Il Flamen Dialis: un simulacro vivente di Giove

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I Romani sono il popolo pio per eccellenza, vengono definiti da Sallustio “Religiosissimi
mortales” (1) il loro capostipite Enea è appunto il Pius per antonomasia.
Per loro l’amministrazione della res publica è cosa sacra, e tramite l’amministrazione dei
sacra si governa la res publica, la Religio stessa è cosa politica a Roma.
L’Urbe, ” nei templi della quale non si è lungi dal cielo” (2), è la più perfetta
manifestazione in terra dell’ordine divino,erede della Saturnia Tellus.
Per convogliare le energie divine, per trarre ed interpretare gli auspicia e i signa,
manifestazione tangibile della volontà dei numi, e per celebrare i riti e i sacrifici, che
costantemente vivificano il rapporto privilegiato di Roma con gli dei, i romani istituirono
numerosi collegi e classi di sacerdoti.
Questi specialisti dei sacra sono gli interlocutori per eccellenza nel fare da tramite tra la
civitas e gli dei celesti, ognuna di queste figure incarna e trasmette un’antica tradizione;
fatta di riti e liturgie sacrificali trasmesse di generazione in generazione, una sapienza
arcana e segreta che rimarrà spesso immutata di secolo in secolo, testimone di
un’epoca antica persino per gli stessi romani.
In queste pagine parleremo di uno di questi tecnici: il Flamen Dialis.

