<Poi, quando il potere regio, sorto in principio per conservare la libertà e ingrandire la Cosa Pubblica, degenerò in una superba tirannide, mutarono sistema di governo, si diedero due capi che avessero potere annuale: in questo modo pensavano che l’animo umano non potesse più insolentire senza freni. Ora, a quel tempo, ognuno cominciò a sollevare le sue aspirazioni e a mettere maggiormente in mostra il suo ingegno. Infatti i re hanno in maggior sospetto i buoni che i malvagi, e sempre incute loro timore il valore altrui. Ma conquistata la libertà, è incredibile a dirsi la rapidità con cui la città crebbe: tanto la percorse il desiderio di gloria. In primo luogo la gioventù, non appena adatta alle armi, con strenua fatica apprendeva in campo l’arte della guerra; lì prendeva brama delle belle armi e di cavalli, più che di cortigiane e di festini. Dunque per tali uomini non v’era fatica insolita, non luogo aspro o arduo, non nemico terribile in armi: il valore domava tutto. Ma il più ardente conflitto per la gloria era fra loro stessi, ognuno anelava colpire un nemico, scalare un muro, essere scorto mentre compiva tale impresa. Queste ritenevano essere le ricchezze, questo il buon nome, questa la grande nobiltà. Avidi di gloria, erano liberali di denaro, volevano grande fama, oneste ricchezze>
Sallustio, Congiura di Catilina, 7-8