dall’altra estremità della toga stessa. Ora nella DEVOTIO termini come TOGA PRAETEXTA, CAPITE VELATO e INCINCTUS CINCTUS GABINO, mostrano una connotazione tipica, dell’operatore del rito, il DEVOVENS; inoltre, nella visione complessiva del rito, notiamo un’assoluta continuità di condotta sacra, che si perpetua nell’azione del console, inoltratosi tra le schiere nemiche ARMATUS IN EQUUM. Eppure un’ulteriore comprensione del CINCTUS lo riconosceremo in quelle azioni rituali, nelle quali l’operatore, per la RES PUBLICA, espleta un transito di confine, che nella DEVOTIO pare sostanzialmente dimensionale, tra vita e morte.

Nella tradizione Virgiliana, il CINCTUS veniva usato dal console in occasione dell’espletamento dell’ordine del senato romano, dell’apertura del tempio di Giano; in Virgilio VII 612, tale foggia è detta TRABEA QUIRINALIS; risulta quando mai evidente in questo specifico contesto quanto questo rituale dell’apertura delle porte del tempio di Giano, rimandi ad un passaggio dall’interno verso l’esterno, posta la tradizione del Dio alla protezione dei confini [18]. Ancora, e diremo in maniera più evidente, il CINCTUS GABINO veniva indossato durante il tracciamento del SULCUS PRIMIGENIUS; anche in questo caso la DESCRIPTIO delle mura per mezzo dell’aratro, ha una connotazione rituale nella definizione dei confini, l’area sacra del POMERIUM, e insita in se stessa, una concezione di passaggio tra esterno ed interno [19].

MANU SUBTER TOGAM AD MENTUM EXSERTA.

Durante la preghiera il DEVOVENS, si toccava il mento. Prescindendo alcune teorie relative a concetti legati alla magia da contatto, quali quelle del Wangervoort, ben confutate dal Sabbatucci [20], il Deubner, sosteneva, che tale toccamento del mento del DEVOVENS, fosse intimamente connesso al fatto, egli fosse sia soggetto che oggetto del sacrificio [21]. Il gesto si configura come il completo affidamento del MAGISTRATUS CUM IMPERIO agli dei. Un gesto poi, che dovremmo mettere in contrasto con la totale assenza del toccamento del mento, ad opera del soldato semplice, qualora esso, in qualità di CIVIS DESIGNATUS, fosse investito della necessità di farsi DEVOTUS [22]. Come rileva Sacco, il semplice DESIGNATUS avrebbe forse brandito solo le armi, senza ricorrere a gestualità esclusive di colui che deteneva l’IMPERIUM, in nome di una data e sublimata gerarchia. In fondo nonostante il SACRAMENTUM che legava il soldato al generale, era quest’ultimo, per via del suo IMPERIUM, che si pone sì, a capo dell’esercito, ma maggiormente si configurava come il responsabile verso la RES PUBLICA e verso gli dei [23].

Ora il mento, in molte culture indoeuropee era inteso come “centro energetico” e il contatto con la mano esplicherebbe una valenza semantica atta a voler chiamare la potenza divina, a che essa, si trasferisse sull’operatore rituale in una forma di auto consacrazione [24]. Ma attenzione, non si vuole così avvalorare la tesi della “magia di contatto”; l’assunto che è alla base della DEVOTIO, resta sempre la procedura rituale e con essa le disposizioni che il PONTIFEX MAXIMUS, suggerisce all’operatore rituale, perché di pertinenza dei pontefici e del loro collegio. Senza contare l’assoluta centralità del CARMEN, basti pensare al riferimento in Plinio, della centralità della preghiera, esposta ponendo a EXEMPLUM proprio il CARMEN DEVOTIONIS con cui i due DECII si votarono. E’ come detto, il rito a conferire valore all’azione del DEVOVENS, l’auto consacrazione ne è solo un aspetto e la magia ne è del tutto esclusa, perché incompatibile ad un assetto pubblico e altamente demitizzato come il romano. Nemmeno analogie o sovrapposizioni vanno ricercate, nell’equiparazioni tra DEVOTIO e DEFIXIO, sempre per l’antitesi pubblico – privato e sopra ogni cosa per il senso di responsabilità dell’operatore che le mette in pratica. Il DEVOVENS va incontro ad una morte consapevole e necessaria al bene della RES PUBLICA, situazione del tutto assente nelle DEFIXIONES.