I Romani hanno contezza del destino vittorioso che attende l’Urbe in virtù del loro patto
ancestrale con gli Dei: la Pax Deorum. Essi sono inevitabilmente destinati a realizzare
nel mondo fenomenico l’ordine cosmico di Giove Ottimo Massimo. È lo stesso Iuppiter a
dichiarare: “Al loro dominio (dei Romani) non pongo né limiti di spazio né di tempo: ho
promesso un impero infinito.” (3) Il dispiegarsi, nel giro di pochi secoli, della maestà di
Roma in tutto il bacino del Mediterraneo e oltre è qualcosa che non può spiegarsi se non
con le fortunate parole di Plutarco, che, con ammirazione, afferma: “Roma non avrebbe
potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina
tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile”. (4)
Indicativa del privilegiato rapporto tra i Quiriti e il Divino è la figura del Flamen Dialis che
incarna l’unio mistica tra la Res Publica e Iuppiter. Un’indicazione sulla importanza di
questa “statua vivente di Giove” nel sistema religioso romano ci viene da Festo, che
elenca l’Ordo Sacerdotum, l’ordine dei Sacerdoti secondo la loro dignità: “Il Rex è
considerato come il più grande, poi viene il Flamen Dialis, dopo di lui il Martialis, al
quarto posto il Quirinalis, al quinto il Pontifex Maximus.(…) il Rex perché é il più potente;
il Dialis perché è il sacerdote dell’universo, che si chiama Dium(..).”(5)
Il Flaminato di Giove ha origine antichissime che si perdono negli albori della monarchia:
Livio riporta la tradizione che vuole i Flaminati maggiori (oltre a quello di Giove: il
Flamine di Marte e il Flamine di Quirino) (6) istituiti direttamente da Numa, il Re attribuì
al Flamen Dialis “servizi religiosi di pertinenza regale”. (7) Lo stesso Livio ci dice che al
Flamine Diale furono conferiti il privilegio della sedia curule, della toga pretesta (riservata
ai più alti magistrati e bordata di rosso: colore sacro a Giove), quello di poter sedere in
Senato e, unico tra i sacerdoti (come le Vestali) il Flamine di Giove veniva preceduto da
un littore: tutti eloquenti simboli dello stretto vincolo rituale di questo sacerdote con la
regalità di Iuppiter. Il connubio tra il Flamine di Giove e la regalità si conserverà anche
dopo la cacciata dei Re e con l’istituzione della Repubblica: stretti rimarranno ,infatti, i
rapporti tra il Rex Sacrorum e la Regina con Flamen e Flaminica (la moglie del Flamen).
Il Sacerdote celebrava infatti insieme con la consorte, il Rex e la Regina nella Regia
sacrifici destinati congiuntamente a Giove, Giunone e Giano quali signori e reggitori del
tempo.
Lo stretto rapporto del Flamen col Rex, il suo abbigliamento, le norme di comportamento
estremamente esigenti, la sua situazione onorifica non mutano attraverso il periodo della
Repubblica e portano (concordemente con quanto tràdito da Livio) a ritenerlo un “fossile
vivente” (8), un’immagine della Roma primigenia; in nessun momento della storia ci
sono elementi che fanno pensare che a partire da un dato momento questo sacerdote
(come del resto il Rex Sacrorum e gli altri due Flamini Maggiori) sia stato incaricato di
fare qualcosa che già non facesse agli albori della storia dell’Urbe.
Un ulteriore indizio in questo senso è rappresentato dal fatto che il numero dei Flamines
Maiores non mutò mai durante la storia romana (a differenza per esempio del numero
dei Pontefici) (9) perché le loro competenze rimasero fisse (a differenza di quelle dei
Pontefici): sempre vi fu un solo Flamine di Giove, un solo Flamine di Marte e un solo
Flamine di Quirino: il Flaminato non divenne mai un sacerdozio collegiale. Ognuno dei
tre Flamini era un sacerdote autonomo, collegato alla divinità dalla quale prendeva il
nome.
Il Flaminato era riservato ai Patrizi: i tre Flamini Maggiori dovevano nascere farreati (cioè
da matrimonio di genitori sposati con confarreatio), essi stessi dovevano contrarre
matrimonio unicamente tramite confarreatio: la forma sacra di unione riservata ai patrizi.
La cerimonia, come è noto, prendeva il nome dalla focaccia di farro consacrata a Giove
Farreo e divisa tra gli sposi. (10) La sacra cerimonia ierogamica in uso tra i patrizi
richiedeva la presenza del Pontefice Massimo e appunto del Flamine Diale (oltre che di
testimoni patrizi). Il Flamine di Giove rimaneva in carica per tutta la vita, egli non poteva
divorziare e se la sua consorte moriva egli perdeva la carica. Il nuovo Flamine Diale
veniva capto dal Pontefice Massimo (cioè scelto) tra una lista di nomi proposti dal
popolo riunito nei comizi curiati, una volta selezionato in questo modo egli doveva
essere inaugurato (unici tra i sacerdoti a dover esser inaugurati i Flamini Maggiori,il Rex
