Come decade una nazione

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Sallustio, De Coniuratione Catilina, 10-14

<[dopo che fu vinta Cartagine furono] aperti ai vincitori tutti i mari e le terre, la fortuna cominciò a incrudelire e a rimescolare tutto. Quelli stessi che avevano sopportato travagli e pericoli, situazioni incerte e aspre, trovarono nella quiete e nelle ricchezze -beni fino allora desiderabili- peso e misura. Crebbe la cupidigia, prima di danaro, poi di potenza: ciò fu, per così dire, alimento di ogni male. Infatti l’avidità sovvertì la lealtà [fidem], sovvertì l’onestà ed i buoni costumi; al loro posto insegnò la superbia, la crudeltà, a trascurare gli Dei, avere tutto in vendita [omnia venalia habere]. L’ambizione spinse molti a diventare bugiardi, ad avere una cosa sulle labbra e l’altra chiusa nel cuore; fare calcoli dell’amicizia e dell’inimicizia: non del merito ma dell’utile, essere più buoni in faccia che di indole. Queste sfortune dapprima crebbero lentamente, e furono talvolta punite; poi, quando il contagio dilagò come una pestilenza, la città fu sconvolta, il governo prima giusto e buono, diventò crudele e intollerabile.

Ma dapprima l’ambizione più dell’avidità tormentavano l’animo degli uomini, poiché è tuttavia un vizio, ma molto più vicino alla virtù. Infatti sia l’uomo valoroso sia l’ignavo desiderano gloria, onore, potere; ma il primo li persegue per la via giusta, l’altro, poiché manca di buoni mezzi, cerca di raggiungerli con inganno e menzogne. L’avidità reca in sé la brama di denaro, che mai nessun saggio ha desiderato: essa, quasi imbevuta di veleni perniciosi, effemina il corpo e l’animo virile; è sempre infinita e insaziabile, non è sminuita né dall’abbondanza né dalla penuria. Ma dopo che Silla, conquistato con le armi il potere, da buoni inizi ne ebbe di cattivi: tutti si diedero a rapine, a ruberie, a desiderare chi una casa intera, chi una fattoria, e i vincitori a non avere né misura né moderazione, a compiere contro i cittadini azioni turpi e crudeli. A ciò aggiungi che Silla, per rendersi fido l’esercito che aveva guidato in Asia, contro il mos maiorum lo aveva tenuto nelle mollezze e nel lusso eccessivo. Luoghi ameni e viziosi avevano facilmente ammorbidito nell’ozio e l’animo fiero dei soldati. Ivi per la prima volta l’esercito del popolo romano si avvezzò a fornicare, a bere, ad ammirare le statue, i quadri, i vasi cesellati, a strapparli ai cittadini privati o alle comunità, a spogliare i templi, a violare il sacro ed il profano. Dunque questi soldati, ottenuta la vittoria, non lasciarono nulla ai vinti.
E certo se una condizione fortunata mette a prova l’animo dei saggi, tanto meno quelli di corrotti costumi potevano moderarsi nella vittoria.

Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere in onore, e la gloria, il potere, la potenza a seguirle, il valore cominciò a infiacchirsi, la povertà ad essere tenuta in conto di disonore, l’integrità ad essere ritenuta malevolenza. Dunque, dopo le ricchezze, la lussuria, l’avidità insieme con la superbia invasero i giovani; rapinare, dissipare, stimare poco il proprio, desiderare l’altrui, senza distinzione vergogna e pudicizia, la cosa umana e quella divina mischiate *, nulla avere di ponderato e di moderato. Vale la pena quando abbia conosciuto case e ville a guisa di città, visitare i templi degli Dei che i nostri avi, uomini devotissimi, fecero costruire. Ma essi abbellivano i santuari con la pietà, le loro case con la gloria, e ai vinti null’altro strappavano che la licenza di nuocere. Questi di contro, uomini vilissimi, per colmo di scelleratezza, strappavano agli alleati i diritti che uomini fortissimi, sebbene vincitori, avevano lasciato loro. Come se nell’arrecare offesa dovesse propriamente consistere l’esercizio del potere.

Infatti perché ricordare cose da nessuno credibili se non da chi le ha viste, monti spianati, mari interrati da molti privati cittadini? Per essi mi pare che le ricchezze fossero divenute un trastullo; infatti si affrettavano a sperperarle vergognosamente invece di investirle onestamente. Né con minore violenza li aveva presi la libidine dello stupro, della gozzoviglia e di altri piaceri; uomini soggiacevano in atti di femmina, donne facevano scempio di ogni pudore; per ingozzarsi frugavano dovunque in terra e in mare; dormivano prima di aver sonno; non aspettavano la fame, la sete, né il freddo, né la stanchezza; ma con raffinata mollezza ne prevenivano l’arrivo. Tutto ciò, dissipato il patrimonio, stimolava la gioventù al delitto: gli animi ingolfati nei vizi, non resistevano facilmente alle passioni; perciò con tanta maggior profusione si abbandonavano al guadagno e allo sperpero.

In una città così grande e corrotta, Catilina, faceva ciò che era facilissimo fare: raccoglieva intorno a sé tutti i vizi e i delitti come guardie del corpo. Infatti tutti i corrotti, gli adulteri, i crapuloni che con il gioco, con il ventre e con il pene avevano straziato le sostanze paterne, e coloro che avevano accumulato enormi debiti, con cui riscattare vergogne e delitti, e inoltre tutti i parricidi e i sacrileghi d’ogni specie, già condannati in giudizio o timorosi di esso per i misfatti (aggiungi poi quelli che sosteneva con la mano o la lingua con lo spergiuro e l’assassinio dei concittadini) infine tutti coloro che il disonore, la miseria ed il rimorso tormentava, erano gli intimi e i familiari di Catilina. Se qualcuno ancora esente da colpa cadeva nella sua amicizia, con la pratica quotidiana e le insinuanti lusinghe era reso pari e simile a tutti gli altri. Ma soprattutto egli ricercava l’intimità dei giovani: i loro animi ancora teneri e malleabili per l’età si lasciavano facilmente prendere nell’inganno. Infatti, secondo la passione di cui ciascuno per i suoi anni, agli uni procurava le prostitute, ad altri comprava cani e cavalli, e non badava a spese né al suo onore purché se li rendesse soggetti e fedeli.>

*divina atque humana promiscua ricordiamo infatti che nella visione romana il sacro [che viene da sacer, cioè separare] è una cosa distinta dalla vita umana nonostante il divino sia onnipresente. Nello specifico si riferisce a quanto dirà poco dopo dove disprezza l’uso di gingilli decorativi allo scopo di abbellire i templi. Sullo stesso tema anche Livio riportato da noi qui:

Emanuele Viotti

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