Tito Livio, nella sua rappresentazione dell’ACTIO RITUALIS della DEVOTIO al Veseri, non menziona con quale mano il MAGISTRATUS si tocchi il mento. Supponendo una dicotomia CELESTE/CTONIO con DESTRA/SINISTRA in ambito rituale, avremmo agio di asserire fosse piuttosto la mano sinistra a toccare il mento [25]. Senza dover rimarcare in questo caso specifico la divina sacralità della destra, rispetto al settore di pertinenza della sinistra, oscuro e negativo, si deve analizzare il contesto della DEVOTIO. Allora avremo un rito strutturato attorno alla madre Terra e alle divinità infere, alle quali il DEVOTUS vota se stesso e le armate nemiche; per dirla con Silvio Curletto siamo davanti ad una “inversione della norma” [26]. Del resto il rito è molto particolare; Livio non avrebbe mai potuto scrivere “manu subter togam ad mentum exserta”, qualora il toccamento del mento venisse effettuato con la destra, abitualmente scoperta e regolarmente utilizzata nell’officiare riti religiosi. Per quanto fosse la destra a regolare la vita umana, in casi del tutto particolari, si rendeva del tutto necessaria una inversione della norma [27]. Quando un ordine e un equilibrio si spezzavano, soltanto una nuova rottura, avrebbe ricondotto all’ordine precedentemente spezzato, dunque attraverso un’inversione della norma; ed è in questa chiave ermeneutica che, la sinistra, prende il posto della destra. Sempre in questa chiave ermeneutica, la mano sinistra assume una duplice valenza semantica: il “potere sprigionato dalla gestualità rituale diventa favorevole per chi lo usa ma pestifero e sfavorevole per chi la subisce” (L.Sacco). La battaglia è di fatto in una sua assoluta criticità, l’equilibrio e ordine antecedenti, quasi perduti; nelle due battaglie del VESERI e SENTINO, l’ala sinistra degli schieramenti romani è comandata dai due devoti, consoli plebei e in breve margine di tempo, è in rotta; il MAGISTRATUS CUM IMPERIO, allora con un inversione di norma, ripristina l’ordine antecedente e la vittoria dei romani [28].  Nell’imminenza dello svolgersi della battaglia il console plebeo, sopperisce alla mancanza di perizia militare nei confronti del collega patrizio, attraverso la DEVOTIO [29]. Il braccio sinistro è rivolto al suolo, in una direzione specifica, tesa ad esprimere gestualmente il suffisso DE, legato alla DEVOTIO, ovvero rivolto al basso, ai MANES e a TELLUS; l’avambraccio e la mano invece, disposti verso il mento, fino a toccarlo. Hertz, suppone verosimilmente, il braccio destro sia rivolto in alto, verso le divinità celesti. Allora pur stimando molto suggestiva e forse corretta la tesi dell’inversione della norma, potremmo chiederci se il semplice toccamento del mento con la sinistra, non fosse una logica insita in stessa del rito; nel concreto, stimando il DEVOVENS oggetto e soggetto del rito, egli comunque afferra la vittima.

SUPER TELUM SUBIECTUM PIEDIBUS STANTEM.