Sacrorum e gli Auguri); l’inauguratio era quell’azione rituale che conferiva effettivamente
i poteri mistici sacrali al sacerdote, che da quel momento entrava in comunione con il
Divino.
Abbiamo accennato prima a “servizi religiosi di pertinenza regale” che spettavano al
Flamen Dialis e a particolari e decisamente arcaiche norme di comportamento che si
conservarono immutate nei secoli; andiamo ad approfondirle. Quanto ai riti di spettanza
del Flamine, il solito Livio ci riporta una particolare liturgia in cui eccezionalmente (11) i
tre Flamines Maior si recavano congiuntamente (e qui sta l’eccezione) una volta l’anno a
sacrificare nella cappella di Fides:” Egli(Numa) decise che i Flamini si recassero a quella
cappella in un carro coperto, tirato da due cavalli, e che offrissero il sacrificio con la
mano destra avvolta fino alle dita”. (12) È risaputo che alla Dea Fides, la
personificazione della fides (intesa come Fedeltà ad un giuramento, ad un patto, alla
parola data…) fu sin dai primordi tributato culto dai romani prischi (essa viene ritenuta la
dea favorita di Numa, del fondatore cioè dei sacra e di colui che istituisce i Flamines
Maiores) (13). La fides secondo Livio distingue il cives romano di fronte al barbaro: su di
essa intesa come aderenza incondizionata ad un patto giurato (che naturalmente può
essere anche un patto con gli Dei, ed ecco che allora su fides si fonda la religio) si regge
la Virtus, senza fides la Virtus decade, il mos maiorum decade, in definitiva i popoli
decadono. Il culto di Fides è appunto antichissimo, sta quasi a fondamento dell’edificio
spirituale Romano; nel 250 a.c. alla dea viene dedicato un nuovo luogo di culto, un
tempio (aedes Fidei populi romani) sul Campidoglio, non a caso vicino al tempio di
Giove Ottimo Massimo, che come dio supremo era pure rappresentazione metafisica del
giuramento e della lealtà (Jovis Fiducia). (14)
In relazione a questo aspetto della sovranità di Iuppiter signore del giuramento stanno
alcune norme che regolano la vita del Flamen Dialis:esso unico tra i romani è escluso
dal giurare (iurare Dialem fas nunquam est); come rappresentazione/incarnazione
terrena di Giove si estendono al sacerdote le caratteristiche del suo dio: Giove è signore
del diritto e assolutamente libero, nel suo sacerdote ciò si ritroverà sotto forma di un
eloquente simbolismo. Il Flamine allora sarà esente dai limiti che valgono per gli altri
uomini, e perciò esso non porterà su di sè alcun “vincolo”: esso non porta nodi sul
copricapo, nè alla cintura, nè altrove; può portare solo anelli che siano cavi e con
montatura “aperta”. Per la sua essenza comune a quella del suo dio, egli essendo
absoluto sospende con la sua sola presenza l’esecuzione delle pene: se un uomo
condotto dai carnefici si getta supplice ai suoi piedi diventa sacrilego batterlo con le
verghe in quello stesso giorno, di più: se un uomo incatenato entra nella sua casa
bisognerà liberarlo e le catene saranno gettate dal tetto.
Il Dialis è talmente partecipe della natura divina dell’essere supremo da cui prende il
nome che per lui ogni giorno è feriatus: nessun giorno è per lui profano, esso è il sacro
fattosi carne; essere puro e sacro per eccellenza, a questo rimandano altre regole di
condotta, egli rifugge tutto ciò che è profano e fonte di contaminazione: non può
assistere a roghi funebri, non può star in presenza di cadaveri, non deve entrare in
contatto con carne cruda. Egli è costantemente ed in ogni momento avanguardia nel
mondo fenomenico di ciò che è nel mondo noumenico: giorno e notte egli porta su di sè
una parte dell’abbigliamento che lo contraddistingue. Al di fuori della sua casa sul
Palatino non può togliersi i suoi paramenti: non può mai mostrarsi svestito alla divinità,
indossa costantemente l’apex (copricapo di cuoio bianco in cima ad esso era fissato un
rametto di ulivo da cui si dipartiva un filo di lana).
Essendo il Flamine di Giove l’incarnazione stessa del patto tra il sovrano divino e la Res
publica, egli doveva a garanzia della Pax Deorum, e della continuità del flusso di energie
metafisiche che incanalava a favore del popolo, mantenere costantemente il contatto
con il suolo di Roma: dimostrazione di ciò i piedi del suo letto erano spalmati con del
fango di modo che anche dormiente non perdesse questo contatto col suolo
romano(nessuno oltre a lui poteva dormire in quel letto). Era stabilito che egli non
potesse dormire al di fuori della sua residenza sul Palatino per più di tre notti e non
potesse lasciare Roma nemmeno per una notte. La sua stessa residenza era sacra: il
fuoco del suo braciere non poteva esser prelevato se non per usi rituali e di fianco al
