Discorso di Furio Camillo parte 1/3

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<Mi riescono talmente amare, o Quiriti, le contese coi tribuni della plebe che, finché vissi ad Ardea, non ebbi altro conforto nel mio tristissimo esilio, se non quello di star lontano da tali lotte, e proprio per questo motivo non sarei mai ritornato, neppure se mi aveste richiamato mille volte per decreto del Senato e per volere del popolo.

E anche ora non è stata una mutata disposizione d’animo che mi ha spinto a tornare, bensì la vostra sventura: che si tratta di far rimaner salda la patria sulle sue fondamenta, non di assicurare ad ogni costo la mia permanenza in patria. E anche adesso me ne stari volentieri tranquillo e in silenzio, se anche questa non fosse una battaglia in difesa della patria: abbandonarla, finché resta un alito di vita, per altri sarebbe una vergogna, per Camillo anche un delitto. A che scopo infatti l’abbiamo ripresa, a che scopo l’abbiamo strappata, assediata com’era , dalle mani dei nemici, se dopo averla riconquistata noi stessi l’abbandoniamo? E mentre quand’erano vittoriosi i Galli, pur essendo stata occupata tutta l’Urbe, tutti gli Dei e gli uomini romani seppero difendere il Campidoglio e la rocca, e la nostra buona sorte spopolerà questa città più di quanto non l’abbia spopolata la cattiva sorte? Certamente, anche se noi non avessimo riti religiosi costituiti insieme con la nostra città e tramandati di padre in figlio, pure un dio ha così manifestatamente assistito in questa occasione lo Stato romano, che credo non sia consentita ad alcuno la minima indifferenza verso il culto divino. Considerate infatti gli avvenimenti lieti o tristi che si sono succeduti in questi ultimi anni; constaterete che tutto è andato bene finché vi siete lasciati guidare dagli Dei, male quando li avete trascurati. E in primo luogo la guerra di Veio – per quanti anni, con quanta fatica la si è condotta! Non ebbe fine se non quando, per ammonimento degli Dei, fu fatta defluire l’acqua dal lago Albano. E, di grazia, questa recente rovina che s’è abbattuta sulla nostra città? E’ forse cominciata prima che si disprezzasse la voce mandata dal cielo sull’arrivo dei Galli, prima che dai nostri ambasciatori fosse violato il diritto delle genti, prima che noi, con la stessa negligenza dimostrata verso gli Dei, trascurassimo di punirli, mentre era doveroso farlo? E così, vinti, resi schiavi e riscattati, siamo stati talmente castigati dagli Dei e dagli uomini, da servire di esempio al mondo intero. Le sventure ci hanno poi ricordato i doveri religiosi. Ci rifugiammo sul Campidoglio presso gli Dei, presso la sede di Giove Ottimo Massimo; nella rovina dei nostri beni nascondemmo gli oggetti sacri sotto terra, altri li sottraemmo alla vista dei nemici trasportandoli nelle città vicine; non interrompemmo il Culto degli Dei, sebbene abbandonati dagli Dei e dagli uomini. E così essi ci hanno restituito la patria e la vittoria e l’antico onore militare che avevamo perduto, e hanno fatto ricadere sui nemici, che accecati dalla cupidigia violarono nel pesare l’oro la fede nei patti, il terrore, la fuga e la strage.
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Vedendo l’enorme importanza che ha nelle vicende umane il Culto o il disprezzo delle divinità, vi accorgete, o Quiriti, quale empietà ci apprestiamo a commettere, pur essendo appena scampati al naufragio d’una sconfitta ch’è la conseguenza della nostra colpa? Abbiamo una città fondata dopo aver preso gli auspici e gli auguri; non v’è luogo in essa che non sia pieno del Culto degli Dei; i giorni per i sacrifici solenni non sono meno determinati dei luoghi in cui li si deve celebrare. E voi, o Quiriti, volete abbandonare tutti questi Dei pubblici e privati? Che somiglianza c’è tra il vostro comportamento e