In ultimo, Livio menziona la postura del DEVOVENS stante su di una lancia (TELUM). Ora nonostante il più che probabile richiamo a Marte, questa lancia, che mai sarebbe dovuta finire nelle mani dei nemici, non dovrebbe essere intesa come feticcio. Tuttavia non manca chi come il Groh sosteneva il DEVOVENS doveva rimanere stante ed inerme, sicché per TELUM, sarebbe più corretto parlare di TEMPLUM, necessario per officiare il rito. Questa interpretazione osta con il carattere pressante del contesto del rito, nel quale la pressante battaglia che volgeva al peggio, rendeva difficile procedere all’inaugurazione del luogo. Certo ancora una volta abbiamo un elemento come il giavellotto, la stessa arma che il DEVOVENS dovrà usare contro i nemici, che simbolicamente rappresenterebbe un veicolo di trasmissione di potere con le forze ctonie. Ma ancora una volta più che rimarcare un contesto di “magia di contatto”, è la gestualità rituale e il rito nel suo complesso a dare valore alle azioni del DEVOTUS, giuridicamente e religiosamente IUSTUS. Sebbene la DEVOTIO nella sua particolarità, trova un ampia letteratura che vorrebbe inserire o provare a farlo, una canonizzata “magia”, in seno alla RELIGO romana, si deve rimarcare un elemento basico e essenziale nella lettura di questo istituto. La DEVOTIO è prerogativa della scienza pontificale, del collegio dei pontefici, supremi garanti delle prerogative giuridiche e religiose del popolo romano; la DEVOTIO è una “procedura rituale”.

In ultimo seguendo la bella trattazione liviana della grande giornata di Sentino, lo stesso autore rileva come i fatti vennero diversamente amplificati, non soltanto dall’annalistica, quanto anche da una tradizione popolare legata ai canti militari celebranti la vittoria del collega patrizio Quinto Fabio e la morte gloriosa di Decio Mure, riconnesso al destino familiare del padre al Veseri. Andando più ritroso poi, nell’annalistica romana, scorgiamo nei fatti del 296, anno precedente alla battaglia di Sentino, molti elementi che ci conducono agli eventi come mostrati nell’annalistica del 295 (Livio X, 22-23). Q. Fabio chiese ed ottenne P. Decio come collega; a fronte di grandi prodigi, patrizi e plebei in parallelo fecero molte offerte agli dei. I due edili curuli OGULNII, tra le altre offerte, sostituirono la quadriga di Giove sul tempio Capitolino, inserirono i gemelli, sotto la Lupa esposta presso il Fico Ruminale e fecero pavimentare il percorso tra porta Capena e il tempio di Marte. Per converso gli edili plebei istituirono ludi e fecero portare coppe d’ora al tempio di CERERE. Nella DEVOTIO un ruolo centrale lo ha TELLUS, divinità congiunta a CERERE almeno in alcuni aspetti di culto [30]. Questo concetto di legame o affinità CERERE- TELLUS, rimanda alla semantica del COGNOMEN “MUS” relativo ai due DECII, padre e figlio, autori delle due DEVOTIONES. MUS rimanda ad un animale ctonio TOPO o SORCIO, animale inteso come veicolo di propagazione di morbi epidemici, (Livio rende il termine PESTEM); insomma un animale della sfera ctonia e infera di TELLUS. A voler intendere poi la DEVOTIO, una DEVOTATIO, nel senso di voler annullare i VOTA dei nemici [31], troveremo ampie corrispondenze all’azione dei topi esplicata dai due consoli MURES. Lo squittire dei topi era di cattivo augurio, definito OCCENTUS; allora il contro CARMEN dei DECII, potrebbe acquisire una valenza semantica specifica, ulteriore. Dunque un elemento legato a CERERE- TELLUS non a caso rappresentato dal console plebeo, DEVOTUS; il lupo che insegue la cerva ad inizio della battaglia e legato a MARTE padre del CONDITOR ROMOLUS, ulteriore riferimento a Marte potremmo scorgerlo nel giavellotto, arma con la quale il DEVOVENS si scaglia sui nemici; infine IUPPITER, colui che accetta il VOTUM del console patrizio Q. Fabio, concedente la vittoria ai romani e la morte del duce dei nemici Gellio Egnatio. Quinto Fabio il patrizio che, quasi novello Romolo, votò un tempio a IUPPITER VICTOR. Ma ciò non vuole rimarcare un connotato patrizio e plebeo, alla trattazione liviana; per converso, essa, vuole invece rimarcare quanto i vecchi ordini veicolino unitamente verso il bene comune, attraverso un’azione parallela. Questa supposta “triade” IUPPITER, MARS, CERES, vuole rimarcare come la concordia sia la base della RES PUBLICA.