letto il sacerdote doveva costantemente tenere delle focacce sacrificali. Un’altra serie di
limitazioni riguardavano l’ambito guerresco: egli non poteva salire a cavallo(animale
collegato a Marte e alla guerra) (15) e non doveva vedere le truppe schierate al di fuori
del pomerium.
Iuppiter rimarrà Re celeste e folgoratore, signore del diritto e del cosmos, soccorritore
dei più alti magistrati come lo era stato del re,il patronato della forza guerresca andrà
invece a Marte, che insieme a Giove e a Quirino è parte di una triade, in cui ai diversi dei
corrispondono diverse funzioni (di questo sono espressione terrena i tre autonomi e
differenziati Flamines Maiores), stante la supremazia regale di Giove. Alla supremazia
universale di Giove rimanda un altro rito officiato dal Dialis: egli alle Idi conduceva
solennemente in processione lungo la via sacra un agnello bianco fino al tempio
capitolino per poi sacrificarlo. Il motivo per cui le Idi sono sacre a Giove (generalmente
oltretutto il dies Natalis dei templi di Giove cade proprio un giorno di Idi) è che esse si
trovano al culmine del mese, come Iuppiter al culmine dell’ordo deorum. Giano invece,
divinità degli inizi, era il patrono delle Calende, poste all’inizio del mese; le parole di
Varrone: “Giano governa ciò che è primo(prima) e Giove ciò che è più alto(summa). È
dunque giusto che Giove sia considerato re universale, poichè il compimento pur
avendo il secondo posto in ordine di tempo ha il primo posto in ordine di importanza.”
Ulteriore rito carico di significato e associato alla sovranità del sommo Iuppiter è quello
che il Flamine officia in occasione dei Vinalia, feste del vino: una dedicata alla
maturazione dell’uva pronta per esser raccolta e la successiva dedicata al vino pronto
per esser bevuto la primavera successiva. In occasione della maturazione dell’uva il
sacerdote di Giove, dopo aver sacrificato un agnello per garantire l’abbondanza della
vendemmia, tagliava il primo grappolo maturo e lo offriva al Dio. Il rapporto della divinità
suprema con il vino è qualcosa di radicalmente diverso dal collegamento che esiste tra
le numerose divinità agrarie e i vari tipi di raccolto: il vino non è un prodotto qualsiasi,
non un semplice nutrimento ma una bevanda inebriante e magica. Questo rapporto si
inserisce in un contesto analogo ad altre tradizioni: Indra, divinità vedica e dio guerriero,
compie le sue imprese ebbro di soma, nettare sacro con cui i sacerdoti lo nutrono
tramite sacrifici; allo stesso modo il miglior idromele spetta ad Odino, re degli dei e
mago, e dall’idromele egli ricava sapienza e poesia. (16) Vi è inoltre un precedente
mitico che viene riportato (tra gli altri) da Ovidio nei Fasti: durante la guerra tra Enea e
Turno, questi chiese aiuto al re etrusco Mezenzio, il quale chiede in cambio (o secondo
altre versioni è Turno ad offrigli) la vendemmia di quell’anno(o metà di essa): Enea allora
fa voto a Giove di offrirgli tutto il vino del Lazio, il dio persuaso, accorda la vittoria e il
potere sul Lazio ai troiani.
In conclusione possiamo dire che questo “fossile vivente”, come abbiamo già avuto
modo di definire il Flamen Dialis, è retaggio di un’epoca antica, persino per gli scrittori
romani che si trovano ad elencare le sue rigidissime norme di comportamento,dal
significato spesso difficilmente intelligibile già ai loro tempi,e arrivate a noi (a differenza
delle poche nozioni sui Flamini Marziale e Quirinale, senza parlare dei Flamines minores
di cui non sappiamo praticamente niente) proprio perché risultavano vetuste e
“curiose”ai loro occhi. Il Dialis, come del resto il Rex dei sacrifici, non subisce lo scorrere
del tempo: continuerà a svolgere le stesse funzioni e ad esser sottoposto alle stesse
norme col passare dei secoli. Queste due figure così connesse tra loro (17) sono
accomunate ulteriormente dall’incompatibilità della loro carica con qualsiasi magistratura
laica (a differenza per esempio di quel che è per il Pontifex) il che, unitamente al fatto
che si trattava di un sacerdozio a vita, fece sì che il Flaminato Massimo non fosse una
carica ambita dai patrizi con velleità di scalare il cursus honorum. Retaggio di un’età
passata, coloro che stavano deontologicamente all’apice dell’ordo sacerdotum
formalmente, finirono per esser scavalcati quanto ad influenza dal Pontefice Massimo.
Questo nel mondo degli uomini; nell’immutabile ontologia noumenica il Flamen rimarrà
sempre ciò che era ab origine: “estremità sensibile di un fascio di correlazioni mistiche”
con il divino (18) ,sacro ancor prima per la sua persona che per la sua competenza
tecnica nel compiere i riti; come rileva Plutarco “una rappresentazione animata e sacra”,
simulacro vivente di Giove.