quello per cui s’è fatto notare poco fa, durante l’assedio, destando l’ammirazione dei nemici non meno che la vostra, quel prode giovinetto Caio Fabio, quand’egli uscito dalla rocca in mezzo alle frecce dei Galli, andò a compiere sul colle Quirinale l’annuoale sacrificio della gente Fabia? O forse i riti gentilizi non devono essere interrotti neppure in tempo di guerra, mentre si trova opportuna che i riti pubblici e gli Dei Romani siano trascurati anche in tempo di pace, e che i pontefici e i flamini mostrino meno rispetto verso le cerimonie pubbliche di quanto ne abbia mostrato un privato cittadino in occasione dell’annuale sacrificio della sua gens? Forse qualcuno dirà che quei riti noi li celebreremo a Veio, o che di là manderemo qui i nostri sacerdoti per celebrarli; ma né l’una né l’altra cosa si può fare senza venir meno al cerimoniale. E per non passare in rassegna tutte le singole specie di riti e tutti gli Dei, forse che nel sacro banchetto di Giove, il pulvinare, può essere preparato altrove che sul Campidoglio? E che dirò del sacro fuoco di Vesta e della statua che, come pegno di dominio, è custodita in quel tempo? Che dirò dei vostri ancili, o Marte Gradivo, e tu, Padre Quirino? E si pensa di abbandonare in un luogo profano tutte queste sacre reliquie, antiche quanto l’urbe, e alcune perfino anteriori alla sua fondazione?
E vedete un po’ che differenza c’è tra noi e i nostri antenati. Essi ci hanno tramandato alcuni riti da celebrare sul monte Albano e a Lavinio: forse che, mentre ci si fece scrupolo di trasportare i sacri riti dalle città dei nemici a Roma, presso di noi, noi li trasporteremo nella città dei nemici, a Veio, senza commettere sacrilegio? Orsù, ricordatevi quante volte si rinnovano i sacri riti perché è stato trascurato, o per negligenza o per caso, qualche particolare del cerimoniale. Or non è molto, quale rimedio s’è trovato, dopo il prodigio del lago Albano, per la Repubblica estenuata dalla guerra contro Veio, se non il rinnovamento dei sacrifici e la ripresa degli auspici? Ma v’è di più: come memori degli antichi sentimenti religiosi, trasferimmo a Roma anche divinità straniere, e ne istituimmo di nuove. Che giorno memorabile fu quello in cui a Giunone Regina, ultimamente trasportata a Veio, si consacrò un tempio sull’Aventino! Un altro tempio facemmo innalzare ad Aio Locuzio per la voce udita nella via Nuova; alle altre solennità aggiungemmo i Ludi Capitolini, e a tale scopo costituimmo, su proposta del Senato, un nuovo collegio; che bisogno c’era di prendere queste iniziative, se intendevamo lasciare insieme con i Galli la città di Roma, se non siamo rimasti sul Campidoglio durante tanti mesi d’assedio per nostra volontà, ma trattenuti dal timore dei nemici? Noi parliamo di riti e dei templi; e i sacerdoti? Non pensate quale sacrilegio si commetterebbe? Per le Vestali non v’è in realtà che una sola residenza, dalla quale nessun motivo le ha mai allontanate, tranne la presa dell’Urbe; al Flamine Diale non è lecito rimanere una sola notte fuori dalla città. Di questi sacerdoti vuoi state per fare dei Veienti anziché dei Romani; le tue Vestali ti abbandoneranno, o Vesta, e il flamine, abitando in un paese straniero, ogni notte tirerà addosso a sé e alla Repubblica un simile sacrilegio? E le altre cerimonie che noi compiamo dopo aver preso gli auspici, quasi tutte entro il pomerio, come possiamo porle in oblio o trascurarle? I Comizi Curiati, da cui dipendono le questioni militari, e i Comizi Centuriati, nei quali eleggete i Consoli e i Tribuni Militari, dove si possono tenere dopo aver tratto gli auspici se non nei luoghi soliti? Li trasferiremo a Veio? Oppure per i comizi il popolo, con grande disagio, converrà in questa città abbandonata dagli Dei e dagli uomini?

 

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