Giovanni De Santis

Bibliografia essenziale.

Leonardo Sacco, DEVOTIO “Aspetti storico – religiosi di un rito militare romano”. Aracne editore, 2011 (opera centrale base dell’articolo).

Masselli, “la leggenda dei Decii”. 1999

Leonardo Sacco 2019, “ Brevi considerazioni sul cinctus gabinus” http://www.dirittoestoria.it/17/innovazione/Sacco-Brevi-Considerazioni-storico-religiose-cinctus-Gabinus.mht.htm

 

NOTE:

 

  1. MASSELLI, “La leggenda dei Decii. Un percorso tra storia, religione e magia. 1999
  2. Maurilio ADRIANI, “Italia magica. La magia nella tradizione italica”. 1970.
  3. Adriani. “Italia magica” 1970
  4. Leonardo Sacco. “DEVOTIO” 2011
  5. Sabbatucci, “Lo stato come conquista culturale” 1975; “Magia ingiusta e nefasta” in Magia.1976
  6. Sacco, 2011.
  7. Sacco, 2011; notevole il raffronto alla Corte di Cassazione, che valuta la procedura rituale di legittimità, nella contrapposizione tra RITUS e IRRITUS (pagg. 116-117).
  8. Benveniste, “Il vocabolario delle istituzioni indo- europee”.
  9. Sabbatucci 1976.
  10. Sacco, 2011.
  11. Raffaele Pettazzoni, “Italia religiosa” 1952.
  12. SERVIO, Ad AEN. V. 755; ISID.Etym. XIX24,7.
  13. Sacco 2011.
  14. Mommsen “Romische Geschichte”.
  15. Servio Ad AEN. V 612.
  16. “Quando non attinente al sacro si usava il verbo OBVOLVERE per esprimere la velatura del capo”. Cfr, Sacco 2011.
  17. Carafa. “Il Costume e l’aratro del fondatore”. In Carandini, “Romolo e Remo e la fondazione della città”. 2000.
  18. Piccalunga “Terminus”. Cfr. Porta IANUALIS posta tra il confine romano – sabino.
  19. Livio V, 46; Cfr. l’azione di Fabio Dursuo, che con cinto gabino attraversa le linee nemiche galliche, scendendo dall’assediato arce capitolino, per andare ad officiare un sacrum gentilizio sul Quirinale.
  20. Sabbatucci, “Lo stato come conquista culturale” 1975. Cfr. Nel testo pagg. 130- 148. Confutazione sulle tesi di magia da toccamento su DEDICATIO, LEGIS ACTIO SACRAMENTO IN REM, l’azione del VERBENARIUS con il sagmen e verbena sulla creazione del PATER PATRATUS e MANUMISSIO PER VINDICTAM.
  21. Deubner, “Die Devotion der Decier”.
  22. Sacco, 2011.
  23. Sacco, 2011.
  24. Sacco 2011; Oldenber “Die religion des VEDA”; per il tocco del mento, Naiden, “Ancient supplication”, Oxford, 2006.
  25. Hertz, “ La preminenza della mano destra”, 1909.
  26. Silvio Curletto, “La norma e il suo rovescio. Coppie di opposti nel mondo religioso antico”. 1990.
  27. Sacco, 2011; Curletto, 1990.
  28. D. Sabbatucci, 1975. Pag. 43, sul conflitto romano-veiente; vincere Veio e poi trasferire Roma a Veio così da occupare e possedere la concordia ottenuta dai veienti; vincere Veio e traferire Veio a Roma si da acquisire la concordia dei veienti. L’a. pone in risalto alternative romane, per ottenere concordia, non contemplanti in maniera assoluta una vittoria di Veio.
  29. Montanari, “Devotio”, Enciclopedia Virgiliana, 1988.
  30. Wissowa, “Realencyklopadie der classichen”; cfr, Ovidio Fasti, I 671,679.
  31. Jensen, “Some unexplored aspects of the Devotio Deciana”1981.

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