Note:
(1) Sallustio, De Catilinae coniuratione, (12)

(2) Rutilio Namaziano, De reditu suo ( I,50)
(3) Virgilio, Eneide ( I,278,279);
(4)Plutarco, Vita di Romolo (I,8);
(5) Festo, De verborum significatu (198-200);
(6) oltre ai tre Flamines Maiores esistevano altri dodici Flamines minores, di queste
figure minori non ci è rimasto praticamente altro che il nome:Flamen Cerealis, Flamen
Falacer,Flamen Volturnalis,Flamen Florealis,Flamen Pomonalis ecc ecc.
Erano Flamini legati a culti di tipo agreste,la cui importanza diminuirà via via.

(7) Livio Ab Urbe condita (I,20): ” Ma poiché pensava che in un popolo bellicoso ci
sarebbero stati più Re simili a Romolo che a Numa, e che essi avrebbero partecipato
personalmente alla guerra, per evitare che si trascurassero i riti di pertinenza regale creò
un Flamine addetto in permanenza al culto di Giove(…).

(8) Dumezil, La religione romana arcaica, Bur Rizzoli, p. 108

(9) I membri del collegio pontificale aumentarono da cinque fino ad arrivare al numero di
sedici, indizio insieme ad altri, che qui non posson venir approfonditi, di un aumentare
delle loro competenze e della loro sempre maggiore preminenza sulla vita religiosa
romana che ,a differenza di quanto avveniva nel caso dei Flamini, spesso gli permetteva
un “invasione” nel campo della politica attiva.
(Non serve ricordare che quella di Pontefice Massimo fu una carica spesso ambita
anche da chi ambiva alle più alte cariche laiche del cursus honorum);

(10) L’altro tipo di matrimonio, l’unico che i plebei potevano contrarre, era un matrimonio
profano, per usus, al titolo di mera proprietà della donna che passa in manum viri.
Le unioni dei plebei erano viste dai patrizi in modo non troppo dissimile dalle unioni tra
gli animali: more ferarum; tuttavia il complicato sacramento della confarreatio verrà con
lo scorrere del tempo abbandonato da sempre più patrizi rendendo difficoltoso per
questo motivo la nomina dei Flamini Maggiori(servivano dieci testimoni nati farreati e
sposati tramite lo stesso rito e ad un certo punto in una Roma imperiale sarà difficile
trovare patrizi con questi requisiti).

(11) I Flamini sono per loro propria natura sacerdoti indipendenti e separati; non
possiedono una cappella comune, nè esiste una casa dei Flamini: la loro riunione per
celebrare Fides ha un’eccezionale rilevanza, ciascuno di loro è normalmente autonomo,
in comunione costante con il suo proprio dio: insieme essi sono la sintesi della teologia
della Res Publica.

(12) Livio, Ab urbe condita (I,21) “(…) ad indicare che la Fides non deve essere violata,e
che nella mano destra essa ha la sua sacra sede.”

(13) Dionisio di Alicarnasso: “Non vi è sentimento più elevato,più sacro,della Fides e
tuttavia essa non riceveva culto nè pubblico nè privato: consapevole di tale verità,
Numa, primo fra gli uomini, fondò un santuario della Fides Publica e istituì in suo onore
dei sacrifici pubblici ,così come ne vengono tributati alle altre divinità.”
(Antichità Romane: 2, 75, 2-4)

(14) La qualità di Giove come dio supremo reggitore e vendicatore di patti e giuramenti,
così come la sua funzione di garante e testimone lo accomuna agli dei sovrani dell’India
vedica Varuna e Mitra, e, naturalmente, al più vicino Zeus.

(15) La familiarità di Marte col cavallo da guerra è sottolineata (se mai ve ne fosse
bisogno) dall’unico rito proprio del Flamine Marziale che sia giunto a noi: l’ October
Equus, sacrificio rituale annuale che avveniva nel Campo Marzio.
(L’immolazione del cavallo era pure uno dei riti più importanti dell’India vedica: l’
Aśvamedha, e lo stesso tipo di sacrificio è attestato pure in ambito iranico).

(16) Un’altra mitica vicenda che riporta alla sacralità e al legame tra il vino e gli dei è
quella di Attio Navio che offre in voto il più grosso grappolo della vigna agli dei se lo
avessero aiutato a ritrovare un maiale del padre.
Divisa la vigna in quattro sezioni, guidato dal volo degli uccelli egli trovò un grappolo di
dimensioni straordinarie; segnato dalla volontà celeste egli divenne l’Augure del re.

(17) Con evidenti parallelismi tra altre coppie regali-sacrali: rajan e bráhman dell’India
vedica, il rì e il suo druido personale in ambito irlandese.

(18) Dumezil, La religione romana arcaica, Bur Rizzoli, p. 496

Bibliografia:
Sallustio, De Catilinae coniuratione
Rutilio Namaziano, De reditu suo
Virgilio, Eneide;
Plutarco, Vite Parallele;
Festo, De verborum significatu;
Dumezil, La religione romana arcaica, Bur Rizzoli;
Livio, Ab Urbe condita;
Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane.

 

 

Luca Corvi

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